tanto per cambiare.
All’andata niente, tutto regolare, a parte la mezz’ora di ritardo, ma chi mai potrebbe affermare che ciò non sia regolare? Al ritorno, tanto per cominciare, in albergo mi chiamano il taxi e dicono fra due minuti. Arriva dopo quasi dieci, scusandosi: aveva un camion davanti e non c’era stato modo di sorpassarlo. Siccome detesto aspettare tempi biblici in stazione, mi organizzo sempre in modo da non arrivare troppo in anticipo, e di conseguenza il ritardo del taxi, unito al traffico intenso che rallenta notevolmente la corsa, non mi fa stare del tutto tranquilla, ma in compenso provvede la radio ad allietarmi: nel programma su cui è sintonizzata, infatti, in quel momento è ospite una sessuologa, che dall’alto della sua profonda dottrina provvede a informarci che alla base del rapporto sessuale c’è il desiderio, e voi che magari scopate come ricci ma esperti sessuologi non lo siete, scommetto che questo non lo sapevate. Ebbene, sapevatelo. Arrivo in tempo, comunque, ma praticamente a filo. Comprati i giornali, provate una mezza dozzina di macchinette obliteratrici prima di trovarne una funzionante – che io come sapete sono contraria alla pena di morte quasi senza eccezione, ma per chi ha inventato il nome di “obliteratrice” un pensierino tutto sommato lo farei – ho giusto il tempo di arrivare al treno. Che siccome nasce lì ed è lì sul binario da un bel po’, a un minuto dalla partenza è pieno come un uovo. Finalmente vedo un sedile vuoto, e al tizio seduto davanti, bianchiccio, grassoccio, con un’orrendissima maglietta nera firmata Calvin Klein – evidentemente dev’essere il destino delle persone di cognome Klein, di produrre unicamente porcate – chiedo, indicandolo: “Libero?” Il tizio mi rovescia addosso un mucchietto di parole russe. Ora, io il russo lo conosco decisamente poco, ma “sì” “no” “non so” lo capisco, e nel mucchietto di parole rovesciatemi addosso queste qui non ci sono. Allora, sempre indicando il sedile, chiedo: “Free?” E lui si mette a parlare, sempre in russo, col tizio che sta dall’altra parte del corridoio. Per fortuna la tizia che sta di fianco al sedile libero, immensamente larga e immensamente nera, alza per un attimo gli occhi dall’aggeggetto su cui sta intensamente giocando e dice yes, it’s free. E io metto su il trolley e mi siedo. (Qualche tempo dopo il tizio russo chiede qualcosa, ovviamente in russo, alla ragazza seduta di fianco a lui. Lei dice mi dispiace non capisco. Lui ripete la domanda, nello stesso identico modo; lei dice I’m sorry, I don’t understand, e allora lui desiste. E io mi chiedo come vada in giro per il mondo certa gente, senza non dico conoscere la lingua del posto, ma almeno cavarsela con una lingua di comunicazione. Vabbè). A Verona prendo la coincidenza e lì ci informano che fra due fermate dobbiamo scendere, trasbordare su autobus e poi riprendere il treno alla stazione successiva, per via di una frana che ha invaso la ferrovia, danneggiato un binario e rotto un pezzo di statale, e infatti gli autobus devono prendere l’autostrada.


Per tutto il tempo che sono in treno comunque devo stare a sentire un tizio che parla ininterrottamente al cellulare, a voce altissima, con velocità supersonica, con quei tipici suoni gutturali dei neri, stordendoci tutti. Siamo in cinque vicinissimi a lui, e continuiamo a guardarci sgomenti. A me dopo neanche dieci minuti, è già venuto mal di testa. Ogni venticinque-trenta secondi dice: “No John, amekkiu anexampel”, e io mi stupisco della stratosferica quantità di esempi di cui il tizio dispone. Vabbè, finalmente arriviamo, scendiamo, carichiamo le valigie sui quattro autobus che ci aspettano fuori dalla stazione e saliamo. Vicino a me una signora, salita per ultima, in ottimo italiano ma con pesante accento tedesco comincia a strepitare: “Ah, qui ci sono solo posti in piedi. Va bene, vorrà dire che andremo a farci restituire i soldi. In piedi. Non basta tutto questo disagio, anche in piedi ci tocca viaggiare!” “Signora, guardi che c’è un posto lì”. “Ah no, noi siamo in due, non so cosa farmene di un posto!” “Ah, allora guardi, lì ce n’è un altro, mi sposto lì così ne avete due vicini”. “Ah no, io lì non mi ci siedo”. “Ehi, signora, c’è un posto libero davanti, se vuole”. “Ah no, io da qui non mi muovo”. E ha fatto il viaggio in piedi.
Il tratto successivo più o meno bene. Tranne che con tutta questa storia ovviamente siamo arrivati un po’ in ritardo. Non così tanto da perdere la coincidenza, ma abbastanza da avere i secondi contati. E siccome davanti a me si era piazzata una ragazza che non dovendo prendere la coincidenza si muoveva alla dàmene una che te ne dago dó, quando sono finalmente riuscita a scartarla e passarle davanti mi sono dovuta mettere a correre a rotta di collo per il sottopassaggio e insomma risalendo sono inciampata. Sarebbe stato carino che nel violento scontro frontale si fosse frantumato il gradino di granito, ma invece si è frantumato il mio piede destro. Che adesso è tutto tumefatto con tre diti (diti. E che nessuno si azzardi a correggermi, perché il dito è mio e lo chiamo come voglio io) di uno spettacolare color indaco che avrebbe fatto morire di invidia Vincent van Gogh. A sinistra invece niente, lì ero già strettamente bendata per via della caviglia che mi ero semidistrutta la settimana scorsa. Comunque col bastone, muovendomi piano piano, qualche passo riesco a farlo. (Poi stamattina mi sono beccata una supplenza per ginnastica: quattro corridoi e due rampe di scale per raggiungere la classe, nove corridoi e otto rampe di scale per raggiungere la palestra, idem al ritorno, e tre corridoi e due rampe di scale per andare nella mia classe. Poi durante la partita di palla avvelenata mi sono beccata una terrificante pallonata sulla caviglia; ma per fortuna la palla era semi-morbida, e mi ha fatto male solo per un paio d’ore).
Shabbat shalom
barbara