Quando la tua casa brucia per il riscaldamento globale e i ghiacci si sciolgono e le città rivierasche vengono sommerse e intere regioni entreranno nel mito e nella leggenda come Atlantide
a chiara ferragni. Desidero precisare preliminarmente – per non rischiare che qualcuno si addentri nella lettura senza sapere che cosa vi troverà e si ritrovi poi in preda a crampi allo stomaco – che questo essere che ho grosse difficoltà a definire umano e una pressoché totale impossibilità a qualificare come donna, questo essere che pubblica i selfie con le mutande trasparenti fino a un millimetro dal clitoride,
con le tette al vento
o con roba come questa
(e una ha commentato: “e la fessa dove la metto?”), questo essere che prostituisce i figli fin da prima che nascano sfruttando ogni attimo della loro vita per i propri sordidi interessi, questo essere la cui faccia ha un’espressività in confronto alla quale la maschera di Anonymous batte in volata Sarah Bernhardt, Eleonora Duse e Paola Borboni messe insieme,
(si vede la spontaneità e la sincerità del sorriso, vero?)
(qui non c’è il filtro, e la pelle da ottantenne non lascia scampo)
questo essere i cui contenuti se li metti in un ditale resta ancora spazio da infilarci dentro un baule e un paio di valigie e forse anche un frigorifero, questo essere, dicevo, mi fa schifo. Schifo nel senso più letterale del termine, schifo come mi fa schifo il vomito, schifo come mi fa schifo la merda di diarrea che puzza di marcio, schifo come mi fa schifo mordere una mela e trovarmi il verme in bocca.
Ho provato ad ascoltare il “monologo”, giusto per farmi un’idea, o meglio, per vedere se confermava il nulla che è o se per una volta nella vita riusciva a tirare fuori qualcosa non dico di interessante, non dico di intelligente, non dico di un qualche valore, ma almeno di umano. Non ci è riuscita, o meglio non è neppure nelle sue possibilità provarci, perché di ciò che va al di là di “io io io io io” ignora l’esistenza. Io comunque ho resistito un paio di minuti, di più proprio non era possibile. Sono invece riuscita a leggere interamente, nonostante la lunghezza – d’altra parte le cose da dire erano effettivamente molte – due pezzi che lo meritavano. Il primo è d Selvaggia Lucarelli, non di rado stronza anche lei la sua buona dose, e anche lei con la faccia un bel po’ rifatta, ma a differenza dell’altra un cervello ce l’ha ed è in grado di esprimersi in un italiano decente. Anzi, possiamo anche limitarci a dire “capace di esprimersi”. Ecco il pezzo.
Quando mi hanno detto -molto prima che lo dichiarasse- che il monologo Chiara Ferragni se lo sarebbe scritta da sola (cioè col suo manager, che poi è la stessa cosa), ho avuto la conferma di quello che ho sempre pensato di lei: ha un orizzonte emotivo, professionale e culturale che non va oltre le sue ciabatte Gucci. Non conoscendo nulla del mondo, non avendo interessi o curiosità che non siano se stessa e l’immagine di se stessa che arriva agli altri, non è abbastanza modesta e consapevole da comprendere i suoi limiti e i margini di miglioramento. Ferragni pensa di non aver bisogno di nessuno se non del suo cerchio magico, abitudine tipica di chiunque miri a conservare il suo status circondandosi di adulatori e parenti, e tenendo lontano chiunque provi a dire “forse su questo puoi lavorare”. Il monologo gliel’ha scritto un uomo-manager-stylist- ghostwriter e ormai qualunque cosa, le amiche più fidate sono le sorelle e la madre, il suo scudo mediatico è la stampa amica e ormai uno stuolo di influencer al suo servizio in cambio di elemosina. Perché forse negli ultimi tempi i più ingenui si sono bevuti la manfrina furba sulle sue paure e sulle fragilità tatuate sulla pelle, ma non è vero che Chiara Ferragni è insicura. Non ha paura di non essere abbastanza, ha paura di fallire, che è un’altra cosa. Il suo non è un problema con se stessa- lei si piace moltissimo- è un problema con l’eventuale dissenso del pubblico. Come tutti i narcisisti patologici ha un’enorme paura di essere smascherata. Da qui il suo terrore, di sempre, delle interviste, perché lei- maniaca del controllo- è l’unica narratrice di se stessa, e assistendo ieri alla conferenza stampa che l’ha costretta per una volta a rispondere con parole anziché con i selfie, viene anche facile capire il perché. Tra “Un uomo non deve farci sentire da meno”, la mancata comprensione di semplici domande e una povertà lessicale che nemmeno il concorrente tipo di Temptation Island, la sensazione era quella di vedere il re, anzi, la regina nuda per la prima volta. Tant’è che le sue nudità sul palco non hanno impressionato nessuno. La Chiara senza vestiti era quella che rispondeva ai giornalisti, non quella in un insolitamente brutto abito Dior. E veniamo alla serata di ieri. Con quel monologo cringe che creava un imbarazzo nell’ascolto simile a quello di quando sentiamo i genitori che si accoppiano nella loro camera da letto, non parlava alla sua bambina interiore (magari) ma all’adulta fighissima che pensa di essere. Mentre scomodava tutti i problemi del mondo per posizionarsi come ragazza impegnata- mica solo moda e frivolezze- e snocciolava sessismo, hating, maternità, normalizzazione di non so che, bodyshaming, il problema delle falde acquifere tra le fondamenta, la dermatite squamosa e insomma, mancava solo la fame nel mondo ma solo perché madre e sorelle si stavano scofanando di hamburger per adv, alla fine ti chiedevi: vabbè ma quindi che ha detto?
In effetti nulla. Non c’era un vero focus, perché il focus era dire fintamente a se stessa -bambina quanto è figa, ricca, con una bella famiglia, sexy, brava madre e dirlo in realtà al pubblico, auto-assolvendosi da qualunque possibile colpa, limite, lacuna, dando l’idea di aver superato ostacoli e combattuto contro mostri e nemici. In realtà, si tratta di una ragazza di Cremona nata bella [vabbè, questione di opinioni:
giusto per capirci], da famiglia agiata in una ricca cittadina di provincia del nord Italia, ma Chiara Ferragni è un’idrovora 2.0 e i posizionamenti li vuole tutti. Ha arraffato quello delle mamme 2.0 che postano 24 ore su 24 la vita dei figli, quello delle influencer audaci e mezze nude alla Ratajkowski, quello (ormai antico) della influencer di moda, quello della brava ragazza sempre con mamma e sorelle, quello delle milionarie annoiate che esibiscono case e automobili, quello di chi sbatte in faccia il privilegio 24 ore su 24. Quando ha capito, da un paio di anni a questa parte, che iniziavano a farsi strada influencer di peso con altri posizionamenti lontanissimi da lei, influencer che parlavano di femminismo, violenza sulle donne e malattie, ha deciso che oltre ad esser la massima rappresentante del privilegio, doveva essere anche quella della sfiga, della bontà, della fragilità, della solidarietà femminile, della cultura del femminismo. Del resto, l’ha detto molto chiaramente: fino a due anni fa lei che di anni ne ha 35 mica 18, non aveva mai sentito parlare di violenza psicologica, poi un giorno ne ha letto in qualche slide su Instagram. Cioè, non ha mai letto non dico un libro sul tema, ma un articolo di giornale, non ha mai visto mezza puntata di Amore criminale, non ha mai frequentato nessuno che gliene parlasse. Una roba spaventosa [se è per quello non ha neanche mai sentito nominare l’Olocausto, se dopo avere incontrato la Segre ha potuto dire che “la sua storia mi ha molto colpita”: essendo, la storia della Segre, identica a quella di milioni di persone, a molti milioni delle quali è andata molto peggio, evidentemente non aveva mai sentito parlare della questione]. E quindi improvvisamente inizia a “parlare” un po’ a caso di donne, violenza, fragilità, hater, aborto con la profondità, appunto, di una slide su Instagram, senza mai andare oltre le due righe d’ordinanza della serie viva le donne viva il femminismo, il cachet in beneficenza e tanti cari saluti, ora sono pure attivista 2.0, femminista digitale, Carlotte Vagnoli scanzatevi. Questo ha profondamente destabilizzato quel mondo che da una parte è ben consapevole dell’operazione scalcagnata e furba di Piccola Kiara, dall’altra se provi a mettere in dubbio la purezza dell’imprenditrice digitale sei brutta e invidiosa e quindi si arriva allo stallo alla messicana di ieri sera, in cui i “brava” sono stati pochini e soprattutto da uomini tranquillizzati dall’innocuità del monologo. Le attiviste- più o meno tutte- tacciono imbarazzate. Perché Chiara-l’idrovora 2.0 s’è acchiappata pure la loro casella. (ora diranno che non ci sono caselle blabla, sì ci sono) Ed è stato chiaro quando Amadeus ha chiamato sul palco le rappresentanti di “Dire” presentandole per nome come fossero state sue amiche del liceo e Chiara Ferragni ha taciuto come se sentire delle professioniste chiamate col nome di battesimo fosse normale. Non accorgendosi neppure di quanto fosse stonato quel momento rispetto a quello che lei vorrebbe trasformare in una SUA battaglia. Tutto questo accadeva mentre afferrava pure il posizionamento tv-delle famiglie, che davvero è l’unico che le mancava e che, ahimè, richiede quel “fattore x” che milioni di follower non possono comprare. No, la tv non è il suo mestiere, non c’è carisma, non c’è manco un accento giusto per sbaglio, non c’è un volto che buca. Ma questo conta poco, forse è vero, su quel palco abbiamo visto anche di peggio. La cosa seria è che ieri, in quella operazione, non c’era uno straccio di pensiero femminista. Era tutto immensamente egoriferito e pensato principalmente con due scopi: per far parlare (la scritta sullo scialle da far diventare un meme, il vestitino fesso con le scritte degli hater, l’abito con le tette disegnate) e per proteggerla il più possibile dalle critiche (dì che hai paura anzi, fai di più, porta la BAMBINA che eri sul palco e non ti colpiranno). Ed è così che il suo artefatto manifesto del femminismo si è trasformato nell’operazione più anti-femminista che si potesse partorire. Quella “nudità” rimetteva il corpo al centro del dibattito e quella fragilità ribadita ogni due secondi con la vocina da bambina lagnosa l’ha messa al centro di una insopportabile nenia paternalistica tra conduttori che continuavano a rassicurarla dicendole “brava”, anche un po’ sorpresi dal fatto che conoscesse i verbi come fosse una bambina scema e “critiche” di giornalisti che “vabbè dai è spigliata”, “pensavo peggio”, “se la cava”. Che voglio dire, devi leggere un cartoncino sul palco a 35 anni, peggio che usare l’intonazione da sciura borghese dei Bagni misteriosi e non azzeccare una vocale aperta e chiusa, cosa doveva fare? Vomitare? Qualcuno avrebbe dovuto spiegarle che fragilità non è usare la fragilità per costruire uno scudo per le critiche e fottersi pure- tu, privilegiata- lo spazio della (vera) fragilità altrui, ma di fronte ai Ferragnez sono tutti così genuflessi che è inutile cercare di spiegare qualcosa che sia oltre “si è tagliata i capelli”. Qualcuno avrebbe dovuto spiegarle che femminismo non è quel ruolo da topolino bagnato che “insegnatemi!”, “ho paura!” accanto ai due uomini che sono papà e maestri. Che femminismo non è quei 7 minuti di parole buttate a caso, vuote, con i post scritti sui vestiti anziché su Instagram. E taccio sul momento Shakira- perché anche quel posizionamento lì doveva prendersi, quello della donna che lancia la frecciata cattiva all’ex in mondovisione- e “non mi hai creato tu” rivolto al povero Pozzoli che si fa beatamente i fatti suoi. Perché lei è una di noi, non dimenticate anche lei ha l’ex che le ha fatto male (cosa le manca? Forse solo la povertà. Poi?) In effetti, qui ha ragione, nessuno ha creato e crea Chiara Ferragni. Chiara Ferragni- e qui sta il problema- non lascia a nessuno la possibilità di creare nulla che non sia ciò che lei vede di sé e pretende da sé. Partorisce se stessa continuamente, sempre uguale ma con una maschera diversa a seconda dell’algoritmo del momento, figlia del suo ego perennemente gravido. Il tutto scambiando l’egolatria per autodeterminazione. Eppure le basterebbe poco, per essere davvero protagonista di una rivoluzione, era perfino sulla strada giusta. Se solo avesse capito che la moda non è frivolezza e che poteva occuparsene con una profondità maggiore che producendo brutte, costose borsette con occhi stilizzati che finiscono in televendite con bambini adultizzati, forse oggi si troverebbe appagata in quel ruolo da leader. Se solo nella vita avesse capito che la moda è un mondo pieno di significati e la puoi raccontare anziché fare selfie dalla stanza guardaroba; che essere una donna indipendente, che si è fatta da sé, che diventare imprenditrice digitale di successo è già di per sé un manifesto di emancipazione senza doverlo eroicizzare con sfighe, fragilità e ostacoli, forse ieri ci avrebbe risparmiato quel monologo. Se solo avesse capito che la sua ambizione, la sua fortuna e pure la sua (non comune) capacità di governarla erano cose preziose da raccontare su quel palco, ieri avremmo visto un’altra Chiara. Quella adulta che parlava a noi, non quella inquietante che parlava all’invisibile gemellina di Shining. Anzi, dirò di più. Ieri l’avrei preferita senza lezioncine e spiegazioni, con abiti portatori di figaggine e non quella galleria di vestiti scialbi, ornati di inutili, ridondanti messaggi del cazzo. Ridateci la Chiara privilegiata che ci sbatte in faccia la sua ricchezza e il suo narcisismo sfrontato senza voler sembrare la piccola fiammiferaia. Quello, a suo modo, era pensarsi libera. Ora è piena di catene e il bello è che se l’è messe da sola. (Qui)
Io per la verità questa fiducia nelle sue possibilità di essere qualcosa di diverso dall’oca giuliva che è, non ce l’ho, ma qui è questione di punti di vista. L’altro articolo è quello che segue. La strabocchevole quantità di termini inglesi disturba non poco, come fa notare lui, tuttavia, a differenza di lui, io lo trovo interessante.
Chiara Ferragni, il racconto dell’ancella dell’algoritmo
In evidente calo d’engagement, col reality che non funziona come quello delle Kardashian, ha compiuto il gesto estremo ed è salita sul palco di Sanremo: ma non è andata benissimo.
Chiara Ferragni partecipa a Sanremo non all’apice del suo successo. Lo dicono le metriche social, lo dice l’engagement; la sua massa di follower è stabile sui 34,6 milioni tra Instagram e TikTok, ma Khaby Lame ne ha 234,4 milioni, ammassati in meno di due anni. Durante la prima serata di Sanremo, Chiara Ferragni viene citata in 55mila contenuti online, ma Blanco arriva agilmente a 150mila. Tra i top hashtag #chiaraferragni si ferma al decimo posto. Webboh, termometro di cosa interessa alla generazione Z, dedica la prima card del dopo-Sanremo sempre a Blanco. Chiara Ferragni ha fatto di sé stessa un content e in quanto tale vale solo quanto riesce a stare sulla cresta dell’hype. È il motivo per cui alla fine ha accettato di andare a Sanremo; a differenza di quando era ancora solo una fashion blogger, adesso la concorrenza è aumentata esponenzialmente, Instagram sta perdendo la battaglia contro TikTok, e l’algoritmo comunista di TikTok le è meno amico. Rimanere in hype è un lavorio giornaliero: gli influencer ragionano per content, frammentano le loro vite, le spezzettano e le riadattano ai formati, alle challenge, alla musica virale del momento; poi tutto viene portato in dono al dio algoritmo, che decide a chi tocca il jet privato e i viaggi pagati a Dubai, e a chi no. Chiara Ferragni è stata tra i primi in Italia a concepire la vita interamente come content, tra l’altro con grande successo avendo il dono naturale della viralità. Dono che si manifesta curiosamente molto più di frequente nei corpi di giovani fanciulle dall’aspetto virginale, meglio se bionde, con occhi azzurri e fisico longilineo. Chiara Ferragni, devota ancella dell’algoritmo, ha da sempre dato tutto di sé: la sua quotidianità, le sue relazioni, la famiglia, le sorelle, il cane, il matrimonio, i figli. Donando tutto di sé stessa, ha preteso e ricevuto in cambio moltissimo ma non ha mai accettato e neanche capito i commenti non adoranti. L’unico commento possibile è come quello che le lascia la mamma a ogni post: «Bravissima e bellissima, amore mio!». Ultimamente invece, oltre al calo dai dati, ha dovuto vedersela con critiche molto più specifiche e ragionate, queste non cucite sul vestito a differenza di «hai le tette piccole»: la beneficenza performativa, il dibattito sul diritto alla privacy dei bambini usati come leve per l’engagement. La Ferragni finché ha potuto ha mutato forma come muta forma continuamente il mondo virtuale. Prima erano le giovani Millennial che la seguivano, trovando in lei un modello di ragazza che fugge dalla provincia e finisce a Los Angeles. Il periodo losangelino della Ferragni è quello che preferisce ricordare di meno: diventa più magra, scurisce i capelli, segue i consigli del fidanzato americano, fotografo bello e tenebroso, probabilmente quello che le ha fatto “violenza psicologica”, probabilmente quello che le ha fatto notare che Hollywood non è CityLife e se vuole avere successo lì, il sacrificio richiesto è ancora più alto. A Los Angeles, Chiara soffre di solitudine, non ha vicino quella rete familiare che a Milano la sostiene; i brand che ama continuano a snobbarla, le Chanel dovrà continuare a comprarsele da sola, si imbuca ai party di Louis Vuitton sognando di diventare il volto del brand, cosa che non succederà. Torna in Italia e arriva il raggio di luce alla fine del tunnel: Fedez. Si fondono e diventano entità unica, i Ferragnez, si scambiano gli anelli e uniscono l’engagement, raggiungendo il picco massimo con il matrimonio e poi con la prima gravidanza. Raggiunta la cima, inizia la discesa: la condivisione minuto per minuto della crescita del feto porta tanti follower a smettere di seguire l’influencer. La documentazione sistematica della vita del figlio mette ansia: Leone Lucia Ferragni fa parte di quei bambini online di cui puoi riavvolgere e rivedere in un attimo la sua vita scrollando all’indietro i feed dei genitori. Oggi a seguire la Ferragni sono rimaste ancora alcune ragazze di provincia alla ricerca di visibilità, ma locale più che internazionale. Le borse brandizzate Chiara Ferragni non vanno a ruba a Rodeo Drive ma da Monelli Kids. Il nuovo pubblico della Ferragni sembra fatto soprattutto di audience mature, di nonni lontani fisicamente dai propri nipotini, o desiderosi di nipotini che non avranno, che trovano un palliativo nella relazione parasociale con Leone e Vittoria. I figli diventano il perno centrale del piano editoriale. Gli unici altri momenti in cui i numeri salgono di nuovo è quando posta foto in intimo. Gli influencer ricordano i prescelti aztechi: esseri umani, spesso fanciulle vergini, che per puro caso o per volere degli dèi (a seconda del punto di vista), godono dell’onore di sacrificare la loro vita per il bene collettivo, acclamati e compatiti dal popolo che li guarda rotolare sanguinanti dai gradoni della piramide. Così una Chiara Ferragni in evidente calo d’engagement, col reality che non funziona come quello delle Kardashian, compie il gesto estremo e sale sul palco di Sanremo. Sa che può cadere ma un po’ ci spera: fa hype. Prepara però i suoi follower con una sfilza di stories in cui si dice nervosissima, mette le mani avanti e si scusa preventivamente: la ricerca perenne d’approvazione è il suo problema, se lo porta dall’infanzia e non l’ha mai veramente superato. Sale sul palco e sa cosa deve fare: applicare metodicamente la formula dell’indignazione. Un finto dilemma da commentare (le critiche a un corpo bellissimo [corpo bellissimo?
Ma veramente veramente?] e conforme a tutte le regole del mondo dello spettacolo), la buona causa per cui spendersi (contro la violenza sulle donne), il vestito che fa da base per i meme. Provoca in attesa della risposta, e se la risposta è negativa tanto meglio (fa hype). Durante il monologo cerca di piangere ma non le riesce,
a differenza di Meghan Markle al funerale della Regina (una lacrima sola, dall’occhio sinistro). Il monologo, una lettera a sé stessa, è tremendo. Pessimo. «Sembra scritto da ChatGPT», è il commento più gentile che si legge su Twitter. I vestiti, che lei indossa al suo solito modo cioè facendo sembrare fast fashion made in Internet l’haute couture, sono certamente migliori del monologo. Quando compare sul palco con l’outfit, in contemporanea il suo team posta su Instagram le foto e una spiegazione sul perché di quell’outfit. Ad esempio, il vestito con le frasi degli hater ricamate sopra è un invito a «fregarsene delle frasi sessiste». Eppure, leggendo «Photoshop, il culo vero è FLACCIDO» ricamato con «filo nero su un peplo bianco», non ho potuto fare a meno di pensare a Saman Abbas, a cui i parenti hanno spezzato il collo perché voleva sentirsi libera. Leggendo «Perché non ti rifai il seno», non ho potuto fare a meno di pensare a Tiziana Cantone che si è impiccata con una sciarpa intorno al collo, perché non era un’influencer, e non aveva un team social, e nulla poteva salvarla contro il linciaggio online. Hai la possibilità di salire su un palco incredibile e dire cose importanti, e l’unica cosa che fai è una patetica rivalsa contro sconosciuti di Internet che in massa hanno contribuito al tuo successo, di seni piccoli e culi flaccidi, come se fosse quella la violenza reale e non un cruccio da privilegiata. Con tanto di velata minaccia agli hater futuri (vi metterò sulla gogna mentre faccio il fitcheck, i miei devoti vi linceranno), e soprattutto alle donne che non possono odiarsi liberamente come fanno gli uomini tra di loro, ma devono sottostare al ricatto della sorellanza. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, ma qualcuno può manifestarlo più liberamente: tra Bellissima Costituzione e algoritmo, vince l’algoritmo. E un’ancella dell’algoritmo porta a compimento il suo unico dovere: nutrirlo con sé stessa come content, senza altro significato. Laura Fontana, qui.
D’altra parte da una che sceglie di passare la vita di fianco a un essere come questo,
cosa ti puoi aspettare? E magari sarà anche il caso di ricordare che prima che si rifacesse naso labbra zigomi sopracciglia (e avrei qualche sospetto anche sul mento) era così
E a proposito del recitare un pezzo sul tema della violenza sulle donne, lo fa anche questa tizia qui, che non è un’attrice professionista, ma forse una qualche idea di che cosa sta parlando, lei, ce l’ha:
Poi magari ci sarebbe da parlare anche di quel pezzo di merda a cui l’Italia ha dato soldi, fama e carriera, che da mesi va in giro a piagnucolare che gli italiani sono tutti razzisti e che non metterebbe mai al mondo un figlio in Italia affinché non debba vivere anche lui l’inferno che ha conosciuto lei (una volta le hanno perfino servito il caffè freddo), ma ci sono limiti alla merda che sono in grado di manipolare, e quindi rinuncio e mi fermo qui.
A patto di sceglierti gli obiettivi giusti, beninteso, vale a dire che l’odiatore sia di sinistra e l’odiato di destra: in questi casi vai tranquillo che la Segre non vede non sente non parla. Anche perché è troppo occupata a far sponsorizzare il memoriale dell’olocausto alla baldracca influencer.
Rispuntano i Vip che odiano la destra
Com’era? Odiare ti costa? La Commissione Segre contro l’odio? La multa di 5 euro per i commenti sessisti? Certo, come no. A ondate, come il Covid, si ripropone la colata per odiare, che non costa niente se da sinistra a destra, quanto a dire nella direzione giusta. Ogni tanto spunta qualcuno che, ormai giubilato Salvini, s’incarica di fare il cecchino su Giorgia Meloni e le dà, senza mezzi termini (scusate ma questo è diritto e completezza di cronaca), della vacca, troia, zoccola, puttana; tanto per gradire. Non è una donna la Meloni? Ma no, è una sottorazza, è una infame, va appesa a testa in giù. Come fece, iconograficamente, una testina pensante di seconda o terza scelta, tale Alessandro Robecchi, tempo fa su Twitter, subito retwittato da un parigrado, il Saltafila. Poi qualcuno ricorderà il vivace siparietto di oltre un anno fa, quando lo storico di sinistra Giovanni Gozzini ebbe a definire la leader di Fratelli d’Italia ortolana, rana dalla bocca larga, scrofa e, come volevasi dimostrare, vacca, mentre in studio un altro ospite e il direttore Palumbo ridacchiavano. Lì per lì sembrò talmente enorme, che inscenarono pentimento e autodafà: Gozzini sospeso per tre mesi, Palumbo platealmente dimesso da Controradio, dove sarebbe subito rientrato. In mezzo, i deliri dell’ex brigatista Etro, secondo il quale la Meloni, all’epoca incinta, aveva “la figa che sapeva di ricotta rancida”, nel silenzio plateale delle varie Boldrini, Segre, eccetera: sgradevole, ma, lo ribadiamo, son tutte cose che vanno dette per come sono state dette, altrimenti non si capisce il livello dello squallore. Uno squallore che, osserva giustamente l’interessata, preoccupata per la propria incolumità, non ci mette niente a trasformarsi in livore, in violenza di ritorno. Ma la sinistra non impara dalle sue miserie; non cambiano, non possono cambiare. Neppure se volessero. Ma non vogliono. Ora, Giorgia Meloni ne ha combinata un’altra: si è permessa di vincere, per davvero, non alla maniera del Pd, le elezioni amministrative, il che già è un crimine; dopodiché è andata a Marbella, ospite di Vox, a fare un discorso, secondo alcuni un po’ troppo urlato (e magari lei stessa se n’è un po’ pentita, quanto a decibel), in favore della famiglia naturale e contro la lobby gender, l’islamismo e la finanza globale. Apriti cielo. La sinistra vipparola, ma più che altro pipparola, non aspettava altro: e la vera ragione non è il sostegno, scontato, di una leader conservatrice italiana a un movimento conservatore spagnolo, europeo: quello era il pretesto che tutti aspettavano per punirla dopo le recenti consultazioni. Come a dire: se credi di alzare la cresta ti sbagli, te lo facciamo capire noi la sorte che ti aspetta. Un riflesso condizionato squisitamente comunista. Ad aprire le danze era stato il segretario piddino Letta con un pizzino nemmeno troppo velato: “Impediremo che la Meloni vada al Governo con ogni mezzo”. Molti sentirono subito tintinnar di manette dalla magistratura amica: certo fu l’osso ai cani, il segnale per sguinzagliare la canea degli zdanoviani di complemento. Eccoli, anzi eccole, puntuali come droni di guerra, apre le danze, naturalmente a 8 e ½, la “filosofa” (ormai ce ne sono più degli influencer, te li tirano dietro a un soldo la dozzina) con gli occhialini gramsciani Rosi Braidotti: “Meloni come Putin. Toni omofobi, violenti, misogini. Mi fa paura”. Ha paura, la teorica del neofemminismo postumano: del sovietismo antico e rinascente, evidentemente, meno. “Ho paura! Questi toni da furia scatenata contro i nemici dei sacri valori Dio, patria e famiglia. Vede nemici presunti, ancestrali. Ha un linguaggio conflittuale, violento contro omosessuali, donne non madri, femministe, migranti e tutti quelli che non sono come loro. Un tono aggressivo che mi fa paura”. Abbiamo capito, Braidotti, te la fai sotto davanti alla “propaganda assassina” di Giorgia, e minaccia di restare all’estero: e va beh, resta un po’ nei Paesi Bassi, ti sostituiremo con Chiara Ferragni o Antonella Viola. A ruota segue la scrittrice, anzi scrittora, Ginevra Bompiani con caschetto che fa vagamente Natalia Ginzburg che non ce l’ha fatta; anche Ginevra “ha paura!”, che palle, in quantoché Meloni, oltre che della famiglia dei “buffoni”, è “molto pericolosa”, soprattutto perché “è un tipo che può piacere”, cioè venire eletta. Il fatto è, precisa la scrittora, che “i nazisti ci sono già”, e chissà chi sono. Scendendo di livello, ecco caracollare Selvaggia Lucarelli, che è ormai difficile definire, diciamo una factotum tra palette, articolesse, provocazioni da social pianerottolo eccetera: siccome è tutta una gara a sgomitare nel segno dell’antifascismo, meglio, antinazismo, e in soccorso del carrozzone LGBTQWERTY, Selvaggia non può mancare: «Non è solo quello che dice, ma come lo dice. Lo sguardo minaccioso, il tono di voce che si abbassa e si alza a seconda del climax dell’invettiva, le pause, la faccia che diventa rossa per lo sforzo di urlare. La sua è adesione totale a idee spaventose, a cui ha finito per somigliare. In effetti, la guardi e fa spavento». Anche profiler, Selvaggia: se la sentono a Quantico, la pigliano subito. A fare le pulizie. Una che poi dev’essersi detta: e che? Queste tutte a dare i numeri e io niente? E così pure Vanessa Incontrada si mette a tremolare come un budino: “Che paura!”, ansima via social, e poi: “Ancora più paura, l’orrore in queste parole”. Addirittura. Vanessa, sottile come da par suo, estrapola un paio di frasi “Sì alla famiglia naturale”, “No alla lobby GLBT”, scarnificandola dal discorso complessivo, e gioca facile a fare la terrorizzata. Forse dovrebbe temere altre cose, dentro e fuori di sé. Ma pur di allargarsi, non si butta via niente. La sinistra vajassa si droga delle sue chiassate e, grottescamente, dà la paletta della sguaiataggine alla Meloni; è come l’arrivo in bagarre della Milano-Sanremo, tutto uno sgomitar di bestiate, uno straparlare con cui fregarsi la scena: alla fine brucia tutti l’outsider Kasia Smutniak con la sua analisi del kaiser via Instagram “Più i pensieri sono bassi, volgari, inadeguati, non all’altezza, tristi, morbosi, infelici, privi di eleganza, di amore, di buon senso, indegni, ingiusti, aspri, acidi, vomitevoli, piccoli, inutili, stupidi, idioti, pericolosi, malformati, kitch, sbiaditi, inesatti, errati, carichi di odio, DISUMANI, più la persona che li esprime diventa… volgare, inadeguata, non all’altezza, triste, morbosa, infelice, priva di eleganza, di amore, di buon senso, indegna, ingiusta, aspra, acida, vomitevole, piccola, inutile, stupida, idiota, kitch, sbiadita, inesatta, errata, carica di odio, DISUMANA. Mi è partito l’embolo”. L’embolo? Qui è un delirio da antidoping. In effetti, la sensazione è quella: la realtà però è diversa, cotante puttanate sono state assemblate a freddo per fregare le varie Rosi, Ginevra, Selvaggia e Vanessa: and Kasia is the winner, by unanimous decision. Sad, sad, sad: davvero triste questo baciar la pantofola al Pd arcobaleno per un titolo o un ingaggio in più: si sa che funziona così nella fabbrica della comunicazione, e che la fabbrica della comunicazione la controlla la sinistra (anche per distrazioni e/o demeriti della destra, vecchia storia di cui nessuno è innocente), però che mestizia: sorge il sospetto che, cambiando il regimetto, certa gente abbia sì paura, ma di ritrovarsi del tutto priva di sovvenzioni. Ma, ancora una volta, è solo un riflesso condizionato perché tanto anche con la “nazista Giorgia” al potere, non cambierebbe neanche un ficus in Rai, nei giornali, nelle università, nelle scuole, nelle case editrici, nei premi letterari, nei festival sedicenti culturali e via discorrendo: non è questione di posti ma di rete, di gramscismo ancestrale, lo sappiamo tutti, riequilibrare il panorama informativo-ludico italiano è folle quanto sottrarre la magistratura alle sue correnti e al controllo da parte del Pd. Se c’è una critica che la destra merita, fra le tante, e tante sono davvero, è se mai quella di essersi sinistrizzata, di avere accettato, subìto, comunque adottato stilemi, ipocrisie e stronzate del politicorretto, del woke, del cancel culture. Sicché la vociata di Meloni a Marbella assume, tutt’al più, il suono di una rivendicazione di valori tradizionalisti quasi patetica. Ma alla sinistra sbracata, volgare e gonfia d’odio nel nome dell’eleganza, dell’educazione e della comprensione amorosa, non basta: chiude il conto, per oggi, la cantante sanremese Paola Turci che proprio non si tiene e fulmina su Twitter il leghista Pillon espressosi in favore di 5 giocatori di baseball di Tampa, Florida, non disposti ad indossare una maglia col logo del Gay Pride. Roba di poco conto, ma bastevole a scatenare il solito canaio sul Pillon, definito dall’ugola di Lotta Continua, appassionata fan di Sofri, “Poco cristiano e molto fascista”. Turci è una che vede fascisti dappertutto, meno che sullo yacht di Francesca Pascale, sua compagna, ex di Silvio Berlusconi. Pecunia non olet e panfilo neanche. Però allegri, oggi abbiamo fatto a fette Pillon, nientemeno, oltre alla solita Meloni: la coerenza è salva. Per le prossime colate d’odio ci vediamo domani, tanto la garrula Liliana Segre con la sua commissione, se c’è di mezzo Giorgia, Salvini o un qualsiasi Pillon regolarmente si distrae. Max Del Papa, 21 giugno 2022, qui.
Storie vecchie e sempre sapute, naturalmente, ma non fa male rinfrescarle ogni tanto. E visto che c’è tanta gente che esterna a ruota libera, mi prendo un po’ di libertà anch’io: la Ferragni mi fa schifo – ma proprio uno schifo fisico – e la Segre lo stesso ma un po’ di più. E tanto per non perdere il vizio
Cari amici buongiorno. Oggi raccontiamo la storia di Laurel Hubbard. Questo signore di mezza età si chiamava Gavin e da ragazzino aveva la passione per il sollevamento pesi. Si era classificato primo in un concorso junior nel 1998, ma poi non aveva più vinto un bel niente. Nel 2012 la svolta: dopo aver deciso di diventare donna, ha cominciato a gareggiare nelle competizioni femminili. A quel punto è diventato campione di tutto: Australian open, Pacific games, Oceania e Commonwealth championship, etc etc. Ora ci tengono a far sapere che rappresenterà la Nuova Zelanda nelle gare femminili delle prossime olimpiadi di Tokyo. Ovviamente si tace delle proteste per slealtà (transfobiche?) sollevate dalle atlete australiane, della Samoa e della stessa Nuova Zelanda che si sono viste battute e sconfitte dai muscoli maschili di Gavin-Laurel. Una cosa del genere accadrà presto anche in Italia, a meno che non riusciamo a bloccare la follia del #ddlzan Altro che diritti LGBT+. Questa è una vergogna. Rispetto per tutti, ma maschi gareggino coi maschi, e le femmine con le femmine, indipendentemente dalla loro “autopercezione”.
Non possono mancare il vergognoso privilegio bianco
e i vergognosi trucchi dei conservatori per impedire alla gente di votare
Nella foto in alto, Andrej Sacharov, fisico nucleare, accademico delle scienze e premio Nobel per la pace nel 1975, con la moglie Elena Bonner, medico, intellettuale, scrittrice, insignita della medaglia Robert Schuman dal Parlamento europeo. Per la loro lotta in difesa dei diritti umani e per le loro critiche alla dittatura comunista verranno perseguitati dal regime sovietico.
Sotto, Federico Leonardo detto Fedez, cantante, autore di testi impareggiabili come “Dai cazzo Federico” da cui il verso: “e con tutto questo affetto mi sento così commosso però fammi andare al cesso che mi sto cagando addosso”; insieme alla moglie Chiara Ferragni, influencer, fashion blogger (boh?). La gente ritiene che oggi questi due siano i nuovi difensori dei diritti umani e oppositori del regime.
Aiuto! Cosa è andato storto in questi ultimi decenni?
E un assaggio di sinistra politica interna
E concludo questa manicomiale carrellata col manicomio vero
Tso a Fano, rivolta per lo studente: “Ha 18 anni, è assurdo”
Ondata di proteste dopo il ricovero in psichiatria imposto al ragazzo che non voleva indossare la mascherina in classe. Un docente: “Io lo seguo da un anno ed è sempre stato corretto con i compagni, che gli vogliono anche bene”
Fano, 7 maggio 2021 – “Si porti subito questo ragazzo in seno alla sua famiglia e si assista lui e i suoi cari con quella prossimità necessaria e di civiltà”, ha scritto ieri Vito Inserra dell’associazione Libera.mente. Perché l’incredibile vicenda dello studente che si è incatenato al banco della scuola per protestare con l’imposizione delle mascherina e poi ricoverato in psichiatria a Pesaro, ha suscitato reazioni anche a livello nazionale.
Tra le telefonate anche quella del senatore della Lega Armando Siri: “Voglio i dettagli di questa vicenda – dice – che ha dell’incredibile. Andrò a fondo”. Poi aggiunge: “Mi sto informando per avere dettagli. Ma se fosse vero sarebbe di una gravità inaudita che ad un adolescente venga fatto un Tso a scuola perché inscena una protesta. Ma viva Dio! Li vogliamo tutti imbanbolati, rimbecilliti davanti ad un computer e senza spirito critico? Nessuna evoluzione si realizza senza attrito tra generazioni. Le interperanze giovanili sono il sintomo di una società viva e noi che facciamo? Invece di confrontarci la sediamo, le soffochiamo con la forza? E’ dovere della politica e delle istituzioni approfondire questa vicenda nei minimi dettagli non accontentandosi certo che venga derubricata con la frase frettolosa ‘tanto questo è matto’. Perché è inaccettabile. Su questa vicenda occorre fare chiarezza senza esitazioni e approssimazioni”. La cosa che ha colpito tutti è stata la scelta del trattamento sanitario obbligatorio. Dibattito anche in città con tutti i giovani che frequentano l’istituto, che si dicono solidali con il ragazzo, ma la discussione si è aperta anche tra i docenti; più quelli che ritengono il provvedimento eccessivo di quelli che invece sostengono la tesi “che il ragazzo andava fermato prima”. “Mi dicono che mi terranno qui per una settimana“, rispondeva ieri il giovane al cellulare. Calmo, tranquillo. “Devo dire la verità, io lo seguo da un anno – dice uno degli insegnanti – e si è sempre comportato bene con i compagni di classe che fra l’altro gli vogliono bene. Mai un atteggiamento aggressivo anche se parlava sempre in terza persona. Anzi un giovane che dà soddisfazioni perché ha sempre approfondito quello che si era spiegato in classe. Alcuni docenti ne hanno chiesto l’allontanamento, ma io non sono mai stato d’accordo e sostengo la linea della preside”. Ma la cosa che ha colpito è “quel parlava in terza persona”. Che fa riferimento al manipolatore che da mesi è dietro a questo giovane “perché è forse lui il vero caso psichiatrico”, commenta un medico. L’uomo che la preside, quando lo ha visto davanti all’istituto, ha detto: “Volevo scendere e dargli un pugno in faccia”. Un problema questo che si è posto anche il sindaco Massimo Seri che conosce bene la vicenda: “Il problema vero qui è capire chi è questo presunto ’costituzionalista’ che ha manipolato questo ragazzo”. Massimo Seri è quello che ha firmato il ricovero “ma è un atto dovuto, perché il ricovero forzato – continua lo psichiatra – deve essere proposto da un medico e controfirmato ad un altro collega. La firma del sindaco è solo un atto formale”. Il ricovero deve essere avallato anche da un giudice del tribunale. Vito Inserra di Libera.mente insorge: “Due ore non sono bastate per convincerlo? Bene si prosegua con tutto il tempo e la pazienza necessarie”. Ed aggiunge: “Non ci sono risorse umane e disponibilità di servizi? Non è una giustificazione per passare alle vie di fatto come è accaduto per questo giovane che non voleva fare la guerra ai marziani o proclamarsi Napoleone, visto il periodo. Voleva solo, in modo evidente e scomodo, dire che la nostra Carta va attesa anche nelle libertà personali… Non prendiamo l’abitudine di risposte brevi per questioni che necessitano di ponderazione e di calma. E’ difficile e impegnativo ciò? Sì, lo è e tale comportamento fa la differenza tra una medicina di territorio civile e una medicina vista solo come correzione e non come salute e guarigione”. Il partito Potere al Popolo scrive: “Pur considerando la necessità di indossare i dispositivi di protezione, riteniamo inaccettabile e protestiamo contro questo trattamento fascista, con la scusa dell’emergenza Covid. Bastava accompagnare il ragazzo a casa. Non può accadere che si venga internati perchè si sta protestando contro una disposizione di legge. Chiediamo la liberazione del ragazzo”. m.g. (qui)
Per inciso, l’intervento sul ragazzo è stato questo
molto simile a quest’altro di un anno esatto fa. Passo a un paio di cose carine, partendo da questa
gravemente ferito nell’attacco terroristico nello svincolo di Tapuach, si è svegliato dall’intervento chirurgico e ha chiesto di ascoltare la canzone che tanto ama. Il suo cantante preferito, Benaya Barby, si è presentato per cantargli di persona. Un gesto bellissimo. Guarda l’emozionante incontro e il sorriso di Benaya
Forza campione, auguri di pronta guarigione!
e poi, sempre in Israele
E una nei commenti ha chiesto: “E cosa se ne fanno i malati dei capelli?”
No, non voglio chiedervi se sareste disposti a spendere duecento euro per un paio di ciabatte (si chiamano pomposamente sandali, ma sono ciabatte) piuttosto rozze, color vomito acido (o forse, come avrebbe detto un Grande, “color singhiozzo di pesce”), con quel grosso incrocio interno che dopo trenta passi avete già la vescica (quattro vesciche, per essere precisi. Sempre che riusciate a camminarci, con quel coso grosso almeno mezzo centimetro, oltre alle punte di metallo che vi grattano la carne). No. La domanda è: ma se ve le regalassero, ve le mettereste? (Se qualche maschietto dovesse rispondere “le metterei se fossero azzurre”, lo denuncio al signor Zan, e poi vediamo quanta voglia vi rimane di fare i furbi). PS: a proposito di cose cretine fatte da persone cretine, l’Oca Signorina di cui al post precedente, che oltre a spacciarsi per storica, italianista, scrittrice, persona con senso dell’umorismo, persona di cultura, intellettuale e varie altre cose ancora, nonché troppo intelligente e acuta perché gliela si possa fare, pretende anche di sapere l’inglese, si è bevuta l’ennesima colossale bufala(ERRATA CORRIGE: sembra che la cosa sia vera. Il che ovviamente non significa che la Signorina non sia un’Oca. Resto tuttavia convinta, come ho scritto in un commento, che su quella traduzione sia intervenuta una manina). Poi chiedetevi perché siamo così cattivi da chiamarla oca (non per niente va d’amore e d’accordo col più mona dei miei compagni di liceo).
Non sono un estimatore di Chiara Ferragni, né del mondo che essa rappresenta. Tuttavia ho sempre ritenuto abbastanza basse le malelingue su di lei, spesso dettate dall’invidia sociale. Fino a che il mio sguardo non si è posato sullo screen di una sua “storia” di Instagram, nella quale la Ferragni, parlando dell’omicidio di Willy Monteiro, affermava che: “Il problema lo risolvi cambiando e cancellando la cultura fascista sempre resistente in questo paese di merda.” Paese di merda? Mettiamo il caso che l’omicidio, efferato e brutale, del giovane Willy abbia avuto davvero un movente ideologico-politico (per ora escluso dalle indagini), cosa giustifica quel “paese di merda” buttato lì nel discorso? Se è vero come è vero che un delitto compiuto da un immigrato non rende tutti gli immigrati criminali, perché un delitto a sfondo razzista compiuto da un italiano rende tutta l’Italia razzista? Perché le stesse persone che si strappano i capelli urlando che non si debba mai, mai, MAI generalizzare di fronte alle contraddizioni dell’integrazione straniera, non si fanno alcun problema ad infangare tutto il Paese per i casi isolati di violenza e intolleranza? Lo sa, Chiara Ferragni, che in quel “paese di merda” ci sono anche migliaia di suoi fan e adulatori? Gente che spende soldi per le sue scarpe, inonda di like le sue foto, garantisce lei quella visibilità che sta alla base del suo successo economico? La verità è che c’è una parte d’Italia che l’Italia, sotto sotto, la odia. È quella xenofilia, quell’autorazzismo su cui non ci si sofferma mai abbastanza. Perché spesso, a torto, lo si dà per scontato. Lo si accetta passivamente. Così un “paese di merda” rivolto ad una nazione intera, in cui non esiste alcuna emergenza razzismo o fascismo, viene fatto passare come nulla fosse. E viene applaudito da quella porzione di politica italiana a cui, data la mancanza cronica di argomenti, non rimane che strillare all’esistenza di vecchi e nuovi fantasmi. A costo di inventare interviste, falsare notizie, scatenare assurdi allarmismi. Conosco le problematiche dell’Italia. La sua classe politica infima, la sua magistratura corrotta, i suoi media asserviti, la criminalità e il clientelismo. Nonostante questo, non mi farete mai dire, scrivere o pensare “che paese di merda”. Perché so cos’altro è l’Italia e, soprattutto, cos’altro può essere. Un popolo che si odia e che si schifa sarà sempre facile preda degli interessi altrui. Quando lo capiremo? Matteo Brandi
Una cosa vorrei chiedere a questo genere di persone: mi sembra evidente che, quando si dice un Paese di merda (Paese, maiuscolo: Trebaseleghe è un paese, l’Italia la Francia la Spagna sono Paesi. Quando si fa un mestiere che consiste nel comunicare, la lingua in cui si comunica sarebbe opportuno studiarla), a meno che non si parli di qualche inospitalissima località oltre il circolo polare artico, nel qual caso però l’espressione più adeguata sarebbe “un posto di merda”, ci si riferisce non al paesaggio o al clima bensì alle persone che ci vivono. Ecco, la cosa che vorrei chiedere è: ma se TU sei consapevole di essere una persona di merda, perché non parli al singolare, perché non parli per te invece di tentare di coinvolgere un intero Paese in base alla logica, inaugurata da Craxi, del “merda tutti, merda nessuno, e quindi neanche io”?
Poi c’è anche quest’altra signora che ritiene giusto parlare di razzismo fascista perché “non si può escludere a priori la matrice razzista”
che poi, a parte l’idiozia assoluta di affermare con certezza una cosa con l’argomento che non la si può escludere a priori, se c’è un caso in cui si può veramente escludere a priori è proprio questo: lui si è buttato in mezzo per difendere l’amico, e lui è stato pestato a morte. Si fosse buttato in mezzo uno bianco, giallo, ciclamino, a pois, quello era l’avversario del momento e quello sarebbe stato pestato – beh, fosse stato il negro Mike Tyson magari no. E verrebbe quasi voglia di rispolverare il vecchio mantra di Bona ma oca. Verrebbe. Se non fosse che io sono stata la più gran gnocca mai comparsa sull’orbe terracqueo e, contemporaneamente la mente più brillante mai vista sotto il cielo (sì, lo so, poi ci sarebbe anche Hedy Lamarr e un botto di milioni di altre bellissime e geniali, ma adesso non stiamo a sottilizzare, dai).
Volete controllare la sincerità di chi si atteggia a difensore di donne, minoranze, omosessuali, immigrati? Guardate come trattano donne, minoranze, omosessuali, o immigrati che si rifiutano di obbedirgli. In genere, la risposta è il tentativo di annichilazione totale e completa. Nel 2016 ci veniva chiesto di salivare all’idea della prima donna candidata alla presidenza–come se il mondo non avesse mai visto donne con potere ben più ampio su intere nazioni. Era sessismo non votare la Clinton. Andate però a vedere come lo stesso partito aveva trattato otto anni prima Sarah Palin, candidata alla vice presidenza per gli avversari. Andate a vedere le sbavate di odio contro Kellyanne Conway, colpevole di essere la prima donna direttrice di campagna presidenziale a far vincere le presidenziali al suo cliente (perché il suo cliente era Trump). Obama andava obbligatoriamente votato, altrimenti si era razzisti. Ma andate a vedere come ridicolizzavano il nero Ben Carson, tra i papabili Repubblicani, primario nella scuola di medicina più prestigiosa degli USA. Andate anche a vedere gli attacchi a Dolce e Gabbana, omosessuali felicemente e pubblicamente dichiarati da più di trent’anni, per aver detto una cosa non proprio pazza: “noi abbiamo avuto non due padri ma un padre ed una madre e pensiamo che ogni bimbo abbia lo stesso diritto”. Od il boicottaggio contro di loro, per aver proposto di creare l’abito per l’inaugurazione a Melania Trump. Anzi, andate a vedere gli insulti contro Melania Trump (moglie russa comperata per posta–che poi è Slovena, neanche Russa–bambola stordita, eccetera), o quelli per via del suo accento estero, da parte di chi considererebbe razzista il minimo commento anche benigno sull’accento di qualsiasi altro immigrato, non parliamo di immigrata. Andate a vedere cos’ha detto Biden qualche settimana fa ad un nero che vota Trump: “se non voti per me allora non sei nero”. Chi è nero, cioè chi è “vittima” che va “amata”, lo decidono loro. Alcuni lo sono, altri vanno odiati. Andate a vedere i vari epiteti razzisti (Zio Tom, negro domestico) riservati a Thomas Sowell– raffinato intellettuale nero, professore formatosi in scuole prestigiose–da parte dei professionisti dell’antirazzismo, che lui smaschera come “quelli che si fanno le congratulazioni da soli”. Scrisse tra l’altro: “Il razzismo non è morto, ma è in sala rianimazione: a tenerlo in vita ci pensano politici imbroglioni e gente che li segue perché prova un senso di superiorità nel dare del razzista agli altri”. E la lista dei neri disobbedienti trattati similmente sarebbe molto lunga. Andate a vedere gli insulti verso i vari leghisti neri, o nordafricani.
Poi, se ancora pensate che a questa gente freghi qualcosa di neri, donne, minoranze, omosessuali, od immigrati, non andate a vedere più niente. Ma andate a farvi vedere.
Ho appena saputo della Maersk Etienne, la nave mercantile che ha prestato soccorso a 27 migranti davanti alle coste libiche e che da oltre tre settimane attende un porto “sicuro”. Con oggi sono 24 giorni, un’attesa in mare senza precedenti per la sua lunghezza. E se la memoria non mi inganna per molto meno si mobilitarono all’unisono il giornale unico globale, i blogger, gli influencer, i guru copiatori, la magistratura, le tv, il Parlamento, Capalbio, il Papa, la Presidenza della Repubblica, la UE, l’Onu e tutto il circo che conosciamo. Erano tempi, nemmeno tanto lontani, di capitane coraggiose, di scioperi della fame, di chef, sportivi, politici e di attori marinai. Erano i tempi in cui più che salvare vite la priorità era quella di abbattere il nemico. Ecco, dopo 24 giorni il silenzio sulla Maersk Etienne è la certificazione della loro ipocrisia.
Questi pezzi sono di un paio di settimane fa: non c’erano ancora stati gli insulti alla candidata leghista negra
perché se sei negra ma non voti nel modo giusto te lo scordi che your life matters. E non c’era stata l’aggressione a Salvini col solito corollario di commenti
perché se non sei dalla parte giusta col piffero che la commissione contro l’odio, Liliana Segre in testa, emergono dal letargo. E quindi niente, il problema in Italia è il fascismo che avanza a marce serrate, come quello degli assassini di Willy Monteiro.
Comincio con un po’ di figure, che quelle si capiscono meglio. Cominciamo con queste: e proseguiamo con queste: Dice, “non dobbiamo fare polemiche” e “le polemiche sono sterili” e “non è questo il momento” eccetera. Vedete un po’ voi. Qualcuno invoca per questa gentaglia la pena di morte, o almeno la galera; io sono molto più mite: visto che per colpa loro gli ospedali e in particolare le rianimazioni sono al collasso e molti che ne avrebbero bisogno non possono essere accolti, mi accontento di condannarli ad accudire a domicilio quelle persone per le quali nelle rianimazioni non c’è più posto. Questi due allegri compagni di merenda invece li manderei a pulire le stanze e i corridoi degli ospedali. Poi c’è la raffinata intellettuale, quella del fascistometro e di altre ineffabili amenità che manderei a occuparsi della rimozione del materiale ospedaliero infetto. E questa? Visto che è un’espertissima virologa, molto più di Burioni, potrebbe fare le pulizie nei laboratori di ricerca e in quelli in cui si analizzano i tamponi. Tutti rigorosamente a mani nude e viso scoperto, beninteso, perché mascherine occhiali e guanti servono alla gente per bene: loro, in ogni caso, sicuramente non avranno obiezioni, dato che non c’è il minimo rischio. E per finire in gloria, guardate qua che spettacolo! E ora guardiamo questa immagine, che sicuramente molti di voi avranno già visto: carina, vero? Di che cosa si tratta ve lo spiega questo signore:
Febbraio 2020, immagini dal satellite che avevo pubblicato e che hanno fatto sparire alla chetichella, nemmeno un alert.
La fotografia evidenzia gli alti livelli di anidride solforosa all’epicentro dell’epidemia ora pandemia, per gli scienziati sarebbe la prova di cremazioni di massa.
In effetti le mappe satellitari in Febbraio avevano mostrato livelli allarmanti di SO2 intorno a Wuhan.
Inoltre, c’erano alti livelli di anidride solforosa nella città di Chongqing, anch’essa in quarantena.
I morti in tutta la Cina sarebbero poco più di 3000, report multipli parlano di numeri decisamente diversi e più credibili, basta guardare al nostro Paese.
Gli scienziati affermano che l’anidride solforosa viene prodotta quando i corpi vengono cremati e anche quando i rifiuti sanitari vengono inceneriti.
Ora l’informazione la levano, magari no, mi importa che chi legge rifletta usando la propria testa.
China lied, people died.
Già. Ci viene ammannita la rassicurante favoletta del Principe Partito Comunista cinese che fiero sul suo cavallo bianco uccide il drago-covid19 e libera la principessa Wuhan e con lei tutta la Cina e il mondo intero, e ci sono anche un sacco di imbecilli che se la bevono, che ci raccontano che “abbiamo superato la Cina per numero di contagiati e di morti”, che “col sistema cinese il contagio è stato fermato” e altre simili barzellette. Va naturalmente precisato che il numero reale di morti in Italia è parecchio lontano da quello ufficiale, perché ci sono gli ospiti delle case di riposo che stanno morendo come mosche e non rientrano in nessun conteggio, ci sono i vecchi che muoiono a casa perché – inutile raccontarci storie – se di posti negli ospedali non ce ne sono più, nessuno li può tirare fuori dal cilindro, e anche loro non rientrano in alcun conteggio. Stabilito questo, qualunque calcolo comparato è totalmente privo di fondamento. E la cronaca attuale dimostra che gli occultamenti non si sono limitati ai primi due mesi, ma continuano tuttora. Lo dimostra l’immagine lì sopra e lo dimostra la storia di Li Zehua.
Li Zehua aveva tutto per starsene tranquillo quando è scoppiata la pandemia a Wuhan. Dopo essersi laureato in una delle migliori università cinesi, Li ha iniziato a lavorare per la più importante stazione televisiva statale, la CCTV. Li era una stella nascente. Se fosse rimasto entro i confini tracciati dal regime, Li avrebbe potuto vivere una vita comoda e ricca. Solo che si è domandato cosa era andato storto nella pandemia. E ha raggiunto Wuhan. Li ha iniziato a pubblicare video. Ha intervistato residenti, operai e impiegati delle pompe funebri. Il 26 febbraio, quando stava tornando dall’Istituto di Virologia di Wuhan, Li ha pubblicato un breve video mentre veniva seguito da un veicolo della pubblica sicurezza. “Mi stanno inseguendo. . . . Sono sicuro che vogliono tenermi in isolamento. Aiutatemi per favore!”. Ha paura di fare la fine del dottor Li Weinlang. Li Zehua è tornato nel suo appartamento e si è messo in streaming per lasciare un messaggio. Appena sente bussare alla porta dice in video: “Oggi molti giovani cinesi probabilmente non hanno idea di cosa sia successo nel nostro passato e pensano che la storia che hanno ora sia quella che meritano”. Dopo queste ultime parole, Li apre la porta. La telecamera viene bruscamente spenta e il livestream si ferma. Nessuno ha avuto più notizie di Li da quel giorno. Questa è la Cina. (qui)
E sempre a proposito della Cina e delle sue balle e delle sue catastrofi, credo che in questo pezzo che ho trovato possiamo avere, se non le cifre reali, che nessuno saprà mai, almeno delle cifre realistiche.
Ripubblico, così come l’ho ricevuta, questa riflessione che reputo interessante (nonostante l’uso a sproposito del termine “olocausto” che io avrei evitato).
“LE VERE CIFRE DI WUHAN
Fonte: dati pubblici sulla telefonia.
In Cina sono stati disattivati 14.500.000 account di telefonia mobile da inizio gennaio.
14.500.000.
Tenete a mente questo numero.
Ora cercate di seguirmi: in Cina il numero di telefono è collegato al tuo conto in banca (sto semplificando) ed a molti servizi di utilità nazionale.
E proprio per questo NON è facile cambiarlo.
Perché ci paghi il fruttivendolo, ma puoi attivare anche servizi di previdenza ed altro ancora.
Ora… è legale in cina che una persona abbia più di un account telefonico.
E, IMPORTANTE, per questi servizi si paga una fee mensile: una cosa attorno ai 5 dollari a mese.
SE NON PAGHI TI CANCELLANO L’ACCOUNT TELEFONICO.
Riuscite ad immaginare il MOTIVO per cui dall’inizio di GENNAIO sono stati cancellati in Cina 14.500.000 account telefonici?
O non ti serve.
Oppure non hai pagato perché SEI MORTO.
Un calcolo approssimativo [ossia calcolando tre account a testa, ndb], quindi porta ad una cifra: 4.800.000 che non hanno potuto pagare perché DEFUNTI.
Se si prende (è un calcolo grossolano) la provincia di Hubei, che ammonta 56.000.000 di persone e si suppone che siano tutte infettate la letalità è: dell’8,5%.
Corrisponde?
Molto verosimile. Sono cifre da olocausto.
Altro che 3000 morti e spicci per 80.000 contagiati.
Qui si parla di milioni di cadaveri da smaltire.
Ora viene il peggio.
Taiwan le cifre reali le conosceva.
Tanto è vero che ha preso subito le precauzioni giuste: i numeri parlano chiaro: 2 morti e solo 153 contagiati fino ad oggi, nonostante il traffico con la terraferma cinese sia costante.
E sapeva anche un’altra cosa: che il COVID19 si propagava da persona a persona già da dicembre.
E lo ha comunicato all’OMS.
Il quale non ha detto UN CAZZO per settimane, avallando il governo di Pechino.
Ora la domanda:
se i calcoli e le deduzioni sono esatte e i governi mondiali avessero saputo della reale dimensione dell’epidemia cinese e che era trasmissibile da umano ad umano, avrebbero sottovalutato la minaccia?
Io non credo.
CHIUNQUE sia grato ai Cinesi è solo un idiota affetto da sindrome di Stoccolma.”
Del resto lo sappiamo da sempre che i morti causati dalle proprie politiche, la Cina è abituata a contarli a milioni e a decine di milioni.
E a proposito dell’ultima frase: sono arrivati con la grancassa gli “aiuti” cinesi (il materiale in realtà è stato pagato fino all’ultima mascherina; i medici non so), e tutti a profondersi in sperticati ringraziamenti; sono arrivati con la grancassa gli aiuti cubani, e tutti a profondersi in sperticati ringraziamenti; sono arrivati gli aiuti americani senza grancassa e tutti a dire aha, cinesi e cubani corrono ad aiutarci e il biondone invece cosa aspetta?
Aggiungo ancora una cosa: non ne posso più del “morto per” e “morto con”. Se un ottantenne obeso iperteso e diabetico cade, batte la testa e ci resta secco, nel certificato di morte scrivono “causa della morte: trauma cranico”, non obesità ipertensione diabete. Se un ottantenne obeso iperteso e diabetico fa un infarto, nel certificato di morte scrivono “causa della morte: infarto”, non obesità ipertensione diabete. Perché diavolo lo stesso ottantenne obeso iperteso e diabetico che si becca il covid19 deve improvvisamente diventare morto “con” il covid19, precisando che era vecchio e con patologie pregresse? Perché è più rassicurante? Perché così i giovani si sentano legittimati ad andarsi ad ammassare nei pub a bere alla faccia del coronavirus? Credo che tutti noi conosciamo qualche settantenne diabetico o iperteso che prende i farmaci adatti e guida, viaggia, si occupa dei nipoti quando la figlia o la nuora ha qualche impegno extra, magari fa anche volontariato, e se non arriva il virus malefico fra dieci, quindici, magari venti anni è ancora qui. E se il virus malefico arriva, lui muore per il virus. PERPER PER PER PER.
Concludo questa prima parte con una bellissima notizia:
Agenzia Vista) – Milano, 21 Marzo 2020 – La nuova terapia intensiva dell’Ospedale San Raffaele costruita in tempo record, solo 8 giorni, per l’emergenza Coronavirus è ufficialmente pronta. Da lunedì 23 marzo accoglierà i malati gravi Covid19. La costruzione, realizzata nei campi sportivi dell’UniSR, è stata interamente finanziata con le donazioni ricevute e con la raccolta fondi lanciata dai Ferragnez su gofundme.com. Grazie ancora a Fedez e Chiara Ferragni e ai 200mila donatori che in Italia e all’estero hanno offerto il loro contributo. Grazie anche a chi ha lavorato senza sosta per trasformare una speranza in realtà. Entro le prossime settimane sarà pronto anche l‘ampliamento della struttura che metterà a disposizione ulteriori posti letto per le terapie intensive. / Fonte Facebook IRCCS Ospedale San Raffaele
Eh sì: ospedale privato, iniziativa privata, fondi privati, e un intero nuovo padiglione sorge come per incanto in otto giorni. Alla faccia di chi invoca più stato e più Europa
E con un appello:
In questo momento di emergenza stiamo organizzando una raccolta fondi rapida per l’acquisto di 1000 mascherine per l’ospedale di Lodi. Il gruppo sionistico piemontese ci sostiene e mette a disposizione iban e conto corrente per la gestione dei fondi che arriveranno. Qualunque donazione, anche minima, è importante. Per favore, è urgente.
conto intestato:
Gruppo Sionistico Piemontese
IBAN IT39Q08382 01000000130114627 causale: fondi mascherine di LODI.
Quando si effettua la donazione per favore inviare mail di conferma a:
segreamar@gmail.com
In tal modo la vostra donazione sarà subito utilizzata.