VI RICORDATE LA NATIVITÀ?

La basilica di Betlemme, intendo. Quella in cui dodici anni fa, proprio di questi giorni, una banda di terroristi armati ha fatto irruzione e vi si è asserragliata tenendo in ostaggio tutti coloro che vi si trovavano e depredando tutto ciò che vi era da depredare. E molte leggende, nei trentanove lunghi giorni dell’occupazione, hanno trovato spazio e tenuto banco nei nostri mass media, dall’incombente morte per fame e sete degli occupanti alla costante mancanza di corrente elettrica – mentre tutti, lì dentro, continuavano a comunicare con i cellulari che evidentemente si ricaricavano, visto il luogo, per Grazia Divina – ai ferocissimi soldati con la stella di David sempre pronti a fare un massacro. Nel caso qualcuno fosse interessato, può leggere la recensione che ho scritto all’epoca del libro, dedicato alla vicenda, di Marc Innaro e Giuseppe Bonavolontà.
L’ASSEDIO DELLA NATIVITÀ
Alla fine la vicenda si è risolta con un compromesso multiplo: i terroristi (quelli di cui adesso il signor Mahmoud Abbas, aka Abu Mazen, vorrebbe il ritorno  in cambio della graziosa concessione di parlare con gli israeliani – parlare, beninteso, per ribadire che non riconoscerà mai Israele come stato ebraico, che pretende tutti i territori e Gerusalemme est, non un centimetro in meno, che nessun ebreo potrà risiedervi, che tutti i terroristi processati e incarcerati in Israele devono essere liberati, che cinque milioni di sedicenti profughi dovranno ritornare, non nello “Stato di Palestina” bensì in Israele, e, soprattutto, che non dichiarerà mai la fine del conflitto e la decisione di rinunciare al terrorismo) accettavano di uscire, Israele accettava di non arrestarli, e alcuni stati europei, fra cui l’Italia, accettavano di accoglierli. È stato in quell’occasione che sono stata toccata dalla Grazia dell’Ispirazione, e ho composto quest’ode immortale.

Son venuti finalmente
– come sempre dall’Oriente –
i Re Magi santi e buoni
e ci portano dei doni.

Porta il primo una cintura
tutta in dinamite pura:
garantito, come arriva
ti darà gioia esplosiva.

Il secondo cosa avrà?
Guarda un po’: razzi kassam
per lontano assai colpire
senza dover lui morire.

E ci porta il terzo infine
le katiusce e bombe e mine
per far lieto il Bambinello
ch’è giudìo, il poverello.

I Re Magi buoni e santi
son venuti tutti quanti,
son venuti tutti e tre
e vivranno qui da re.

Ma perché, direte voi,
hanno scelto proprio noi?
Perché noi, Dio ci perdoni
siamo proprio dei ********.

barbara

LA CAUSA DEI MALI DEL MONDO

In occasione dell’ennesima farsa dei “colloqui di pace”, si scatena la solita sarabanda di proclami sulle cause del conflitto, le cause degli infiniti fallimenti, le cause del progressivo allontanamento della speranza della pace, le cause di tutti i guai dell’intero pianeta. Naturalmente fra le cause fondamentali ci sono le “colonie”, e in particolare le “nuove costruzioni”: NON, si noti bene, ampliamenti degli insediamenti, ma semplicemente nuove abitazioni costruite al loro interno. Sono loro il motivo per cui la pace non c’è, non i missili sui civili, non gli accoltellamenti per strada, non gli sgozzamenti di neonati nella culla, no, il motivo per cui non c’è la pace è la costruzione di case. Quella costruzione che Netanyahu aveva irresponsabilmente sospeso per dieci mesi, per aderire alle condizioni poste dalla controparte per accettare di sedersi intorno a un tavolo, salvo poi aspettare, la suddetta controparte, che passassero tutti i dieci mesi senza che niente succedesse.
Vi ripropongo questa lettera scritta quattro anni fa da Sherri Mandell.

Sono io la ragione per cui non c’è la pace nel mondo!

Eccomi, sono io il problema. Il leader del mondo libero ha fatto riferimento a me personalmente, e alla mia famiglia, come la causa dei guai di tutto il mondo. Con la scopa in una mano, mentre cerco eroicamente di spazzare i pop-corn lasciati in giro dal festino televisivo di mio figlio, eccomi qua: io sono il motivo per cui non c’è la pace nel mondo. Obama ha messo nelle mie mani il destino del mondo. Mi ha detto: “Se la smetti di costruire, se la smetti di crescere, tutto si aggiusterà in Medio Oriente. Lascia stare l’Iran e il Darfour e gli ‘omicidi d’onore’ delle donne nella vostra regione. La causa dei conflitti sono i lavori di ristrutturazione in casa tua”.
Ebbene sì, sono una colona. Se mi spostassi otto chilometri verso Gerusalemme, allora cesserei di essere una colona. Suppongo. Ma sarei ancora una israeliana, e anche quello è un bel problema.
Gli architetti della pace ci assicurano che, se solo lasciassimo le nostre case, scoppierebbe la pace. E non solo la pace in Israele e nei territori palestinesi. La pace in tutto il mondo arabo. La pace nel mondo intero. “Quel bullo di Ahmadinejad, non preoccuparti di lui. Tu, Sherri la colona, abbandona la tua casetta dalle finestre azzurre e il vento della pace spirerà su tutta la terra”.
Poco importa se ben prima che vi fosse un solo insediamento, già c’era l’Olp. Poco importa se i palestinesi hanno rifiutato tutte le più generose offerte di compromesso da parte dello stato d’Israele compresa quella del 97% della Cisgiordania, come riportato dal Washington Post lo scorso 29 maggio. Poco importa se c’è spazio per arabi ed ebrei in Cisgiordania e se uno stato palestinese che non può permettere ad ebrei di abitare entro i suoi confini sarebbe chiaramente un regime fascista. Poco importa se Israele stesso ha più di un milione di cittadini arabi che vivono al suo interno. Poco importa.
Non c’è praticamente nessuno al mondo, oggi, più vituperato di un colono israeliano. Siamo considerati dei razzisti col mitra in spalla, estremisti del tutto omologhi agli estremisti dell’altra parte. Poco importa se è straordinariamente raro che un ebreo sia un terrorista. Poco importa se gli estremisti dell’altra parte assassinano spesso e volentieri con le loro mani dei bambini ebrei, come il mio Koby, per il solo fatto che sono ebrei. Poco importa se gli estremisti dell’altra parte mandano i loro stessi figli a commettere attentati suicidi come “martiri”. Poco importa se gli estremisti dell’altra parte spediscono la loro stessa gente davanti al plotone d’esecuzione per il solo sospetto che “collabori” con Israele. Poco importa se gli estremisti dell’altra parte tiranneggiano le loro donne. Poco importa se gli estremisti dell’altra parte non tollerano omosessuali nelle loro comunità. In ogni caso il problema sono i coloni.
Sono stata a un talk-show televisivo dove una signora di Tel Aviv ha parlato di me come del “cancro del popolo ebraico”. Non c’è nessuno cattivo e malvagio quanto un colono. Noi siamo il capro espiatorio di tutto il mondo. Si potrebbe persino dire che siamo l’ebreo degli ebrei. Siamo il più comodo oggetto da odiare.
(Da: Jerusalem Post, 6.07.09, qui)

Per chi non conoscesse, o non ricordasse, le vicende in questione, riporto il mio post di sei anni fa.

KOBI E YOSSI, SEI ANNI FA

Avevano 13 anni. Doveva essere una bella mattinata, quella dell’8 maggio 2001 e, come a volte capita ai ragazzini, non avevano tanta voglia di andare a scuola. Così decisero di andarsene un po’ in giro, a passeggiare, a godere della natura. I loro corpi furono ritrovati il giorno dopo in una grotta del deserto della Giudea: erano stati massacrati a colpi di pietra da dei terroristi palestinesi. Le pareti della grotta erano coperte di sangue, brandelli dei corpi dei due ragazzini erano sparsi ovunque. Ricordiamo Kobi Mandell e Yossi Ish-Ran con questa lettera scritta dalla mamma di Kobi.

Perché stiamo in Israele

Adesso sembra da pazzi vivere in Israele. Alcuni se ne vanno. Li capisco. È orribile vivere con la violenza e con l’angoscia e con lo stress che provocano. Siamo vulnerabili, noi israeliani: in macchina o sull’autobus, prendendo un caffè al bar o addirittura stando a casa. Tutto è circondato dal terrore. Tutto il tempo, di giorno e di notte, siamo coscienti di essere obiettivi da colpire.
Un venerdì notte, all’una, siamo stati svegliati dagli altoparlanti installati nella nostra comunità. Ci hanno avvertito che c’era un terrorista in Tekoa. “Chiudete porte e finestre a chiave, dormite con le armi, badate ai bambini e spegnete le luci.”
Abbiamo velocemente spento le luci, nonostante il fatto che siamo osservanti dello Shabat.
Abbiamo chiuso a chiave porte e finestre. Abbiamo messo una sedia davanti alla porta dell’entrata. Poi suonò il telefono. Era il nostro vicino che controllava se avevamo sentito l’annuncio.
I bambini erano spaventati, tremavano. Ho detto loro che li avremmo protetti, che stavamo vicini. Che dovevano andare a dormire.
Loro si sono addormentati, tutti nel nostro letto. Ho pregato e poi mi sono addormentata, sperando che la mattina arrivasse presto.
Circa alle tre di nuovo l’altoparlante: l’emergenza era finita.
Per adesso. Ma, come ho detto ai miei figli, è raro che i terroristi ti avvisino.
Sicuramente non hanno avvisato mio figlio Koby, di 13 anni, prima di ammazzare lui e il suo amico Yosef, prendendoli a sassate prima di schiacciare i loro crani e renderli irriconoscibili*. Koby e Yosef erano in giro vicino a casa nostra a Tekoa. I due ragazzi volevano scoprire la valle dietro le nostre case. Sono stati ammazzati per il loro amore per questa terra. Sono stati ammazzati perché ebrei.
Una mia amica era al cinema a Gerusalemme, sabato notte, per vedere un film, la notte dell’attentato al Moment Caffè che ha ucciso 11 persone. Il direttore del cinema ha fermato il film per dire al pubblico cosa era accaduto e per chiedere se volevano continuare a vedere il film. Non hanno voluto. Tutti sono andati a casa.
Perché la gente continua a stare qui nonostante siamo cacciati come bestie dai terroristi? Perché tanti di noi qui sentono un forte senso di appartenenza, al nostro paese, alla nostra cultura e storia.
Questo senso di appartenenza si manifesta in molti modi diversi. Oggi sono andata a fare la spesa al mio minimarket e lì un uomo stava riempiendo una scatola di cose buone per suo figlio nell’esercito. L’uomo prende una tavoletta di cioccolato al latte, e la commessa, Ranet, dice: “a tuo figlio non piace il cioccolato al latte, Noam preferisce quello amaro.”
Un’altra storia. Ruth, una mia amica, è al banco frigo per comprarsi una bibita Una bambina timida arriva e chiede al negoziante “Cosa posso prendere con 2 shekl?” E lui dice: “Niente.” Poi le dà un shekl. “Ma adesso ne hai tre. Puoi comprare una gomma o una caramella.” Ruth pesca uno shekl dalla sua tasca. “Adesso ne hai quattro.”
Qui c’è una sensazione di essere in famiglia. Qui, nonostante il dolore e la sofferenza, non ci sentiamo soli. Ci sentiamo parte di una rete, di un tessuto che, nonostante sia pieno di buchi, è abbastanza forte per tenerci su.
Se facciamo un buco, il tessuto si indebolisce. Può essere riparato, naturalmente, ma non sarà mai più come prima.
Noi non vogliamo bucare il tessuto. Noi non vogliamo lasciare il posto dove è seppellito nostro figlio. Non vogliamo lasciare l’unico posto al mondo dove il tempo è misurato con il calendario ebraico, dove le celebrazioni coincidono con le festività ebraiche, dove la lingua è quella della Bibbia. Noi non vogliamo lasciare il centro della storia ebraica. Adesso facciamo parte di questa lunga storia dolorosa, siamo noi quel popolo ebraico che lotta per poter finalmente vivere sulla propria terra.
Mio figlio è morto perché ebreo. Io voglio vivere da ebrea!
Sherri Mandell

* “Renderli irriconoscibili” non è un modo di dire: hanno dovuto ritardare i funerali a causa del tempo occorso per ricostruire quali pezzi erano di Kobi e quali di Yossi. Ma se la pace non c’è, naturalmente, è per via degli appartamenti costruiti dagli israeliani. E se questi ennesimi “colloqui” alla fine si riveleranno per quella farsa che sono, la colpa sarà sempre di tinelli e cucine.
kobi     yossi
barbara

IL RISCHIO DI UN NEGOZIATO OBBLIGATORIO

Un pezzo di Ugo Volli da leggere, stampare e imparare a memoria.

Cari amici,
Vale la pena di spendere ancora un po’ di tempo e di energia intellettuale a riflettere sulle trattative (o meglio sulle pre-trattative) che si dovrebbero aprire questa settimana a Washington. Sia perché intorno ad esse sta ripartendo una pericolosa mitologia, o meglio un pensiero desiderante (wishful thinking) da parte di coloro che magari preferirebbero davvero che tutti si volessero bene e non ci fossero problemi al mondo e quindi neppure in Medio Oriente e che si illudono che basti superare “la diffidenza reciproca” o “la cattiva volontà”, perché una soluzione debba saltare fuori subito.
Sia perché vi sono coloro che attendono davvero l’occasione di un indebolimento, magari di un mezzo suicidio israeliano per dare chances alla loro squadra del cuore (gli arabi) nella partita con Israele che stanno perdendo da 65 anni almeno.
Sia infine perché vi sono anche quelli già pronti a cercare di dare la colpa dell’eventuale, anzi probabile fallimento alla cattiveria israeliana, per rilanciare nuove sanzioni, boicottaggi e antisemitismi vari.
Il fatto su cui riflettere è che questa trattativa non la voleva nessuno, né gli israeliani (che hanno votato massicciamente sei mesi fa per partiti che avevano tutt’altre priorità, dando solo il 5 per cento al movimento di Tzipi Livni, il solo a insistere sul rilancio) e che in questo momento di confusione estrema del mondo arabo hanno tutte le ragioni per non fidarsi di trattati firmati da governi che il mese dopo possono essere travolti.
Non la voleva l’Anp, che da quattro anni e mezzo trova conveniente la linea del “chiagne e fotti”, del lamentarsi della non disponibilità di Israele e di cercare di danneggiarlo in tutti i modi e con tutti i pretesti. Anche l’Anp è naturalmente consapevole del disordine arabo una volta chiamato primavera e teme di essere rovesciata, com’è accaduto spesso, non per scelta di un “popolo” che per lo più pensa ad altro, ma di masse di militanti che nel suo caso ha educato accuratamente a protestare contro ogni accenno di “normalizzazione” e di dialogo con Israele; oltre naturalmente ad essere preoccupata della concorrenza di Hamas.
Dunque c’è stata una forzatura da parte di Kerry, molto lodata dalla politica occidentale e dalla stampa. Israele e Anp vanno a Washington non perché convinti di poter e voler trovare un compromesso, ma per non subire le conseguenze dell’ira americana contro la loro disobbedienza. Che gli Usa, impotenti in tutto, sconfitti in tutti i loro piani politici, disprezzati e presi in giro non solo da Putin ma anche dall’Equador, cerchino la rivincita imponendo la loro volontà a due realtà dell’ordine di grandezza rispettivamente della Lombardia e della Val d’Aosta, è significativo della piccolezza morale, oltre che politica di Obama e di chi lo circonda; ma non è questo il punto del mio discorso.
Il fatto è che la forzatura di Kerry è molto pericolosa, soprattutto se riuscirà a costringere i due contendenti a trattare per davvero e non si accontenterà delle rotture formali su temi vecchi (le costruzioni negli insediamenti, il rifiuto di riconoscere il carattere ebraico di Israele). Vi sono due precedenti che mostrano il pericolo della intraprendenza e ostinazione di Kerry, così ingiustamente lodate. Il primo è la trattativa voluta da Clinton allo scadere del suo mandato, ricostruita qui da Herb Keinon. Secondo quel che dice Keinon sulla base di fonti americane, sembra che Arafat non volesse andare a Camp David, avesse avvertito l’amministrazione americana della sua indisponibilità e subisse poi la convocazione di Clinton, motivata dalla ricerca di un successo finale per la sua amministrazione assai poco produttiva. Arafat avrebbe deciso di dare il via all’ondata terroristica nota come seconda intifada per tutelare la sua posizione nella cupola palestinese, messa in dubbio dalle trattative. Si può discutere su questa analisi, ma certamente il terrorismo palestinese in quegli anni fu fortemente correlato alle trattative più o meno imposte a un’organizzazione che ha oggi e allora aveva ancora di più un imprinting di violenza clandestina indiscriminata. Il rischio c’è ancora, fortissimo: ogni fase di trattativa ha presentato per i palestinesi la tentazione mai respinta di colpire il nemico che tendeva la mano e sembrava quindi più debole.
L’altro precedente parla di Israele e precisamente della tentazione della sua classe  politica, almeno di quella che si pensa volta a volta come “pacifista” di imporre al paese quel che essa considera giusto, senza badare alla volontà dei cittadini. È quel che una volta Peres (ah, il democratico, pacifista Peres…) ha espresso dicendo che “il guidatore di un autobus non deve chiedere ai passeggeri se girare il volante o no”. È accaduto a Sharon, nello sgombero di Gaza imposto con la forza agli interessati. È successo soprattutto con Oslo. Pochi si ricordano che l’accordo fu approvato alla Knesset con un solo voto di differenza, pur avendo coinvolto i partiti arabi (che allora come oggi volevano soprattutto la distruzione di Israele).
E anche con i partiti ideologicamente antisraeliani una decisione così importante non  aveva la maggioranza, finché un paio di parlamentari dell’opposizione furono letteralmente comprati per acconsentire a quello che, applauditissimo allora, appare oggi come il più grave errore strategico nella storia di Israele. Rabin e Peres si presero in casa quella banda di terroristi che stava a Tunisi carica di mille atti di terrorismo e li riconobbero come “unici rappresentanti del popolo palestinese, tagliando fuori così le forze tribali e i notabili locali che avevano interesse alla tranquillità e alla crescita della loro popolazione.
Inutile dire che i terroristi hanno continuato negli ultimi anni a fare i terroristi, con le armi quando hanno potuto, se no con la diplomazia,  la legge, l’educazione all’odio. Dalla scelta di Oslo sono derivati moltissimi mali per gli israeliani, ma anche per gli arabi, e sulle sue ambiguità, sul suo ingenuo utopismo dovuto agli uomini di estrema sinistra che circondavano Rabin allora, sull’illusione che non bisognasse badare troppo ai particolari né cercare di predisporre delle difese, perché “i dividendi della pace” sarebbero stati tali da eliminare ogni aggressione, derivano anche i nodi irrisolti che molto probabilmente non saranno sciolti neppure in queste pre-trattative. Perché a Fatah, all’Olp, all’Anp (che sono poi più o meno la stessa cosa), sono state fatte concessioni tali che oggi essi rivendicano il territorio di Giudea e Samaria come specialmente “palestinese”, e il mondo gli crede.
Per questa ragione Bennet ha chiesto, e Netanyahu sembra l’abbia concesso, un referendum, se mai si dovesse arrivare a un accordo. Perché non si ripeta il caso di una banda di utopisti professionisti che prenda il popolo come “passeggeri di un autobus” e lo porti a cascare in un nuovo burrone. Insomma, da questi incontri di Washington c’è molto da temere e poco da sperare. Perché la pace invece si costruisce sul terreno, con la collaborazione economica e la convivenza in Giudea e Samaria che non a caso i terroristi cercano di spezzare con la violenza e l’Unione Europea, ideologicamente antisraeliana (per non dire antisemita) cerca di boicottare economicamente.

Tre anni fa, in una circostanza esattamente identica a quella di oggi, Emanuel Segre Amar e io abbiamo scritto a quattro mani questa riflessione: dopo tre anni rimane valida fino all’ultima virgola.
E ricordate sempre che LA PACE COMINCIA QUI.

barbara