ISRAELE DIECI (12)

Aravà 1

La valle dell’Aravà si trova nel deserto del Negev, a sud del Mar Morto, e rappresenta uno dei molti miracoli che caratterizzano Israele: utilizzando ciò che la natura ha messo a disposizione, terreno salino, acqua (poca) e un sole micidiale, i coltivatori dell’Aravà hanno dato vita a una fiorente produzione di peperoni, pomodori, meloni, datteri, fichi, uva, fiori e altro studiando, con l’aiuto della tecnologia informatica, quantità e grado di salinità dell’acqua in grado di dare i migliori risultati.
La prima tappa della nostra visita è stato il Centro Visitatori Vidor, che è una cosa spettacolare, ma proprio perché era così spettacolare mi sono dimenticata di fare foto. Comunque visto che ci torno fra pochi giorni, spero di ricordarmene e ve le farò vedere al mio ritorno. Oppure, se di nuovo resterò troppo affascinata per perdere tempo a fotografare, pescherò le foto da qualche parte. E dunque parto con la seconda visita che è

Il Centro Ricerca e Sviluppo Hatzeva

che si trova qui.
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La serra che abbiamo visitato, e che ora vi faccio vedere, ha funzione dimostrativa, ossia mostrare ai visitatori e agli interessati del settore, il tipo di coltivazioni che si possono trovare qui e i metodi impiegati.
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Va da sé che anche questo centro si avvale del contributo del KKL.

barbara

L’EXPO

Sono riuscita ad andarci, finalmente, praticamente in zona Cesarini. Il giorno non è stato dei più felici, perché pioveva e in più io stavo malissimo, in più di un’occasione sono stata sul punto di svenire, ma insomma, quel giorno lì doveva essere e quel giorno è stato: conoscete una sola occasione in cui io abbia rinunciato a fare qualcosa solo perché le condizioni non erano quelle giuste? (Se sono stata capace di partire per Israele e girarla tutta da nord a sud e da est a ovest con due zampe rotte che poi mi sono costate due mesi di sedia a rotelle e un intero anno prima di poter camminare quasi normalmente, figuriamoci se rinuncio a mezza giornata all’expo per qualche capogiro, qualche nausea – no, non sono incinta – qualche principio di svenimento – beh, uno per la verità è stato quasi completo ma alla fine sono stata fermata e raccattata su prima di arrivare a terra. Vabbè.
Naturalmente non ho pagato il costosissimo biglietto perché ero ospite speciale dell’ambasciata israeliana, e non ho fatto la fila (in nessun caso sarei riuscita a stare lì ferma in piedi), perché sono passata dall’ingresso VIP, e ho avuto come accompagnatore – speciale anche lui – il presidente della Federazione Sionistica Italiana. La prima cosa vista, entrando, è stato l’albero della vita,
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simbolo del padiglione Italia, che quando viene buio si riempie di luci e colori e di cose spettacolari. Poi ho visto quattro singolari sculture, e siccome sono di una smisurata bontà, ne ho fotografata una per voi: contenti?
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E poi sono arrivata al padiglione Israele, col famoso campo verticale che ho fotografato da entrambi i lati, così si vede meglio.
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Dentro c’è un grande schermo (il risultato della foto al semibuio è quello che è perché ho una macchina fotografica da due lire. Quando divento ricca ci torno e ve ne faccio qualcuna di migliore. Comunque)
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sul quale Moran Atias (qui con un suo illustre concittadino)
Moran Atias
ha fatto vedere le straordinarie realizzazioni agricole di Israele, compresa la coltivazione del deserto che voi avete già visto nel mio blog ma lì era tutta una cosa figosissima perché lei era dentro il paesaggio e dentro le case e vicino alle persone delle diverse generazioni dalle dune dei primi pionieri ai campi verdissimi che scorrevano e passavano che insomma non viene facile da spiegare e quindi l’unica è che andiate a vederlo, avete ancora due settimane e quindi sbrigatevi, e comunque era una cosa che io mi sono talmente emozionata che poi ho anche pianto, ecco. E poi c’era un’altra sala rotonda con gli schermi tutto intorno in cui si potevano vedere gli aiuti che Israele ha portato, in campo agro-alimentare, in tutto il mondo, dall’Africa all’Australia e ovunque. Poi fuori c’erano i punti di ristoro con le specialità israeliane (cui ho dovuto rinunciare perché il mio stomaco non avrebbe retto), e poi c’era anche lo stand coi prodotti del mar Morto e quelli sì li avrei presi volentieri, solo che è stato proprio lì che abbiamo incontrato la persona che aveva provveduto personalmente a farmi entrare gratis come ospite dell’ambasciata, e il mio accompagnatore ha cominciato a parlare con lei (e parlare e parlare e parlare e parlare…) e io mi sono appoggiata con la schiena alla bassa parete di legno che chiudeva lo stand, e poi non mi bastava e ci ho appoggiato sopra un braccio, e poi non mi bastava neanche quello e ho appoggiato l’altro braccio sulla parete che faceva angolo con quello, ma anche così le mie ginocchia hanno cominciato a scendere e scendere finché con l’ultimo fiato sono riuscita a dire sto svenendo e il mio accompagnatore mi ha afferrata al volo e sostenuta fino a quando l’altra tizia è arrivata di corsa con una sedia e poi insomma ho finito per dimenticarmi dei cosmetici e quando mi sono tornati in mente ero troppo lontana per sentirmela di tornare indietro e quindi niente.
Nel tragitto verso l’uscita ho fatto ancora qualche foto – non molte: non sono in periodo molto fotografaro, e comunque fotografara compulsiva non lo sono mai stata. Per esempio l’originale padiglione della Malaysia,
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questa installazione con l’acqua (giuro che quando l’ho inquadrata, l’acqua era diritta; poi in quella frazione di secondo tra inquadrare e scattare, per pura cattiveria, per farmi un dispetto, si è storta all’indietro),
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e i melograni,
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con una tizia di passaggio
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a cui un ramo con sopra almeno due litri d’acqua si è proditoriamente infilato nel collo. Perché il mondo è malvagio e crudele: prendiamone atto e facciamocene una ragione. Ho anche discretamente frequentato i bagni (le pastiglie per la pressione sono parecchio diuretiche) ma quelli non ve li ho fotografati.
Poi oggi in treno c’era un tizio coi jeans coi tagli. Ma non con le sfilacciature e sbrindellature come fanno le ragazze per mostrare spruzzate di pelle qua e là, no: aveva tre grossi squarci, di cui uno gli arrivava fino ai coglioni. Letteralmente. Il fatto è che con l’orecchino con crocefisso nero, il piercing nel naso di quelli infilati nella cartilagine centrale che vorrei proprio vederli quando hanno il raffreddore questi qua, anelli ai pollici più altri sparsi qua e là, e i capelli rasati sui lati e impiastricciati in cima, il tutto aggiunto a una notevole bruttezza generale, insomma, non è che il soggetto risultasse particolarmente appetitoso, ecco (e quello no, lo squarcio coi coglioni praticamente in vetrina non ve l’ho fotografato. E ringraziatemi).

barbara

 

IL VIAGGIO

Il viaggio era organizzato dal KKL (Keren Kayemet LeIsrael, fondo nazionale ebraico), fondato da Theodor Herzl nel 1901, che ha piantato in Israele oltre 240 milioni di alberi, costruito 180 dighe e bacini artificiali per la conservazione dell’acqua piovana, sviluppato tecnologie per il riciclo dell’acqua ad uso agricolo e industriale, prosciugato paludi, dissodato pietraie, coltivato e popolato il deserto (che rappresenta il 60% di quel microscopico frammento della Palestina mandataria – originariamente destinata a diventare tutta intera lo stato ebraico – sopravvissuto ai successivi furti di territorio perpetrati ai danni degli ebrei), creato più di 1000 parchi, costruito strade sicure dagli attacchi palestinesi contro i civili in transito e rifugi antimissile, bonificato aree inquinate… In pratica, quello che ha trasformato una terra desolata (“Non c’è un solo villaggio per tutta la sua estensione (valle di Jezreel) – non per 30 miglia in qualsiasi direzione… si può viaggiare per 10 miglia e non incontrare più di 10 esseri umani. Se cercate un perfetto stato di solitudine che vi renda mesti, venite in Galilea… Nazareth è desolata… Gerico giace in uno sgretolamento rovinoso… Betlemme e Betania nella loro povertà e umiliazione… inaccudite da anima vivente. Un paese desolato il cui terreno fertile è sufficientemente ricco, ma è dato interamente all’erbacce… una silenziosa e funerea estensione… una desolazione… Non abbiamo mai visto un essere umano sulla strada… raramente un albero o un cespuglio da qualche parte. Perfino gli ulivi e i cactus, quegli amici sicuri di un terreno incolto, hanno per lo più abbandonato il paese. La Palestina siede con sacchi su ceneri, desolata e brutta”. Mark Twain, The Innocents Abroad 1867) in un giardino.
Noi, insieme alle delegazioni di trenta Paesi (fra cui, per la prima volta, anche la Cina) abbiamo visitato alcune delle straordinarie realizzazioni a cui il KKL, grazie anche al contributo di tutti noi, ha dato vita. E adesso, grazie alla vostra musa, ne potrete avere un assaggio anche voi (non completo, ahimè, perché proprio nel giorno più “tosto” ho dimenticato la macchina fotografica in albergo…).
introduzione 1
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barbara

COLTIVARE IL DESERTO? MA ANCHE SÌ (2)

Per il kibbutz Nir David (legato alla storia degli insediamenti “torre e palizzata” – magari un’altra volta ne parlerò) non posso fornire documentazione sul passato, di cui ho visto le immagini in un filmato che ci è stato mostrato. Il kibbutz si trova nella valle del Giordano, quindi non in zona desertica, ma non c’era neppure tantissimo, lì intorno. Quello che posso mostrare è l’insediamento originario
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e ciò che vi è intorno oggi.
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E che dire delle coltivazioni sulle rive del mar Morto? Qui non c’è neppure la sabbia, sulla quale è stata costruita Tel Aviv, coprendo interamente le dune con la terra e creandovi, oltre a tutto il resto, anche un parco con un lago e un fiume
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HaYarkon-sat
(clic per ingrandire)
Park_Hayarkon-Tel_Aviv

Qui c’è solo sale: sale il fondo del mare, sale la spiaggia, sale ovunque. E tuttavia persino qui possiamo vedere coltivazioni.
coltiv mar Morto
Il metodo usato è quello del lavaggio del terreno: tutta la superficie viene inondata con potenti getti d’acqua in modo da spingere il sale in profondità. Il terreno rimane ugualmente salato, ma non in misura tale da essere incompatibile con la coltivazione; anzi, i frutti, per reazione al sale che trovano nel terreno, producono più zucchero: per questo i prodotti israeliani di questi terreni (pomodori per esempio) sono più dolci di quelli coltivati in terreni normali. Purtroppo quando piove o nevica intensamente, come è accaduto nei giorni precedenti il mio arrivo, il sale risale alla superficie
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(foto di D.O.)
e bisogna rifare tutto il lavoro di lavaggio. Un altro strumento utilizzato per cambiare positivamente il paesaggio in Israele è il liman, sorta di oasi inizialmente artificiale costruita piantando alberi dalle radici poco profonde che trattengono l’acqua anche per più stagioni; in questo modo l’oasi diventa in breve autosufficiente, e quindi naturale, avendo sempre a disposizione una sufficiente quantità di acqua per alimentarsi, e a sua volta contribuisce poi a modificare positivamente il microclima, determinando una maggiore piovosità, e a dissetare animali di passaggio.
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(Purtroppo sono riuscita a prendere solo questa foto al volo dall’autobus, tutta storta, ma se andate in google immagini ne troverete altre). E ancora, per sopperire alla penuria d’acqua, comune a tutta la regione, in Israele è intensamente praticato il riciclo: attualmente circa l’80% delle acque reflue viene riciclato, e in questo modo è possibile avere acqua a sufficienza per l’agricoltura senza sottrarla ad altri usi. Le tubature nelle quali scorre acqua riciclata sono riconoscibili dal colore viola – purtroppo non ho provveduto a fotografarne qualcuna, e in internet ho trovato solo questo.
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Se poi qualcuno avesse voglia di tirarmi fuori la favola che Israele si procurerebbe l’acqua rubandola ai palestinesi, prima che lo mandi là dove merita di essere mandato si vada a rileggere questo, e magari anche questo mio vecchio post. E ora due bei filmati, che mostrano come il deserto, in Israele, possa essere utilizzato non solo per coltivarvi frutta, verdura e fiori,


ma addirittura per allevarvi pesci.

barbara

COLTIVARE IL DESERTO? MA ANCHE SÌ (1)

Di questa straordinaria caratteristica di Israele ho già ripetutamente parlato (uno, due, tre, quattro, cinque), e torno a parlare oggi, perché è un argomento che, in un mondo in cui la desertificazione avanza ovunque, non finisce mai di affascinarmi. Prendete per esempio il kibbutz Lavi, legato alla storia dei Kindertransporte. All’inizio le abitazioni erano così
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All’interno di questa baracca c’è una foto di quei tempi
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Quella che si vede nello sfondo, in mezzo al nulla, è la torre dell’acqua, questa
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E oggi il kibbutz si presenta così
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Oppure prendete il kibbutz Kalya, sulla riva nord del mar Morto. Il kibbutz è stato costruito in mezzo al deserto,
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e deserto era anche l’area occupata dal kibbutz, che dal deserto che era è stato fatto diventare così
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O ancora l’avamposto del kibbutz Saad, di fronte a Gaza, in prima linea nella guerra del 1948, di qui ho già parlato qui. Dalle foto conservate all’interno della torre possiamo vedere ciò che era il kibbutz ai suoi esordi
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e guardandoci intorno possiamo vedere come è oggi.
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Come ci sono riusciti? In parte coi metodi che già in altre occasioni ho illustrato: scavare nel deserto fino a quando non si trova l’acqua (se si scava a sufficienza si trova sempre), con l’irrigazione a goccia, proteggendo le piantine neonate con tubi che le proteggono dai parassiti, ne conservano l’umidità e ne mantengono il microclima. In parte con altri metodi che illustrerò alla prossima puntata.
(Poi magari, visto che si è appena parlato di Golda Meir, e visto che uno dei temi più scottanti del momento è la vicenda dell’aereo della Malaysia, andate anche a leggere questa storia straordinaria)

barbara