MIGRANTI: LA PAROLA A CHI SA

Il traffico di umani dall’Africa, le mafie e la complicità dei razzisti

Il traffico di esseri umani nel mondo frutta 150 miliardi di dollari alle mafie, di cui 100 miliardi vengono dalla tratta degli africani. Ogni donna trafficata frutta alla mafia nigeriana 60 mila euro. Trafficandone 100mila in Italia, la mafia muove un giro di 600 milioni di euro all’anno. Nessun africano verrebbe di sua volontà, se sapesse la verità su cosa lo attende in Europa.
Non mi infilo nell’eterna guerra civile italiana basata su fazioni e non contenuti, ma da afrodiscendente italiano e immigrato ora negli Stati Uniti credo sia arrivato il momento di parlare e trattare l’immigrazione o meglio la mobilità come un problema e fenomeno strutturale che ha vari livelli e non come uno strumento per fare politica o da trascinarsi come i figli contesi di due genitori che li usano per il loro divorzio come arma di ricatto.
Secondo stime dell’ONU, ogni anno sono trafficati milioni di esseri umani con una stima di guadagno delle mafie di 150 miliardi di dollari di fatturato ripeto 150 MILIARDI. (le allego la news di AlJaazera non de Il Giornale o il Fatto Quotidiano). Io non so se lei ha mai vissuto o lavorato nell’Africa vera e che Africani conosce in Italia o se da giornalista si informa su testate anche non italiane, ma il traffico di esseri umani con annessi accessori vari (bambini, organi, prostituzione) non è un fenomeno che riguarda solo l’Italietta dei porti sì o porti no, ma è un fenomeno globale che fattura alle mafie africane, asiatiche, messicane, 100 – e ripeto 100 – Miliardi di dollari all’anno.
Questi soldi poi non vengono certo redistribuiti alla popolazione povera di questi paesi, ma usati per soggiogarla ancora di più con angherie di ogni genere, destabilizzarne i già precari equilibri politici, reinvestirli in droga e armi.
Si è mai chiesto perché, a parità di condizioni di povertà e credenza che l’Europa sia una bengodi, quelli che arrivano da Mozambico, Angola, Kenya sono pochissimi, o quelli che arrivano dal Ghana (il Ghana che è il mio Paese d’origine ha una crescita del PIL del 7% e una situazione di assenza di guerre e persecuzioni) provano a venire? Perché esiste una cosa chiamata Mafia Nigeriana, che pubblicizza nei villaggi che per 300 euro in 4 settimane è possibile venire in Italia e da lì se vogliono andare in altri Paesi Europei. Salvo poi fregarli appena salgono su un furgone aumentandogli all’improvviso la fee di altri 1000 $, la quale aumenta di nuovo quando arrivano in Libia dove gliene chiedono altri 1000$ per la traversata finale. Il tutto non in 4 settimane come promettono, ma con un tempo di attesa medio di un anno.
In tutto questo ci aggiungo minori che vengono affidate a donne che non sono le loro veri madri, che poi spariranno una volta sistemate le cose in Europa e di centinaia di donne che saranno invece dirottare a fare le prostitute ognuna delle quale vale 60 mila euro d’incasso per la mafia stessa. Solo trafficandone 100.000 verso l’Italia la mafia nigeriana muove un giro di affari di 600 milioni di euro all’anno.
A questo si somma quello che perde l’Africa: risorse giovani. Ho conosciuto ghanesi che hanno venduto il taxi o le proprie piccole mandrie per venire in Europa e ritrovarsi su una strada a elemosinare o a guadagnare 3 euro all’ora, se gli va bene, trattati come bestie e che non riescono neanche a mettere ovviamente da parte un capitale come era nei loro progetti. E anche se desiderano tornare non lo faranno mai per la vergogna perché non saprebbero cosa dire al villaggio, non saprebbero come giustificare quei soldi spesi per arrivare in Europa, anzi alimentano altre partenze facendosi selfies su facebook, che tutto va bene per non dire la verità per vergogna e quindi altri giovani (diciottenni, non scolarizzati ) cercano di venire qui perché pensano che sia facile arricchirsi.
Che senso ha sostenere che questo traffico di “schiavi” e questa truffa criminale della mafia nigeriana, come quelle asiatiche in Asia, deve continuare?
A chi fa bene? Non fa bene al continente africano, non fa bene al singolo africano arrivato qui, perché al 90 per cento entra in clandestinità e comunque non troverà mai un lavoro dignitoso; non fa bene all’Italia che non ha le risorse economiche e culturali per gestire e sostanzialmente mantenere tante persone che non possano contribuire specialmente in un Paese dove il 40% dei coetanei di questi giovani africani è già senza un lavoro; e non fa bene neanche all’immagine che l’europeo ha dell’Africano perché lo vede sempre come una vittima, un povero, un soggetto debole.
Questo da africano, ma anche essere umano, è l’atteggiamento più razzista che ci sia oltre che colonialista perché non aiuta nessuno, se non le mafie e chi lavora in buona o malafede in tutto questo indotto legato alla prima assistenza.
Con 5 mila dollari è più facile aprire una piccola attività in molti Paesi dell’Africa che venire qui a mendicare e se solo fosse veramente chiaro e divulgato questo concetto il 90 per cento delle persone non partirebbe più probabilmente neanche in aereo per l’Italia.
Specialmente chi ha forse la quinta elementare e 20 anni. Non è lo stesso tipo d’immigrazione di 30 anni fa dove molti erano anche 30enni, alcuni laureati, ma molti con diploma superiore e comunque trovavano lavori nelle fabbriche e in situazioni dignitose.
Non conosco la situazione delle ONG che si occupano dell’assistenza marittima, ma conosco benissimo quelle che operano in Africa di cui la maggioranza sono solo un sistema parassitario. Per i maggiori pensatori Africani e veri leader politici una delle prime cose da fare è proprio cacciare dall’Africa tutte le ONG, perché seppure il personale che ci lavora sono in buonafede, i giovani volontari, il sistema ONG serve a controllare e destabilizzare l’Africa da sempre, oltre che creare sudditanza all’assistenza, senza contare il giro finanziario di donazioni e sprechi fatti dalle ONG per mantenere dirigenti sfruttando l’immagine del povero bambino africano.
Basta con questo modo di pensare controproducente, razzista, e ignorante. Sarebbe curioso vedere qualcuna di queste ONG fare iniziative a Scampia mettendo nelle pubblicità le foto di qualche bambino napoletano.
Siamo stanchi di questa strumentalizzazione che fate su questo tema per i vostri motivi ideologici o le vostre battaglie fascisti o antifascisti sulla pelle di un continente di cui conoscete poco o che avete romanticizzato e idealizzato e che usate per mettere a posto la vostra coscienza o lenire i sensi di colpa del vostro status privilegiato. E’ ora di fare analisi serie e porre in campo soluzioni concrete vincenti, non di avvelenare i pozzi di un partito o dell’altro, perché chiunque vinca perde l’Africa.
Sarebbe bello un reportage di Edo State in qualche villaggio per capire a che livello di furbizia, cattiveria, fantasia criminale sono arrivati e scoprirete che forse solo trasportare e illudere un giovane analfabeta di vent’anni e la sua famiglia è il minimo che questa potentissima e sottostimata organizzazione criminale fa ogni giorno, sfruttando la disperazione e ignoranza delle gente di cui alcuni disposti a tutto, persino a vendere un figlio appena nato per 100 dollari.
Se questo verrà tollerato ancora i rischi non saranno solo per l’Italia, ma anche per i Paesi Africani dove oltre al problema di dittatori si aggiungerà quello di Narcos al livello della Colombia di Escobar o il Messico di El Chapo con ancora più morti e sottosviluppo di quello che già c’è.

di Fred Kuwornu (qui)

E poi c’è Gino Strada, che i “migranti” li raccatterebbe su tutti, li porterebbe tutti in Italia, subito, di corsa, ma…

È sobbalzato sulla sedia, il giornalista Toni Capuozzo, quando l’altra sera, ospite a In onda su La7 con Gino Strada, ascoltava il fondatore di Emergency raccontare perché la sua organizzazione non sia più presente nel Mediterraneo a soccorrere i migranti.
Salvini non c’entra, anzi «se potessimo saremmo in mare domani mattina e li porteremmo nei porti italiani». Il punto è che «non abbiamo i soldi per farlo – ha spiegato Strada -. Noi lavoravamo su una barca che era di proprietà di Moas, contribuivamo con il nostro personale sanitario che pagavamo noi: delle spese logistiche noi pagavamo 150mila euro al mese. Dopodiché – ha svelato – ci hanno chiesto di dare di più, 180mila o 230mila, noi abbiamo discusso tra di noi e abbiamo accettato. Poi ci hanno detto: vogliamo che sbarchiate domani perché la Croce Rossa ci dà 400mila euro e noi che dovevamo fare? È come quando il padrone di casa ti dà lo sfratto».

Siete scettici? Fake news? Manipolazione? Frasi estrapolate dal contesto? Allora ascoltatele dalla viva voce di Strada in persona:

La Croce Rossa, già. Quella che a Theresienstadt ha trovato tutto regolare, quella che ad Auschwitz, nella persona di Maurice Rossel intervistato da Claude Lanzmann, non solo non vede camere a gas e forni crematori, cosa che possiamo anche immaginare senza troppa difficoltà, ma non vede neanche i treni, non vede i camini, non vede il fumo, non sente l’odore delle tonnellate di carne umana bruciata (“Le baracche militari o cose simili hanno sempre un cattivo odore. Ma se mi parla di odore di carne bruciata, di cose di questo tipo, altri le hanno sentite o viste, io non ho visto nulla”) qui, se il Cannocchiale funziona. Quella che, dopo avere accettato come simbolo riconosciuto la mezzaluna rossa, alla proposta di accettare anche la stella di David rossa ha risposto: “ E perché non anche la svastica allora, già che ci siamo!” Quella, ora anche in combutta coi trafficanti di carne umana.
Chiudo con una nota ottimistica che ci viene da un signore che immagino sia di sinistra, che ci fa sperare che non tutti siano accecati dall’odio antisalviniano.
susic
barbara

LA STORIA DIMENTICATA DEI BIANCHI RIDOTTI IN SCHIAVITÙ

(Perché il famoso «Mamma li turchi» non è una leggenda, né un modo di dire frutto di qualche bizzarro pregiudizio, bensì una tragica realtà della nostra storia, che faremmo bene a non dimenticare)

(È piuttosto lungo. Magari leggetelo a rate, ma leggetelo, che di queste cose non si parla mai. E bisognerebbe, invece)

I neri ricordano, i bianchi hanno dimenticato
Gli storici americani hanno studiato tutti gli aspetti della schiavitù degli africani ad opera dei bianchi, ma hanno ampiamente ignorato la schiavitù dei bianchi da parte dei nord africani. Quella degli schiavi cristiani con padroni musulmani è una storia accuratamente documentata e scritta chiaramente di ciò che il prof Davis chiama «l’altra schiavitù», sviluppatasi all’incirca nello stesso periodo del commercio transatlantico, e che ha devastato centinaia di comunità costiere europee. Nel pensiero dei bianchi di oggi, la schiavitù non ha minimamente il ruolo centrale che ha tra neri, ma non perché sia stato un problema di breve durata o di scarsa importanza. La storia della schiavitù mediterranea è, infatti, altrettanto fosca delle più tendenziose descrizioni della schiavitù americana.
Nel XVI secolo, gli schiavi bianchi razziati dai musulmani furano più numerosi degli africani deportati nelle Americhe.

Un commercio all’ingrosso
La Costa dei Barbari, che si estende dal Marocco fino all’attuale Libia, fu sede di una fiorente industria del rapimento di esseri umani dal 1500 fino al 1800 circa. Le grandi capitali del traffico di schiavi furono Salé in Marocco, Tunisi, Algeri e Tripoli, e durante la maggior parte di questo periodo le marine europee erano troppo deboli per opporre più che una resistenza simbolica.
Il traffico transatlantico dei neri era puramente commerciale, ma per gli arabi, i ricordi delle crociate e la rabbia per essere stati espulsi dalla Spagna nel 1492 sembrano aver determinato una campagna di rapimenti dei cristiani, quasi simile ad una Jihad.
«È stato forse questo pungolo della vendetta, contrapposto alle amichevoli contrattazioni della piazza del mercato, che ha reso gli schiavisti islamici tanto più aggressivi e inizialmente (potremmo dire) più prosperi nel loro lavoro rispetto ai loro omologhi cristiani», scrive il professor Davis.
Durante i secoli XVI e XVII furono condotti più schiavi verso sud attraverso il Mediterraneo che verso ovest attraverso l’Atlantico. Alcuni furono restituiti alle loro famiglie in cambio di un riscatto, alcuni furono utilizzati per lavoro forzato in Africa del Nord e i meno fortunati morirono di fatica come schiavi nelle galere.
Ciò che più colpisce circa le razzie barbaresche è la loro ampiezza e la loro portata. I pirati rapivano la maggior parte dei loro schiavi intercettando imbarcazioni, ma organizzavano anche enormi assalti anfibi che praticamente spopolavano parti della costa italiana. L’Italia è il bersaglio più apprezzato, in parte perché la Sicilia è solo a 200 km da Tunisi, ma anche perché non aveva un governo centrale forte che potesse resistere all’invasione.

Grandi incursioni spesso non incontrarono alcuna resistenza
Quando i pirati hanno saccheggiato Vieste nell’Italia meridionale nel 1554, ad esempio, rapirono uno stupefacente totale di 6.000 prigionieri. Gli algerini presero 7.000 schiavi nel Golfo di Napoli nel 1544, un raid che fece crollare il prezzo degli schiavi a tal punto che si diceva che si poteva «scambiare un cristiano per una cipolla».
Anche la Spagna subì attacchi su larga scala. Dopo un raid su Granada nel 1556, che fruttò 4.000 uomini, donne e bambini, si diceva che «piovevano cristiani su Algeri». Si può calcolare che per ognuno di questi grandi raid ce ne siano stati dozzine di minori.
La comparsa di una grande flotta poteva far fuggire l’intera popolazione nell’entroterra, svuotando le regioni costiere.
Nel 1566, un gruppo di 6.000 turchi e corsari attraversarono il mare Adriatico e sbarcarono a Francavilla. Le autorità non erano in grado di fare nulla e raccomandarono l’evacuazione completa, lasciando ai turchi il controllo di più di 1300 chilometri quadrati di villaggi abbandonati fino a Serracapriola.
Quando apparivano i pirati, la gente spesso fuggiva dalla costa per andare alla città più vicina, ma il Professor Davis spiega che questa non era sempre una buona strategia: «più di una città di medie dimensioni, affollata di profughi, si trovò nell’impossibilità di sostenere un assalto frontale di molte centinaia di corsari e reis [capitano dei corsari] che altrimenti avrebbero dovuto cercare schiavi a poche dozzine per volta lungo le spiagge e sulle colline, potevano trovare un migliaio o più di prigionieri comodamente raccolti in un unico luogo per essere presi.»
I pirati tornavano continuamente a saccheggiare lo stesso territorio. Oltre a un numero molto maggiore di piccole incursioni, la costa calabra subì le seguenti depredazioni, sempre più gravi in meno di dieci anni: 700 persone catturate in un singolo raid nel 1636, un migliaio nel 1639 e 4.000 nel 1644.
Durante il XVI e XVII secolo, i pirati installarono basi semi-permanenti sulle isole di Ischia e Procida, quasi all’imboccatura del Golfo di Napoli, da cui organizzavano il loro traffico commerciale.
Quando sbarcavano sulla riva, i corsari musulmani non mancavano di profanare le chiese. Spesso rubavano le campane, non solo perché il metallo aveva valore, ma anche per ridurre al silenzio la voce inconfondibile del cristianesimo.
Nelle più frequenti piccole incursioni, un piccolo numero di barche operavano furtivamente, piombando sugli insediamenti costieri nel cuore della notte per catturare gli uomini «tranquilli e ancora nudi nel loro letto». Questa pratica diede origine alla moderna espressione siciliana, pigliato dai turchi, [in italiano nel testo], che significa essere colto di sorpresa, addormentato o sconvolto.

La predazione costante provocava un terribile numero di vittime
Le donne erano più facili da catturare degli uomini, e le regioni costiere potevano perdere rapidamente tutte le loro donne in età fertile. I pescatori avevano paura di uscire, e si prendeva il mare solo in convogli. Infine, gli italiani abbandonarono gran parte delle loro coste. Come ha spiegato il Professor Davis, alla fine del XVII secolo «la penisola italiana era preda dei corsari di Barberia da più di due secoli, e le popolazioni costiere si erano ritirate in gran parte nei villaggi fortificati sulle colline o in città più grandi come Rimini, abbandonando chilometri di coste, una volta popolate, a vagabondi e filibustieri.
È solo verso il 1700 che gli italiani riuscirono a impedire le imponenti incursioni di terra, anche se la pirateria sui mari continuò senza ostacoli.
La pirateria indusse la Spagna e soprattutto l’Italia ad allontanarsi dal mare e perdere la loro tradizione di commercio e di navigazione, con effetti devastanti: «Almeno per l’Iberia e l’Italia, il XVII secolo ha rappresentato un periodo oscuro in cui le società spagnola e italiana non erano più che l’ombra di quello che erano state durante le epoche d’oro precedenti».
Alcuni pirati arabi erano abili navigatori d’alto mare e terrorizzavano i cristiani fino ad una distanza di 1600 km. Uno spettacolare raid in Islanda nel 1627 fruttò quasi 400 prigionieri.
L’Inghilterra era stata una formidabile potenza di mare dal tempo di Francis Drake, ma per tutto il XVII secolo, i pirati arabi operarono liberamente nelle acque britanniche, entrando persino nell’estuario del Tamigi a fare catture e incursioni sulle città costiere. In soli tre anni, dal 1606 al 1609, la Marina britannica ha riconosciuto di aver perso non meno di 466 navi mercantili inglesi e scozzesi a causa dei corsari algerini. Nel metà del Seicento, gli inglesi erano impegnati in un attivo traffico trans-atlantico dei neri, ma molti equipaggi inglesi divennero proprietà dei pirati arabi.

Vita sotto la frusta
Gli attacchi di terra potevano essere molto fruttuosi, ma erano più rischiosi delle catture in mare. Le navi erano quindi la principale fonte di schiavi bianchi. A differenza delle loro vittime, le navi dei corsari avevano due mezzi di propulsione: gli schiavi delle galee oltre alle vele. Ciò  significava che potevano avanzare a remi verso un’imbarcazione ferma per la bonaccia e attaccarla quando volevano. Avevano molte bandiere diverse, così quando navigavano potevano issare quella che meglio poteva ingannare le prede.
Una nave mercantile di buone dimensioni poteva trasportare circa 20 marinai abbastanza sani da poter sopportare qualche anno nelle galere, e i passeggeri erano generalmente buoni per ottenere un riscatto. I nobili e i ricchi mercanti erano prede allettanti, così come gli ebrei, che potevano generalmente fornire un forte riscatto da parte dei loro correligionari. Anche alti dignitari del clero erano preziosi perché il Vaticano era solito pagare qualsiasi prezzo per sottrarli alle mani degli infedeli.
All’arrivo di pirati, spesso i passeggeri si toglievano i vestiti belli e tentavano di vestirsi il più poveramente possibile, nella speranza che loro rapitori li restituissero alla loro famiglia per un riscatto modesto. Lo sforzo era inutile se i pirati torturavano il capitano per avere informazioni sui passeggeri. Era inoltre consuetudine far spogliare gli uomini, sia per cercare oggetti di valore cuciti nei vestiti, sia per verificare che non ci fossero ebrei circoncisi travestiti da cristiani.
Se i pirati erano a corto di schiavi per le galee, potevano mettere immediatamente al lavoro alcuni dei loro prigionieri, ma i prigionieri erano solitamente messi nella stiva per il viaggio di ritorno. Erano ammassati, potevano a malapena muoversi in mezzo a sporcizia, fetore e parassiti, e molti morivano prima di raggiungere il porto.
All’arrivo in Nord Africa, era d’uso far sfilare per le strade i cristiani appena catturati, affinché la gente potesse schernirli e i bambini coprirli di immondizia.
Al mercato degli schiavi, gli uomini erano costretti a saltellare per dimostrare che non erano zoppi, e gli acquirenti spesso li volevano far mettere nudi per vedere se erano in buona salute. Ciò permetteva anche di valutare il valore sessuale di uomini e donne; le concubine bianche avevano grande valore, e tutte le capitali dello schiavismo avevano una fiorente rete omosessuale. Gli acquirenti che speravano di fare rapidi guadagni con un forte riscatto, esaminavano lobi delle orecchie per trovare segni di piercing, che era un’indicazione della ricchezza. Inoltre si usava guardare i denti per vedere se fossero in grado di sopportare un duro regime di schiavo.
Il Pasha,  cioè il governatore della regione, riceveva una certa percentuale di schiavi come una forma di imposta sul reddito. Questi erano quasi sempre uomini e diventavano proprietà del governo, piuttosto che proprietà privata. A differenza degli schiavi privati che solitamente si imbarcavano con il loro padrone, questi vivevano nei «bagni», come erano chiamati i negozi di schiavi del Pascià. Agli schiavi pubblici venivano solitamente rase la testa e la barba come ulteriore umiliazione, in un tempo in cui la capigliatura e la barba erano una parte importante dell’identità maschile.
La maggior parte di questi schiavi pubblici trascorrevano il resto della propria vita come schiavi sulle galee, ed è difficile immaginare un’esistenza più miserabile. Gli uomini erano incatenati tre, quattro o cinque ad ogni remo, e anche le loro caviglie erano incatenate insieme. I rematori non lasciavano mai il loro remo, e quando veniva loro concesso di dormire, dormivano sul loro banco. Gli schiavi avrebbero potuto spingersi a vicenda per defecare in un’apertura dello scafo, ma spesso erano troppo esausti o scoraggiati per muoversi e si liberavano sul posto. Non avevano alcuna protezione contro il sole cocente del Mediterraneo, e il loro padrone sfregiava le schiene già provate con lo strumento di incoraggiamento preferito del padrone di schiavi: un pene di bue allungato o “nerbo di bue”. Non c’era quasi nessuna speranza di fuga o di aiuto; il compito dello schiavo era quello di ammazzarsi di fatica – principalmente in incursioni per catturare altri disgraziati come lui – e suo padrone lo gettava in mare al primo segno di malattia grave.
Quando la flotta pirata era in porto, gli schiavi vivevano nel “bagno” e facevano tutti i lavori sporchi, pericolosi o estenuanti che il Pasha ordinava. Lavori consueti erano tagliare e trascinare pietre, dragare il porto, o lavori dolorosi. Gli schiavi che si trovavano nella flotta del sultano turco non avevano nemmeno quella scelta. Erano spesso in mare per mesi di fila e restavano incatenati a loro remi anche al porto. Le loro barche erano prigioni a vita.
Altri schiavi sulla Costa dei Barbari avevano i lavori più vari. Spesso svolgevano lavori domestici o agricoli del genere che noi associamo alla schiavitù in America, ma quelli che avevano qualche competenza venivano spesso affittati dai loro proprietari. Alcuni proprietari mandavano in giro i loro schiavi durante il giorno con l’ordine di tornare la sera con una certa quantità di soldi, sotto pena di essere duramente picchiati. I padroni sembravano aspettarsi un profitto di circa il 20% sul prezzo di acquisto. Qualunque cosa facessero, a Tunisi e Tripoli, gli schiavi dovevano tenere un anello di ferro attorno a una caviglia e una catena di 11 o 14 kg di peso.
Alcuni proprietari mettevano i loro schiavi bianchi a lavorare in fattorie lontane verso l’interno, dove correvano un altro rischio: la cattura e una nuova schiavitù dalle incursioni berbere. Questi infelici probabilmente non avrebbero mai più visto un altro europeo per il resto della loro breve vita.
Il Professor Davis osserva che non c’era nessun ostacolo alla crudeltà: «Non c’era alcuna forza equivalente per proteggere lo schiavo dalla violenza del suo padrone: nessuna legge locale  contro la crudeltà, nessuna opinione pubblica benevola e raramente pressioni efficaci da parte di stati stranieri».
Gli schiavi bianchi non erano solo merci, erano infedeli e meritavano tutte le sofferenze che il padrone infliggeva loro.
Il Professor Davis osserva che «tutti gli schiavi vissuti nei “bagni” e sopravvissuti per scrivere le loro esperienze, hanno sottolineato la crudeltà e la violenza endemica che vi venivano praticate». La punizione preferita era fustigazione, in cui un uomo veniva messo sulla schiena con le caviglie legate per essere battuto a lungo sulle piante dei piedi.

Uno schiavo poteva ricevere fino a 150 o 200 colpi, che potevano lasciarlo storpiato. La violenza sistematica trasformava molti uomini in automi.
Gli schiavi cristiani erano spesso così numerosi e così a buon mercato che non c’era alcun interesse ad occuparsene; molti proprietari li facevano lavorare fino alla morte e poi li rimpiazzavano.
Gli schiavi pubblici contribuivano anche ad un fondo per mantenere i sacerdoti del bagno. Era un’epoca molto religiosa e anche nelle condizioni più terribili gli uomini volevano avere la possibilità di confessarsi e, soprattutto, di ricevere l’estrema unzione. C’era quasi sempre un sacerdote prigioniero o due nel bagno, ma perché fosse disponibile per i suoi compiti religiosi, gli altri schiavi dovevano contribuire e riscattare il suo tempo al pasha. Alcuni schiavi di galee dunque non avevano più niente per comprare cibo o vestiti, sebbene in certi periodi degli europei liberi che vivevano nelle città della Costa dei Barbari contribuissero al mantenimento dei sacerdoti.
Per alcuni la schiavitù diventava più che sopportabile. Alcuni mestieri, in particolare quello del costruttore di navi, erano così ricercati che un proprietario poteva premiare il suo schiavo con una villa privata e delle amanti. Anche alcuni residenti del bagno riuscivano a sfruttare l’ipocrisia della società islamica e a migliorare la propria condizione. La legge vietava rigorosamente ai musulmani il commercio di alcol, ma era più indulgente con i musulmani che si limitavano a consumarlo. Schiavi intraprendenti organizzarono delle taverne nei bagni e alcuni facevano la bella vita servendo i bevitori musulmani.
Un modo per alleggerire il peso della schiavitù era «prendere il turbante» e convertirsi all’islam. Questo esentava dal servizio nelle galere, dai lavori faticosi e qualche altra vessazione indegna di un figlio del Profeta, ma non faceva cessare la condizione di schiavo. Uno dei compiti dei sacerdoti dei bagni era quello di impedire agli uomini disperati di convertirsi, ma la maggior parte degli schiavi non sembrano aver bisogno di consiglio religioso. I cristiani pensavano che la conversione avrebbe messo in pericolo la loro anima, e significava anche lo sgradevole rituale della circoncisione in età adulta. Molti schiavi sembravano sopportare gli orrori della schiavitù considerandoli come una punizione per i loro peccati e come una prova per la loro fede. I padroni scoraggiavano le conversioni perché limitavano il ricorso ai maltrattamenti e abbassavano il valore di rivendita di uno schiavo.

Riscatto e redenzione degli schiavi bianchi
Per gli schiavi, la fuga era impossibile. Erano troppo lontani da casa, spesso erano incatenati ed erano immediatamente identificabili dai loro tratti europei. L’unica speranza era il riscatto.
A volte la salvezza arrivava in fretta. Se un gruppo di pirati aveva già catturato tanti uomini che non c’era più abbastanza spazio sotto il ponte, poteva fare un’incursione in una città e poi tornare qualche giorno più tardi per rivendere i prigionieri alle loro famiglie. Era di solito ad un prezzo notevolmente inferiore a quello del riscatto di chi si trovava nell’Africa del Nord, ma era molto di più di quanto i contadini potessero permettersi. Gli agricoltori normalmente non avevano denaro in contanti e non avevano altri beni che la casa e la terra. Un mercante era generalmente disposto ad acquistarlo a modico prezzo, ma ciò significava che un prigioniero tornava in una famiglia completamente rovinata.
La maggior parte degli schiavi potevano prospettarsi il ritorno solo dopo essere passati attraverso il calvario del passaggio in un paese del Nordafrica e la vendita a uno speculatore. I prigionieri ricchi generalmente potevano trovare un riscatto sufficiente, ma la maggior parte dei schiavi non potevano. I contadini analfabeti non potevano scrivere a casa e anche se lo avessero fatto, non c’erano soldi per un riscatto.
La maggior parte degli schiavi dipendeva dall’opera caritatevole dei Trinitari (fondata in Italia nel 1193) e dei Mercedari (fondata in Spagna nel 1203). Questi gli ordini religiosi erano stati fondati per liberare i crociati detenuti dai musulmani, ma ben presto passarono a dedicarsi all’opera di riscatto degli schiavi detenuti dai barbareschi, raccogliendo denaro appositamente per questo scopo. Spesso mettevano davanti alle chiese delle cassette con la scritta «per il recupero dei poveri schiavi», e il clero invitava i cristiani ricchi a lasciare soldi per l’esaudimento dei loro voti. I due ordini divennero abili negoziatori e riuscivano a riscattare gli schiavi a prezzi migliori di quelli ottenuti da liberatori inesperti. Tuttavia non c’era mai abbastanza denaro per liberare molti prigionieri, e il Professor Davis ha stimato che in un anno venivano riscattati non più del 3 o 4% degli schiavi. Questo significa che la maggior parte hanno lasciato le loro ossa nelle tombe cristiane senza un contrassegno fuori dalle mura delle città.
Gli ordini religiosi tenevano conti precisi dei risultati conseguiti. I Trinitari spagnoli, per esempio, hanno effettuato 72 spedizioni di riscatto nel Seicento, con una media di 220 liberazioni ciascuna. Era consuetudine portare gli schiavi liberati nelle loro case e farli passare per le strade delle città in grandi celebrazioni. Queste parate divennero uno degli spettacoli urbani più caratteristici del tempo e avevano un forte orientamento religioso. A volte gli schiavi camminavano con i loro vecchi stracci di schiavi per evidenziare i tormenti che avevano sofferto; talvolta indossavano speciali costumi bianchi per simboleggiare la rinascita. Secondo i registri del tempo, molti schiavi liberati non si ristabilirono mai completamente dopo il loro calvario, soprattutto se essi aveva trascorso molti anni in cattività.

Quanti schiavi?
Il Professor Davis nota che sono state fatte enormi ricerche per calcolare il più precisamente possibile il numero di neri trasportati attraverso l’Atlantico, ma che non c’è stato uno sforzo analogo per conoscere l’estensione della schiavitù nel Mediterraneo. Non è facile ottenere dati affidabili, anche gli arabi generalmente non conservavano archivi. Ma nel corso di oltre dieci anni di ricerca il Professor Davis ha sviluppato un metodo di calcolo.
Ad esempio, gli archivi suggeriscono che dal 1580 al 1680 c’è stata una media di circa 35.000 schiavi nei paesi di Barberia. C’era una perdita costante per morti e riscatti, così se la popolazione rimaneva costante, il tasso di cattura di nuovi schiavi da parte dei pirati doveva essere tale da pareggiare le perdite. C’è una buona base per stimare il numero dei decessi. Per esempio, sappiamo che dei quasi 400 islandesi catturati nel 1627, solo 70 erano ancora vivi otto anni più tardi. Oltre alla malnutrizione, al sovraffollamento, all’eccesso di lavoro e alle punizioni brutali, gli schiavi subivano delle epidemie di peste, che eliminavano solitamente il 20 o 30% degli schiavi bianchi.
In base a un certo numero di fonti, il Professor Davis calcola pertanto che il tasso di mortalità era circa il 20% all’anno. Gli schiavi non avevano accesso alle donne, quindi la sostituzione avveniva esclusivamente per mezzo delle catture.

La sua conclusione: Tra il 1530 e il 1780, quasi certamente 1 milione e probabilmente fino a 1 milione e un quarto di cristiani europei bianchi sono stati ridotti in schiavitù dai musulmani della Costa dei Barbari.

Questo supera notevolmente la cifra generalmente accettata di 800.000 africani trasportati nelle colonie del Nord America e successivamente negli Stati Uniti.
Le potenze europee non furono in grado di porre fine a questo traffico.
Il Professor Davis spiega che alla fine del Settecento controllavano meglio questo commercio, ma ci fu una ripresa della schiavitù dei bianchi durante il caos delle guerre napoleoniche.

Neppure la navigazione americana si salvava dalla predazione. Fu solo nel 1815, dopo due guerre contro di loro, che i marinai americani riuscirono a liberarsi dei pirati barbareschi. Queste guerre furono operazioni importanti per la giovane Repubblica; una campagna è ricordata dalle parole «verso le coste di Tripoli» nell’inno della marina.
Quando i francesi presero Algeri nel 1830, c’erano ancora 120 schiavi bianchi nel bagno.
Perché c’è così poco interesse per la schiavitù nel Mediterraneo a fronte di un’infinità di studi e riflessioni sulla schiavitù dei neri? Come spiega il Professor Davis, schiavi bianchi con padroni non bianchi non si inquadrano nella «narrativa dominante dell’imperialismo europeo». Gli schemi di vittimizzazione tanto cari agli intellettuali richiedono malvagità bianca, non sofferenze bianche.
Il Professor Davis osserva anche che l’esperienza europea della schiavitù su larga scala rende evidente la falsità di un altro tema favorito della sinistra: che la schiavitù dei neri sarebbe stata un passo fondamentale nella creazione di concetti europei di razza e gerarchia razziale.
Non è il vero; per secoli, gli stessi europei sono vissuti nella paura della frusta, e molti hanno partecipato alle parate della redenzione degli schiavi liberati, che erano tutti bianchi. La schiavitù era un destino più facilmente immaginabile per se stessi che per i remoti africani.
Con un piccolo sforzo, è possibile immaginare gli europei preoccupati per schiavitù tanto quanto neri. Se per gli schiavi delle galere gli europei avessero nutrito lo stesso risentimento dei neri per i lavoratori nei campi, la politica europea sarebbe stato sicuramente diversa. Non ci sarebbe la continua richiesta di scuse per le crociate, l’immigrazione musulmana in Europa sarebbe più modesta, non spunterebbero minareti per tutta l’Europa e la Turchia non sognerebbe di entrare nell’Unione europea. Il passato non può essere cambiato e può essere esagerato coltivare rimpianti, ma chi dimentica si ritrova a pagare un prezzo elevato.

Fonti: Robert C. Davis, Christian Slaves, Muslim Masters: White Slavery in the Mediterranean, the Barbary Coast, and Italy, 1500-1800, Palgrave Macmillan 2003, 246 pagine, 35 dollari US.

Il genocidio velato
Sotto l’avanzata araba, milioni di africani furono razziati, massacrati o catturati, castrati e deportati nel mondo arabo-musulmano, da parte dei mercanti di carne umana dell’Africa orientale. Questa è stata in realtà la prima impresa degli arabi che hanno islamizzato i popoli africani, spacciandosi per pilastri della fede e modelli dei credenti. (Qui, traduzione mia)

barbara