A CAGARE, TUTTI DAL PRIMO ALL’ULTIMO

Un dettaglio nel quadro di 400 anni fa sconvolge gli osservatori: «È la prova di un viaggio nel tempo»

National Gallery di Londra: su una scarpa del bambino compare (incredibilmente) un marchio commerciale

Un quadro di 400 anni fa esposto alla National Gallery di Londra ha incuriosito gli osservatori, dopo che nelle ultime ore qualcuno ha notato un dettaglio insolito che potrebbe essere «il segno di un viaggio nel futuro». A dipingerlo nel XVII [diciassettesimo cosa?] è stato Ferdinand Bol. Nell’opera è raffigurato un bambino di 8 anni, che in primo piano regge un calice tra le mani [NO! Non regge un calice tra le mani: ha una mano posata sul calice che è posato sulla tavola! Capisco inventarvi le cose, ma addirittura raccontarci che stiamo vedendo una cosa diversa da quella che abbiamo davanti agli occhi, cazzo, bisogna essere più ritardati di un tricheco ritardato cieco e ubriaco, ma andate un po’ affanculo, va’]. Ma osservando con attenzione, si può notare un particolare decisamente curioso.

Il quadro e il dettaglio

Il bambino raffigurato nel quadro indossa una giacca e un mantello neri, una camicia bianca con maniche a balze, calzini ramati e stivali neri [stivali?! Ma stai concorrendo per il Guinness della deficienza?].
Tutto in linea con l’epoca, all’apparenza.
Tuttavia, controllando con un occhio più attento, si può notare che sulle scarpe del giovane appare un dettaglio che sembra un richiamo a qualcosa che non poteva esistere al suo tempo. Su una scarpa, infatti, appare un segno bianco, che sembra il celebre swoosh della Nike.
Tutto in linea con l’epoca, all’apparenza.
Tuttavia, controllando con un occhio più attento, si può notare che sulle scarpe del giovane appare un dettaglio che sembra un richiamo a qualcosa che non poteva esistere al suo tempo. Su una scarpa, infatti, appare un segno bianco, che sembra il celebre swoosh della Nike.

La sorpresa

A notare l’insolito dettaglio è stata Fiona Foskett, 57 anni, in visita alla galleria londinese con sua figlia Holly, 23 anni. «Le ho detto: ma quelle sono scarpe Nike!», racconta al The Sun [gran brutta bestia la menopausa]. Un portavoce della National Gallery ha dichiarato: «Siamo lieti che questa immagine abbia avuto un tale successo tra i nostri visitatori. Ha avuto successo anche tra i nostri follower, quando abbiamo pubblicato un Tweet chiedendo alle persone di vedere se potevano individuare un dettaglio più moderno nel ritratto».
Valerio Salviani, 21 Maggio 2023, qui.

Ora, le scarpe Nike sono così

o così

o così

La scarpa del bambino è questa

Naturalmente vi manderei a cagare anche se fosse uguale, ma dato che la scarpa del bambino non assomiglia neanche di striscio a quelle della Nike, vi ordino di cagare a spruzzo. E dunque signora Fiona, giornalisti che l’avete intervistata e portavoce della National: a cagare per primi.

I woke a cagare per secondi

E tra i woke da far cagare rientra a pieno titolo la sublime Galatea, aka Logorrea, aka Oca Signorina che sente il dovere di commentare da par suo (sua? suə?) questa foto

Galatea Vaglio

Ok, dico anche io la mia sulla polemica del giorno sul nudo della Ferragni.
Leggere i commenti sotto al post a me lascia perplessa [a me lascia perplessa? Laureata in lettere? Professoressa di lettere? Con master e dottorati di ricerca? Con un libro pubblicato per insegnare a parlare e scrivere correttamente in italiano? A me lascia perplessa?]. Perché mi sembra impossibile che nel 2023 ancora ci sia gente che si scandalizza per un nudo. Sono cresciuta in spiagge in cui quella [quella? Quella cosa?] era l’outfit ufficiale dell’estate: nessuno diceva nulla, e nessuna si metteva pudicamente le mani davanti al seno [in spiaggia: dice niente questo dettaglio?]. Per altro, ma a questo punto sarà un problema mio, io non capisco perché uno si debba sentire infastidito: un corpo nudo è un corpo, ce lo abbiamo tutti, sappiamo tutti come è fatto. Cresciamo con attorno statue di dee e dei nudi, i nudi sono persino nelle chiese [sicura?], e Michelangelo ci ha costruito su una carriera. Quindi, spiegatemi: perché? Perché ci sono decine di commenti che protestano, malignano, la insultano piu o meno velatamente? Perché una ragazzina di undici anni scrive un commento risentito, dicendo che “allora ci dici che per avere successo dobbiamo metterci nude anche noi?” Perché altri le dicono che come figli si vergognerebbero se vedessero le mamme così? Che mamme la criticano perché “eh ma ti seguono anche le ragazzine grasse, così le offendi”, figli lamentano che “eh mercifichi tutto”. Più che la Ferragni a me sembra che davvero abbiamo tutti un problema, un grosso enorme problema con il corpo, in generale, e quello femminile in particolare, ma con il corpo in generale. Un corpo dovrebbe essere solo un corpo, nudo, vestito, magro, in carne, bello, brutto. Basta con questa idea che non lo devo mostrare per dimostrare di essere intelligente, o lo devo mostrare per dimostrare di essere libera, o chissà che. Un corpo è un corpo, lo mostro se mi va, non lo mostro se non ho voglia, non dovrebbe far scandalo, non dovrebbe far vergognare figli o nipoti o sconosciuti se viene esposto, non certifica il fatto che io sia intelligente o scema, furba o stupida, santa o p******. È una cosa mia, punto e basta, come il viso, come i capelli, come le mani che ne fanno parte. Se lasciassimo finalmente che il corpo fosse un corpo, e ciascuni [ehm] potesse gestirlo come vuole, ma quanto meglio sarebbe la vita, ecco.

Cioè, secondo la Signorina, se in una giornata calda mi tiro su le maniche e scopro i gomiti o se tiro su la gonna e scopro la patata che, sempre per via del caldo, non è coperta dalle mutande, è esattamente la stessa cosa. Della deficienza, dell’insipienza, della cretinitudine, della totale incapacità di ragionare oltre che della stratosferica ignoranza in ogni campo dello scibile umano del soggetto in questione, si è già ripetutamente discettato in questo blog. A cagare a spruzzo per sei settimane di fila.

I comunisti a cagare per terzi

I guevaristi a cagare per quarti

I cultori della lingua italiana (con delega al latino) a cagare per quinti

Gli animalisti a cagare per sesti

(i difensori dell’orsa a spruzzo)

E qualcuno lo mandiamo a pisciare

Però, per onestà dobbiamo riconoscerlo, esiste anche qualche piddino intelligente

A seguire tutti gli altri che manderemo a cagare alla prossima puntata

E sempre a proposito di cagare

E concludiamo con una sana risata, che non guasta mai

barbara

E VIVA IL COMUNISMO E LA LIBERTÀ

Ritengo opportuno far precedere questo articolo da un inno appropriato.

Hasta i rifugiati del socialismo siempre!

Non sbarcano a Lampedusa, sono 9 milioni di venezuelani in fuga dal regime che ha realizzato l’uguaglianza: tutti poveri. Dai 5 Stelle ai Nobel, tutti compañeros alla “Mecca dei ciarlatani”

Le Nazioni Unite hanno avvertito che entro la fine del prossimo anno ci saranno 8,9 milioni di rifugiati venezuelani in tutta l’America Latina. Un esodo che supera di gran lunga quello siriano con 6,8 milioni di profughi. Ma se la Siria è finita così a causa di una guerra civile, il Venezuela ha fatto tutto da solo. Ha abbracciato il socialismo castrista, come racconta il Wall Street Journal.
Ma se per i migranti siriani e africani le tv, i giornali e le agenzie umanitarie sono tutte lì, alla frontiera polacca, nelle spiagge di Lesbo e nel porto di Lampedusa, per il grande esodo dei migranti venezuelani non c’è quasi nessuno.
“Nella prima metà del 2019, il Venezuela ha iniziato a soffrire di carenza di benzina” racconta il Journal. “La nazione aveva le più grandi riserve di petrolio del mondo. Eppure i conducenti si trovano ad aspettare giorni e giorni in fila davanti alle stazioni di servizio, ricordando la vecchia barzelletta su come se i comunisti si fossero impossessati del Sahara, la sabbia sarebbe finita. Allo stesso tempo, navi cisterna partivano dai terminal venezuelani pieni di petrolio dirigendosi… verso Cuba. Questa immagine racconta la storia fondamentale del disastro del Venezuela. I bisogni di Cuba vengono prima di tutto. Sempre”.
I dati sono spaventosi: “Il 95 per cento dei venezuelani è povero. Più di 3 venezuelani su 4 vivono in condizioni di estrema povertà e insicurezza alimentare. A 3 dollari al mese, il salario minimo legale non dà da mangiare a una persona per un giorno, figuriamoci a una famiglia per un mese. La metà della popolazione in età lavorativa ha abbandonato la forza lavoro. Il Pil pro capite è crollato a livelli che non si vedevano dagli anni ’50. La scarsità d’acqua è endemica in tutte le città. I blackout sono comuni. Le biciclette sono diventate il mezzo di trasporto preferito da coloro che possono permettersele. Il sistema sanitario è crollato, portando i tassi di mortalità infantile a livelli mai visti da una generazione. Malattie come la difterite e la malaria, che erano state debellate decenni fa, sono tornate. L’unico aspetto positivo? I tassi di omicidi sono diminuiti perché le munizioni scarseggiano”.
Un venezuelano in media ha perso 11 chili di peso…Il Venezuela è un luogo ideale per girare il sequel di “Hunger Games”. I giochi della fame. Nei giorni scorsi funzionari dell’Onu nello spiegare la gravità contrazione economica in Afghanistan hanno detto che “lo abbiamo visto soltanto in Venezuela”.
Perché curarsene? In fondo il Venezuela non siede forse nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu, anche se ha gli stipendi più bassi al mondo e l’inflazione più alta del pianeta?
Perché i 9 milioni fuggono da un regime incensato dai pundit di sinistra in tutto il mondo, dagli attori di Hollywood, dalle ong e da tanti, troppi funzionari delle Nazioni Unite. Donne che combattono per un pezzo di burro, madri che non riescono a trovare il latte, bambini che frugano nella spazzatura, scaffali vuoti nelle farmacie, ospedali senza barelle e antibiotici, medici che operano alla luce di un telefonino, donne che partoriscono fuori dagli ospedali. Sul New York Times, Bret Stephens si è domandato dove siano i progressisti sul Venezuela. “Ogni generazione di attivisti abbraccia una causa di politica estera: porre fine all’apartheid in Sudafrica; fermare la pulizia etnica nei Balcani; salvare il Darfur dalla fame e dal genocidio. E poi c’è la causa perenne – e perennemente indegna – della ‘liberazione’ della Palestina, per la quale non c’è mai carenza di creduloni fanatici”. Del Venezuela nessuno parla. “Le sue vittime stanno lottando per la democrazia, per i diritti umani, per la capacità di nutrire i loro figli”.
“Chiunque in Venezuela sarebbe felice di frugare nei cestini americani: i rifiuti sarebbero considerati gourmet”, scrive Business Insider. Caracas era la Mecca della sinistra europea, latinoamericana e americana.
Lo avevano cantato come un paradiso, ma era “una fiesta infernale”, secondo la definizione della New York Review of Books. Il settimanale francese Le Point ha definito il Venezuela “il cimitero dei ciarlatani”. Ancora quattro anni fa, il Manifesto si permetteva di pubblicare un articolo a firma di François Houtart in cui si elogiava un regime “fedele all’emancipazione del popolo”.
In Europa di ammiratori quel regime orrendo ne ha sempre trovati tanti: in Francia, il capo del terzo partito, Jean-Luc Mélenchon; in Inghilterra, il leader del Labour, Jeremy Corbyn; in Italia il primo partito, i Cinque Stelle; in Spagna, Podemos. E si sapeva già tutto, del famoso miracolo venezuelano.
Lo scrittore britannico Tariq Ali proclamava che il Venezuela era il paese più democratico dell’America Latina. Alfred De Zayas, esperto dell’Onu per la “promozione di un ordine democratico ed equo”, ha visitato il Venezuela per valutare il suo stato sociale ed economico. Tornando a Ginevra, De Zayas ha detto di non ritenere che ci fosse una crisi umanitaria. “Sono d’accordo con la Fao che la cosiddetta crisi umanitaria non esiste in Venezuela” ha detto De Zayas. Il premio Nobel per la Letteratura José Saramago ha elogiato il chavismo. Adolfo Perez Esquivel, il pacifista argentino Nobel per la Pace, definì Chàvez “un visionario”. Harold Pinter, un altro Nobel per la Letteratura, appose la sua firma a un manifesto in cui si difendeva il regime. Anche Black Lives Matter è vicino al dittatore venezuelano Maduro. “Attualmente in Venezuela, un tale sollievo trovarsi in un luogo in cui c’è un discorso politico intelligente”, scrisse Opal Tometi, fondatrice di Black Lives Matter.
Dalla Gran Bretagna, la campagna di solidarietà con il Venezuela, con sede a Wolverhampton, inviava in missione i membri del sindacato.  Naomi Klein, l’autrice di No Logo, ha elogiato il Venezuela come un luogo in cui “i cittadini hanno rinnovato la loro fede nel potere della democrazia”, dichiarando che il paese era stato reso immune agli choc del libero mercato grazie al “socialismo del XXI secolo”.  Gianni Vattimo si vantava di partecipare alla “Prima settimana internazionale di filosofia del Venezuela”. Mentre i venezuelani cercavano cibo nei rifiuti, il governo Maduro veniva premiato dalla Fao per aver “raggiunto l’obiettivo del millennio delle Nazioni Unite di dimezzare la malnutrizione”. “Il Venezuela può essere considerato uno dei paesi, come il Brasile e la Cina, che ha contribuito alla cooperazione”, ha osservato Laurent Thomas, direttore della Fao per la cooperazione. 
Il premio Oscar Jamie Foxx si è presentato sorridente al palazzo presidenziale di Caracas per una foto con Maduro. L’attore Sean Penn ha incontrato i leader venezuelani in numerose occasioni, descrivendo quel paese come fautore di “cose incredibili per l’80 per cento delle persone che sono molto povere”. Dopo la morte di Chávez, Penn disse che “i poveri di tutto il mondo hanno perso un campione”. L’attivista afroamericano per i diritti civili Jesse Jackson ha visitato Caracas elogiando quel regime per la sua “attenzione al commercio libero ed equo”. Jackson ha offerto una preghiera al funerale di Chávez: “Hugo ha nutrito gli affamati”. L’attore Steven Seagal è appena andato a Caracas a regalare una spada a Maduro. L’economista Joseph Stiglitz, un altro Nobel, ha elogiato le politiche venezuelane per il “successo nel portare la salute e l’educazione alla gente nei quartieri poveri di Caracas”. Il senatore Bernie Sanders si è lanciato in una affermazione straordinariamente lungimirante: “Il sogno americano si è realizzato in Venezuela”. E un altro Nobel, Rigoberta Menchú, ha difeso il regime ancora lo scorso ottobre, dicendo che “per valutare un conflitto devi conoscere i dettagli dietro di esso”.
Se lo Yemen è piombato in un incubo umanitario a causa di una guerra, il Venezuela a causa del socialismo. “Nella sua incarnazione particolarmente virulenta e criminale” spiega il Journal. “Un’ondata di espropri iniziata nel 2005 ha messo gran parte dell’economia privata nelle mani dello stato. Salari, prezzi, assunzioni e licenziamenti, livelli di produzione, importazioni, esportazioni e investimenti: tutto è stato soggetto a regole minuziosamente dettagliate ideate da burocrati socialisti con poche nozioni su come gestire un’impresa. Caracas si era trasformata in un importante centro di riciclaggio di denaro, con cleptocrati neofiti in cerca di partner più esperti in grado di aiutarli a nascondere il loro bottino”.
Adesso il Venezuela, dopo averli mandati in bancarotta, sta tornando alla privatizzazione di ampi settori dell’economia, racconta Bloomberg.
Trent’anni fa, la notte di Natale del 1991, la bandiera rossa veniva ammainata sopra il cielo di Mosca. Era la fine dell’Unione Sovietica. Oggi – fra Corea del Nord, Vietnam, Cina, Cuba e Laos – 1,5 miliardi di esseri umani vivono ancora sotto dittature che, anche soltanto formalmente, si definiscono “comuniste” e “socialiste”.
I boia nordcoreani tormentano i prigionieri condannati, li mutilano dopo la morte e costringono le persone a guardare i cadaveri, afferma una inchiesta sulla pena capitale durante il decennio al potere di Kim Jong-un e rivelata dal Times. Il rapporto di un’organizzazione per i diritti umani di Seoul afferma che delle esecuzioni pubbliche che ha documentato, il maggior numero non sono per omicidio o stupro, ma per il reato di visione o distribuzione di video dalla Corea del Sud. “Il condannato è stato trascinato fuori da un’auto come un cane prima dell’esecuzione pubblica”, ha detto un testimone di un plotone d’esecuzione a Hyesan. “La persona che stava per essere giustiziata era già in una condizione di pre-morte e i suoi timpani sembravano danneggiati, impedendogli di sentire o dire qualsiasi cosa”. In un’altra esecuzione a Sariwon, nella provincia di North Hwanghae, il condannato è stato legato a un palo di legno con dei sassolini in bocca. Altri intervistati hanno descritto la mutilazione dei corpi. “A Pyongyang il corpo del giustiziato è stato bruciato con un lanciafiamme di fronte a una folla dopo l’esecuzione. La famiglia dell’imputato è stata costretta ad assistere all’esecuzione e a sedersi in prima fila per osservare la scena. Il padre è svenuto dopo aver visto suo figlio bruciare davanti ai suoi occhi”. A Hyesan, un bambino è stato giustiziato con i Kalashnikov. A studenti e lavoratori è stato ordinato di assistere alle esecuzioni, come avvertimento.
Come nella Germania dell’Est, in Venezuela manca anche la carta igienica.
Hasta el socialismo siempre!
Giulio Meotti

L’ovvia domanda è: tutti questi intellettuali, politici e paccottiglia varia, questi uomini senza fallo (e anche senza gli annessi), semidei che dall’alto dei loro castelli inargentati guardano l’umano desolato gregge a cui dichiarano di sentirsi vicini e stringono calorosamente la mano al suo carnefice, sono ritardati o sono prostitute in totale malafede? Io propendo per una combinazione delle due cose.

barbara

QUEI COMUNISTI IN ITALIA

che non erano mai stati al governo ma hanno sempre comandato tutto lo stesso (qualche commento mio in corsivo, qua e là).
Così l’Italia censurò il dissenso anticomunista

30 anni fa cadde l’Unione Sovietica. Fra diktat, silenzi e stroncature codarde, il mondo della cultura per anni impedì che al pubblico arrivassero le voci dei grandi testimoni

Il 25 dicembre 1991 cadde l’Unione Sovietica. Trent’anni che meriterebbero una ricostruzione speciale su come in Italia si fece terra bruciata attorno al dissenso antisovietico [diciamo pure che la sinistra è allergica al dissenso tout court]. Il clima era tale che Italo Calvino definiva George Orwell “libellista di second’ordine” e portatore di “uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’anticomunismo” [la mia prof di italiano e latino al liceo considerava Italo Calvino uno scrittore di second’ordine (“Ha fatto un unico libro valido: Il sentiero dei nidi di ragno”): vuoi vedere che aveva ragione?]
In Italia il grande drammaturgo Eugène Ionesco¹ fu a lungo interdetto. La Stampa del 6 febbraio 1975 si espresse chiaramente: “Ionesco vede nero; soltanto nero anche come colore politico: è diventato un reazionario. Il che sarebbe affar suo (si cade in braccio alle destre che si meritano) se anche la sua arte non si fosse fatta reazionaria”. Per veder tradotto in italiano il saggio del 1961 di Martin Esslin “Il teatro dell’assurdo” si è dovuto aspettare vent’anni. Un testo critico che era considerato non solo nel mondo anglosassone “un classico della saggistica contemporanea”, dice Giovanni Antonucci nell’introduzione alla terza edizione del libro uscita nel 1990, ma guardato con sospetto dall’editoria italiana: “La motivazione era esclusivamente ideologica: era un libro reazionario perché si occupava di autori reazionari”. Quando Ionesco nel 1973 accettò un invito del Cidas (Centro italiano documentazione e studi) intitolato “Intellettuali per la libertà”, su L’Avanti! uscì un articolo titolato “Stavolta Ionesco è da dimenticare”. Sulle colonne del Corriere della Sera Luigi Malerba deprecava “la traduzione italiana di un romanzo ‘reazionario’ di Ionesco edito da Rusconi”. Gabriella Bosco nel libro “Ionesco metafisico” spiega che “Einaudi lo traduceva come autore di teatro, ma manteneva il silenzio quanto a interpretazioni o giudizi di valore, prendendo implicitamente le distanze”. Bosco ricorda che “Paolo Grassi, direttore del Piccolo di Milano, ostracizzò Ionesco perché a suo parere era un autore reazionario”. Sarà un altro drammaturgo, Fernando Arrabal, a dire: “Personaggi come Giorgio Strehler hanno impedito per anni la messa in scena di grandi opere come quelle di Ionesco”. Un altro articolo su L’Avanti! lo accuserà di “passare dal precedente cinismo reazionario al fascismo dichiarato”. Su L’Espresso, Corrado Augias irriderà Ionesco anche fisicamente: “Viso gualcito, occhi vacui virati in giallo da un permanente sospetto di itterizia, manine tozze dalle dita corte, spatolate, pancino bombato, piedini divergenti. I cinquantanove anni di Ionesco tendono decisamente alla caricatura. C’è chi assicura che l’unico vero teatro ioneschiano ancora esistente è quello cui la famiglia Ionesco al completo dà vita in salotto o attorno al tavolo da pranzo” [Quindi non è rincoglionito perché è vecchio: è proprio coglione di suo]. Augias è sempre rimasto lo stesso.
Ci fu il caso di Nicola Chiaromonte, esule antifascista in Spagna per partecipare alla guerra civile con la squadriglia aerea di André Malraux, in Italia isolato e inviso per essere un rappresentante dell’anticomunismo di matrice liberal-democratica. Quando nel 1968 chiuse la sua rivista, Tempo Presente, Chiaromonte chiese a molti editori di aiutarlo a continuare la rivista, ma ebbe sempre risposte negative. Gli ultimi anni di vita di questo straordinario intellettuale anticonformista amico di Ignazio Silone trascorsero nell’umiliante sequenza di richieste di aiuto agli editori italiani: richieste che rimasero sempre inascoltate. La moglie Miriam dirà: “Gli fecero il vuoto intorno”.
Ci fu il caso della mancata pubblicazione da parte di Einaudi di una prefazione del grande scrittore polacco Gustaw Herling (due anni nei Gulag) ai Racconti della Kolyma di Varlam Shalamov (uscirà presso la piccola casa editrice L’Ancora). L’accostamento del Gulag e del Lager nazista come “gemelli”² suonò all’Einaudi come motivo sufficiente per rimandare la prefazione a Herling. “Laterza era comunista, come comunista era Einaudi, il quale pubblicava anche autori non comunisti, ma che voleva stampare quel bandito di Zdanov”³, dirà Herling senza mezzi termini. “La dittatura culturale, dittatura tout-court, c’è stata in Polonia”⁴ racconterà Herling. “Qui, come dire, ha prevalso piuttosto una tranquillizzante abitudine alla reticenza. Tempo Presente poteva uscire senza che nessuna censura poliziesca glielo impedisse. Bastava farle il vuoto attorno, non parlarne mai”. Herling ricordava che poco dopo il suo arrivo in Italia, nel 1956, un amico gli propose di scrivere un articolo sulla rivolta di Poznan per L’Espresso diretto da Arrigo Benedetti. “Non conoscevo ancora bene la lingua italiana ma accettai di buon grado e con l’aiuto di mia moglie spedii l’articolo il più presto possibile. Dopo qualche giorno ricevo un biglietto di Benedetti più o meno di questo tenore: ‘Posso comprendere i suoi sentimenti di esule ma le cose che lei scrive non sono obiettive e appaiono per di più scarsamente documentate’. Mi trovavo con Nicola Chiaromonte al bar Rosati. A un certo punto entra Carlo Levi, amico di Chiaromonte sin dall’esilio, e si mette a sproloquiare sulla rivoluzione ungherese. Per un po’ Chiaromonte rimane in silenzio, ma quando Levi chiede ad alta voce: ‘Chissà quanto avranno speso gli americani per organizzare la rivolta di Budapest’, d’improvviso vedo Nicola avventarsi su Levi e cacciarlo dal tavolo davvero in malo modo”.
Questa era l’Italia.
Ci fu la casa editrice Garzanti, che acquisì i diritti di Raccolto di dolore di Robert Conquest, il libro che rivelò al mondo il genocidio ucraino per fame, lo fece tradurre ma non lo pubblicò mai (il saggio-verità sul genocidio ucraino uscirà grazie alla piccola Liberal Edizioni). 
Ci fu il caso di Alexander Solzenitsyn. Vittorio Foa, il leader dell’azionismo, confesserà: “Quando uscì la traduzione del libro di Solzenitsyn lo vidi in libreria, lo sfogliai e non lo comprai. Ricordo questo come un vero atto di viltà: c’era qualcosa che volevo tenere lontano”⁵ [Una vigliaccheria riconosciuta come tale, dopotutto, è già un pochino perdonabile: diciamo il famoso orbo in un mondo di ciechi]. In un articolo su La Stampa del 1990⁶, Enzo Bettiza, uno dei pochi che subito si misero a difesa dello scrittore, spiegò: “Ero stato nel 1962 il primo traduttore in assoluto dal russo di ‘Una giornata di Ivan Denisovic’. Ricordo il fatto perché storicamente e filologicamente comincia da lì, da quella mia traduzione, la sequela dei falsi equivoci, delle perfidie sottili, dei malintesi interessati che hanno da sempre intossicato e reso pessimo il rapporto tra il grande deicida e la cultura più teologizzante d’occidente, quella italiana”. Bettiza si mise a tradurlo per L’Espresso, quando ricevette una telefonata del direttore, Arrigo Benedetti: “Ma che robaccia è mai questo Solzenitsyn? Mi sembra un Pavese russo, un decadente che fa il rustico! Questo gergo artefatto, questo stile falsamente gretto, tutta questa letteraria saggezza e mestizia contadine!”. Dieci anni dopo i medesimi pregiudizi si faranno meno innocenti, si tingeranno di malizia ideologica e raggiungeranno secondo Bettiza “il livello di una censura canagliesca nei confronti dell’ex ufficiale dell’Armata Rossa che aveva osato proclamare che il comunismo è soltanto delitto e menzogna”. Bettiza parlò di una “vergognosa offensiva di una vasta parte della cultura italiana contro Solzenitsyn” e che “negli anni in cui il compromesso storico avanzava e le Brigate rosse uccidevano nel nome del comunismo” si articolerà su tre piani: estetico, ideologico-politico, editoriale.
“Sul piano estetico ricordo una violenta polemica, in difesa anche artistica dell’opera sul Gulag, che mi oppose sulle pagine dei giornali a Carlo Cassola il quale, con maggiore pretenziosità politica di Benedetti aveva sostenuto su per giù le sue stesse banalità: il fenomeno Solzenitsyn era secondo lui nullo sul piano dell’arte, un pasticcio senza capo né coda fra storiografia dubbia e cattiva letteratura. Solgenitsin non era uno scrittore, non era neanche un vero storico, era soltanto il precario cronista di una sua disgraziata disavventura personale nei Lager staliniani che gli aveva dato alla testa”. Insomma: un povero matto. In una intervista al Mondo del 1974 Cassola aveva detto che Solzenitsyn era “un retore declamatorio che non vale niente come scrittore. Con Solzenitsyn mi sono trovato di fronte a uno scrittore anonimo: un corrispondente di provincia scrive meglio”.
“In molte recensioni italiane si videro diverse firme illustri impacchettarlo e stroncarlo come anticomunista viscerale e come capofila di un potenziale neofascismo russo. Un famoso letterato arrivò addirittura a esclamare in pubblico: ‘Bisognerebbe fucilarlo!’”. Ricordava Franco Fortini: “Ricordo l’ostilità di cui era circondato, qui in Italia. Penso all’area operaista, a intellettuali come Asor Rosa [quello che ce l’ha a morte con la razza ebraica, vedi qui e l’ultima parte qui (ma se avete qualche minuto leggetelo tutto) e che un noto saltimbanco ebreo rinnegato venduto alla causa del terrorismo palestinese ha difeso all’epoca a spada tratta], Tronti, Negri, Cacciari [quello che oggi si mette in cattedra a dare lezioni di etica all’Italia intera], tutta gente che rideva a crepapelle sui libri di Solzenitsyn”. 
Sul piano editoriale non ci si poteva aspettare altro che la conseguenza commerciale e pubblicitaria della quarantena: “I suoi libri, dopo che erano stati dileggiati esteticamente e confutati ideologicamente, vennero sistematicamente boicottati editorialmente. Nello stesso periodo in cui Feltrinelli offriva a modico prezzo ai terroristi in erba manuali per la confezione di granate casalinghe, altri grandi editori rifiutavano la pubblicazione dell’opera solgenitsiana o, se ne pubblicavano uno spezzone, lo facevano quasi vergognandosene”. Zero pubblicità e quasi una vergogna a esporlo nelle librerie. “Nessuno vuole recensire ‘Arcipelago’, nessuno si vuole occupare di Solzenitsyn”, si lamentava Domenico Porzio, allora capo ufficio stampa della Mondadori.
Così Arcipelago Gulag finisce per languire in scaffali secondari. Durissimo il giudizio di Vittorio Strada, grande esperto di cultura russa, poi responsabile dell’Istituto di cultura italiana a Mosca: “Solzenitsyn da noi è stato prima svuotato e poi censurato. La sua verità era scomoda per tutti: per i comunisti che lo consideravano un nemico, per i non comunisti laici e cattolici – che non sapevano dove collocarlo”. Non da meno Lucio Colletti: “Da noi le anime belle dell’intelligencija hanno campato attaccate alla giacca del potere, ruminando nelle greppie di quelle maleodoranti associazioni che sono le burocrazie di partito. Questi opportunisti vigliacchi si facevano un punto d’onore a non avere letto i libri di Solgenitsin, ecco l’infamia”. Giancarlo Vigorelli, per dieci anni segretario generale del Comitato degli scrittori europei, dirà che “in Italia quasi nessuna voce si è levata in suo favore. Lui scriveva che il comunismo è un delitto contro la coscienza, da noi i letterati – per esempio quelli legati a una casa editrice come Einaudi – lo liquidavano dicendo che era uno scrittore mediocre”. Irina Alberti: “Non solo fu frainteso, diffamato, ridicolizzato, vilipeso, ma fu ignorato”.
Alberto Moravia [uomo dall’aspetto così come dalla prosa di rara bruttezza] lo definisce su  L’Espresso “nazionalista slavofilo della più bell’acqua”, mentre Eugenio Montale sul Corriere della Sera: “Potrà conservare la proprietà, o l’uso, di due appartamenti, potrà scrivere quello che gli pare e permettere che a sua insaputa (!) altri suoi libri si stampino all’estero; e potrà – suppongo – incassare il premio Nobel che nel frattempo gli è stato conferito, ma in nessun modo potrà fregiarsi del titolo di scrittore sovietico con le carte in regola”. Paese Sera: “Ancora prima dell’analisi storica, è la stessa ricostruzione dei fatti che è carente o addirittura assente del tutto. Come si può pretendere, a questo punto, che trovino spazio e uditorio, nel vuoto lasciato dalla storiografia, le documentazioni e le interpretazioni di parte fornite da Solzenitsyn”. Una delle poche recensioni positive fu quella sul Corriere della Sera di Pietro Citati, mentre Umberto Eco lo definì “Dostoevskij da strapazzo”. [ognuno misura gli altri sulla base del proprio metro, si sa]
Provate a cercare in italiano i libri di Vladimir Bukovskij, lo scrittore che i sovietici rinchiusero per dieci anni nei manicomi. Se sarete fortunati, troverete qualche rimanenza delle edizioni Spirali, inesistente casa editrice milanese. Nell’ottobre del 1990 Bukovskij venne a Roma, ospitato dai gruppi parlamentari, mentre in Europa (e in Italia) la sinistra si beava delle “riforme” di Michail Gorbaciov. Bukovskij disse: “Non credo alla riformabilità del socialismo in Urss. L’Occidente si illude. E fa come l’uomo di quella storiella che voleva volare e si buttò dal ventesimo piano di un grattacielo. Per qualche secondo conobbe la felicità perché stava volando. Peccato che subito dopo si sfracellò al suolo”⁷.
A questi giganti del dissenso e ai testimoni dell’orrore, i custodi dell’utopia non perdonarono mai di non aver voluto volare insieme a loro. Gustaw Herling ricordava sempre un aneddoto: “Alberto Moravia a Francoforte, anno 1960, lui presidente di turno del Pen Club, doveva aprire la riunione con un ordine del giorno preciso: sospendere la sezione di Budapest per protestare contro l’incarcerazione degli scrittori ungheresi. Lo incontro la sera prima e mi dice: ‘è capitata una cosa, l’altro giorno a Roma l’ambasciata sovietica mi ha comunicato che presto i miei romanzi potranno uscire in Urss. E poi a casa mi hanno mandato una grande scatola di caviale’. Il giorno dopo Moravia pronunciò un discorso molto diplomatico, molto cinico. Disse: ‘nessuna ingerenza sulle questioni interne ungheresi’”⁸. [Si chiama prostituzione. È un mestiere molto antico, e se ciò che viene venduto è un po’ di sesso è un mestiere onesto. Altrimenti no]
Questa era la “cultura italiana”. E non è cambiata. Conformista. Codarda. Censoria.
Giulio Meotti

1 Arrabal con Vargas Llosa «La sinistra come Franco», La Stampa, 26 agosto 1994
2 Herling Einaudi, La Stampa, 23 maggio 1999
3 La Repubblica, 26 febbraio 1993
4 Herling due volte solo fra i rossi, La Stampa, 24 marzo 1992
5 Foa, confesso che ho taciuto, La Stampa, 2 novembre 2003
6 Solzenitsyn, il profeta rifiutato, La Stampa, 26 settembre 1990
7 Bukovskij: perché non ho applaudito, La Stampa, 16 ottobre 1990
8 Solzenitsyn, il profeta rifiutato, La Stampa, 26 settembre 1990

“E non è cambiata”. Già: lo stiamo vedendo.

barbara

SPIGOLATURE 4

con deviazioni, voli pindarici e partenze per la tangente

Google inclusivo

che poi cosa vuol dire feste stagionali? Pasqua Pentecoste e Ascensione non sono forse feste primaverili? L’Assunta, aka Ferragosto, non è una festa estiva? Mah. Che poi qualcuno di veramente inclusivo c’è

indovinate dove

Noi, comunque, che siamo retrogradi e conservatori  – “ostinato conservatorismo”, l’ha chiamato una persona progressista, che detesta le religioni monoteiste e ama follemente le religioni pagane degli indiani d’America, quelle con le ecatombi di sacrifici umani e dello sport praticato con teste mozzate (e da brava sinistrissima, con le ecatombi di innocenti deve avere sicuramente grande dimestichezza); e siccome non ero sicura di ricordare bene e volevo verificare, sono andata in internet e cercando “sport con testa mozzata degli indiani d’America” ho trovato questo

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Insomma su Amazon trovi tutto, dall’ago al cannone passando per la rotula del nonno morto in odore di santità e repentinamente sottratta dagli avidi nipoti per venderla quale reliquia – fine della digressione; noi retrogradi conservatori, dicevo, continuiamo a chiamare le cose col loro nome di sempre e a scrivere letterine a Babbo Natale – con le precauzioni del caso, beninteso

Ho verificato, dicevo, perché non mi va di fare figure di merda come quelle di chi posta roba così

dove si constata che mio cuggino è andato in pensione e anche mio suocero, quello a cui dopo il vaccino non solo il braccio faceva male (maavaaa?), ma ci si attaccavano anche tutti i cucchiaini di casa, e adesso sono stati sostituiti da mia Cognata, rigorosamente maiuscola e rigorosamente anonima, così come la città in cui vive e l’ospedale in cui il fattaccio è stato documentato – perché tutto quello che avviene negli ospedali viene documentato – come sarebbe logico se si vogliono costringere i covidioti provax, come ci chiamano quelli che hanno capito tutto, perennemente scettici sull’olocausto in atto per mano dei nipotini di Mengele, a verificare e toccare con mano la veridicità di quanto qui denunciato. A parte questo, c’è un senso in quello che c’è scritto qui? Cioè questa avrebbe fatto il vaccino al secondo mese di gravidanza, avrebbe avuto un aborto al quarto ovviamente per colpa del vaccino sicuro sicurissimo perché questa sì che è una scienza esatta, e adesso avrebbe avuto una diagnosi (diagnosi?) di infertilità: cioè, sarebbe diventata sterile a causa del vaccino? E questa sterilità post-concepimento avrebbe causato l’aborto? O prima ha abortito a causa del vaccino e poi l’aborto l’avrebbe fatta diventare sterile? E chi e perché ha deciso di fare esami e controlli per verificare se sia fertile o no? Perché una persona che è rimasta incinta una volta dà per scontato di essere fertile. Se poi dopo l’aborto ci riprova e dopo mezzo anno, un anno, due anni ancora non è riuscita a restare incinta, le viene il dubbio che l’aborto abbia provocato qualche guaio e comincia a sottoporti a verifiche per conoscere la situazione. Ma una – rigorosamente anonima e di non si sa dove, non dimentichiamolo – ha un aborto spontaneo e immediatamente chiede di verificare se non sia diventata sterile? E le verifiche si fanno così in quattro e quattr’otto, come fare una radiografia? E la cardioaspirina “non si sa fino a quando” collegata a cosa? All’aborto? Alla sterilità? Serve per tentare di farla ridiventare fertile e deve continuare fino a quando la terapia non avrà successo? Cioè, vi rendete conto che c’è gente, non contadini con la terza elementare bensì gente laureata in ambito tecnico scientifico, che si beve roba simile? Per non parlare dei paragoni osceni che ancora e ancora ritornano

(e il maestro, in orario di lezione, legge il giornale voltando le spalle alla classe?)

Eh già, tutti esperti di tutto, ormai

mentre l’ignoranza cresce a dismisura

(e quante volte capita di leggere, da gente acculturata, avvolte, apposto, apparte, per non parlare delle famigerate donne incinta, o addirittura in cinta, che ogni volta mi viene un attacco di acidità di stomaco)
Per i più ignoranti, comunque, abbiamo qualche suggerimento utile

compreso quello di studiare la storia

Una delle ragioni più importanti per studiare la storia è che letteralmente ogni idea stupida che oggi è di moda è stata provata in precedenza e si è dimostrata disastrosa. Dobbiamo continuare a ripetere gli stessi errori per sempre?
Per fortuna c’è chi si dedica allo studio delle lingue

e chi potrebbe tranquillamente aspirare al Nobel

E a proposito di cose elevatissime, c’è anche l’Onu

Poi c’è anche chi si dedica coscienziosamente agli aggiornamenti

e chi agli esperimenti e alla loro verifica.

Il resto alla prossima puntata.

barbara

4 NOVEMBRE 1956, LA CADUTA DI BUDAPEST

Riprendo dall’amico

Fulvio Del Deo

Nem felejtek, non dimentico.
“Parla Imre Nagy, presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica popolare di Ungheria. Nelle prime ore del mattino, truppe sovietiche hanno attaccato la nostra capitale con la palese intenzione di rovesciare il democratico e legittimo governo ungherese. I nostri soldati stanno combattendo. Il Governo è al suo posto. Informo di questi fatti il nostro popolo e l’opinione pubblica mondiale”.
L’Unità, quotidiano del Pci, definì “teppisti, spregevoli provocatori e fascisti”.
Togliatti: “si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia” e in seguito aveva dato voto favorevole alla condanna a morte di Nagy.
Giorgio Napolitano: “l’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo”.

Soprattutto non dimenticare, non dimenticare mai le infinite stragi comuniste, gli infiniti stermini comunisti, la miseria, la desolazione, la fame – fino al cannibalismo – in più di un’occasione deliberatamente provocata, i popoli oppressi, il terrore, il controllo totale, che da sempre caratterizzano tutti i regimi comunisti. Non dimenticare che il nazismo è durato 12 anni, il comunismo, dopo oltre un secolo, è ancora vivo e virulento in varie parti del mondo.

barbara

SPIGOLATURE

Isole a confronto

Eh sì, brutta cosa il capitalismo

con la sua orribile logica del mercato

E veniamo al nostro governo

il quale ormai

Visto coi miei occhi: “Siamo come il Cile di Pinochet”, “No, peggio”; “Siamo peggio della Corea del Nord”… Ma perché non ci andate cazzo!
E parlando del governo non possiamo esimerci da

E qualcuno, a proposito della seconda, ha chiesto se non ci sia per caso un doppio senso… No, non c’è un doppio senso: ce n’è uno solo.
Ora due parole sul razzismo

E infatti

Una brutta notizia per gli amici vegani

E una buona per la scienza: finalmente scoperta la causa dell’estinzione dei dinosauri

Qualche istruzione per l’uso per chi si trova ad avere a che fare con una donna congenita

Un suggerimento in merito ai vaccini

(ma non ci sarà qualche conflitto di interessi?)

Un’importante messa in guardia

E infine un’importante riflessione sull’imminente ricorrenza di Halloween

Continua.

barbara

QUANDO UN CUBANO

entra per la prima volta in un supermercato americano e vede quello che per noi, tutti noi, è normalità quotidiana.

Dai, forza, gridate abbasso il capitalismo infame, inneggiate al comunismo (o socialismo, se preferite chiamarlo così, convinti che nei fatti siano due cose diverse) che porta libertà. giustizia, uguaglianza sociale: su, forza.

Credo che valga poi la pena di leggere questo articolo.

Cuba Libre?

Negli Stati Uniti, “Cuba Libre” significa rum e coca. A Cuba stessa, significa qualcosa di molto più inebriante: libertà. Stiamo vedendo quel grido di libertà ora nelle strade de L’Avana.
I regimi non cedono il potere volentieri, e le proteste popolari potrebbero non fare alcuna differenza. Basta chiedere al regime di Maduro in Venezuela, che ha schiacciato ripetutamente le rivolte. Eppure, le dimostrazioni a Cuba sono abbastanza grandi che l’amministrazione Biden ha finalmente offerto qualche elogio pacato dopo essere rimasta in silenzio per giorni (proprio come fece l’amministrazione Obama quando gli iraniani protestarono contro il regime dei mullah nel 2009).
I manifestanti cubani devono ancora sentire un messaggio inequivocabile di sostegno dalla Squad o da Bernie Sanders, che periodicamente ha tessuto gli elogi alla dittatura di Castro. A Sanders è piaciuto il programma di alfabetizzazione. Ottima osservazione, Bernie. Forse anche alla moglie di Abramo Lincoln era piaciuta l’uscita al teatro.
Anche se il fattore principale che guida le proteste è un desiderio di libertà (e la frustrazione per la mancanza di vaccini COVID-19 a Cuba [? Come mancanza di vaccini? Non ne avevano due pronti fabbricati da loro che intendevano regalare al mondo intero? Dai, c’era scritto su tutti i giornali!]), c’è anche una dimensione economica.
Questa dimensione economica può essere illustrata con un fatto sorprendente: I cubano-americani, con una popolazione di 2,38 milioni, guadagnano più dell’intera isola di Cuba, con 11,3 milioni di persone.
Questo non è perché i cubano-americani siano un gruppo di immigrati particolarmente ricco. Al contrario. Sono al 73° posto, ben dietro gruppi di immigrati come gli americani dall’India o i cinesi. Nonostante il 73° posto tra i gruppi etnici degli Stati Uniti, le famiglie cubano-americane guadagnano più, in totale, di tutte le famiglie cubane messe insieme, perché quelle negli Stati Uniti guadagnano più di otto volte tanto. È una differenza sbalorditiva, ed è successo in una sola vita.
Questo fatto illumina una verità profonda e potente. Mostra come i risultati economici dipendano dai diritti di proprietà, dallo stato di diritto e da altre caratteristiche fondamentali del sistema politico-economico americano. I sistemi competitivi e capitalistici non producono solo risultati migliori; producono risultati molto migliori, vite molto più prospere per i cittadini comuni.
Quanto più prospera? Ecco un’altra piccola illustrazione. In Unione Sovietica, Stalin mostrava al suo popolo il film del 1940 “The Grapes of Wrath“, perché illustrava potentemente la povertà degli americani durante la Grande Depressione. Smise di mostrarlo quando il pubblico notò che anche la povera famiglia Joad aveva un furgone. Un furgone! Nessuno nella gloriosa Unione Sovietica poteva permettersi un furgone. Molte fattorie collettive non potevano permetterselo. Eppure una famiglia povera in America poteva. Brutto messaggio per il nuovo uomo sovietico.
Ma è un buon messaggio da mandare all’ultima generazione di socialisti romantici d’America, compresa la quasi metà della più giovane generazione di elettori che preferisce il socialismo al capitalismo.
Naturalmente, l’estrema sinistra e i successori di Castro danno la colpa dei problemi economici di Cuba all’embargo statunitense. Si sbagliano. Sì, l’embargo ha contribuito, ma il problema fondamentale del paese è un sistema economico che strangola l’iniziativa e le opportunità del suo popolo, insieme alla sua libertà.
Per approfittare delle opportunità economiche intorno a loro, gli imprenditori hanno bisogno di sapere che raccoglieranno la maggior parte dei frutti, non di essere derubati dai cleptocrati al governo. Hanno bisogno di diritti di proprietà sicuri e di un ambiente politico stabile per fare investimenti a lungo termine. Hanno bisogno di limiti alla tassazione e alla corruzione pubblica in modo che tutti i profitti non vengano spogliati dai predatori. Hanno bisogno di un governo che fornisca alcune infrastrutture essenziali, come strade, ponti e porti. Hanno bisogno di poter competere sul mercato, vincere o perdere, e non avere il governo che riserva tutti i premi scintillanti ai suoi sostenitori politici. Hanno bisogno di un regime che non ingombri ogni iniziativa privata con pagine e pagine di regolamenti, che non solo soffocano l’innovazione, ma incoraggiano anche la corruzione, rendendo facile per i politici accattivarsi gli uomini d’affari e dire: “Posso aiutarti ad aggirare queste regole per un piccolo compenso. Meglio ancora, posso scrivere nuove regole solo per te”.
Per quanto banali siano questi punti, in realtà funzionano. Si sono dimostrati più e più volte. Quando i regimi predatori li violano, come fa Cuba da decenni, gli stessi punti diventano ostacoli insormontabili alla prosperità. Anche il popolo cubano lo sa. Meritano la libertà. Meritano un sistema economico che li faccia prosperare. E meritano il pieno sostegno di tutti. (qui)
Newsweek.com

Quanto all’embargo, la questione è molto semplice: se cessa la dittatura, cessa anche l’embargo, ma se cessa l’embargo non cessa di conseguenza la dittatura, che è causa del 90% delle carenze alimentari, sanitarie ecc. ecc. Come sempre, per risolvere il problema bisogna rimuovere la causa, non le conseguenze secondarie della causa.
Poi se hai ancora tempo e voglia, ti manderei a leggere queste vecchie cose.

barbara

FINE DI UN’ERA?

Almeno la fine di un capitolo, sicuramente sì.

“I Castro ci torturavano per non gridare ‘morte al comunismo’”

Da Pedro Boitel, che fecero morire di sete, ad Armando Valladares, ventidue anni di carcere. L’intellighenzia italiana, infatuata del comunismo caraibico, ha censurato i dissidenti cubani

Con le dimissioni di Raul finisce la lunga era del clan Castro. Mezzo milione di esseri umani passati attraverso il Gulag cubano. Dal momento che la popolazione totale dell’isola è di undici milioni, il regime dei Castro detiene uno dei più alti tassi di carcerazione pro capite al mondoMigliaia le esecuzioni, non sapremo mai quante. La tortura istituzionalizzata contro gli “elementi antisocialisti”. Senza contare la repressione sistematica, brutale e sproporzionata nei confronti della minima manifestazione di dissenso, con punizioni periodiche nelle quali gli oppositori sono giudicati in processi grotteschi e condannati a pene feroci. 
Un gruppo di dissidenti ha tenuto testa in questi decenni a questa feroce dittatura che ha stregato le sinistre di tutto il mondo.
Il dottor Oscar Biscet, il “Gandhi del Caribe”, che iniziò la sua lunga e agonizzante resistenza al regime quando scoprì che a Cuba si praticava l’infanticidio e gli aborti indiscriminati. Il muratore e idraulico Orlando Zapata Tamayo, morto in carcere per uno sciopero della fame. Guillermo Fariñas, premio Sakharov per la libertà di coscienza, che è facile ricordare per le fotografie in cui assomiglia a uno spettro, psicologo e giornalista costretto alla sedia a rotelle da una polinevrite. Jorge Luis Pérez “Antúnez”, che si è fatto diciassette anni di carcere. Il leader cattolico Julián Antonio Monés Borrero. E Pedro Luis Boitel, un leader degli studenti e coraggioso avversario di Batista e di Castro, che ordinò personalmente che a Boitel fosse negata l’acqua potabile. Boitel morì di sete, in una agonia orribile, cinque giorni dopo.
E poi il più celebre dissidente cubano, Armando Valladares, che nelle segrete castriste ci ha trascorso ventidue anni e che Amnesty International (quando era ancora Amnesty) nominò “prigioniero di coscienza”. Fu lui, nel 1982, a scioccare il mondo con il libro “Contro ogni speranza: ventidue anni nel gulag delle Americhe”, scritto dal suo esilio a Parigi (in Italia uscì per la minuscola Spirali edizione e mai ristampato, sotto censura da parte dell’intellighenzia di sinistra). Nel libro, Valladares raccontava la dittatura cubana, di come tappassero la bocca ai condannati perché al momento della scarica non gridassero “viva Cristo Rey!” o “muérte al comunismo!”, in una epopea di dolore che gli sarebbe valso l’appellativo meritato di “Solgenitsin cubano”. 
Valladares e gli altri furono tenuti in isolamento completamente nudi in piccole celle dall’alto delle quali i secondini gettavano sui prigionieri palate di escrementi fino a ricoprirne il corpo. Fa impressione pensare che negli stessi periodi in cui nelle prigioni della Cabana accadeva tutto questo, non pochi cronisti andavano e venivano dall’Avana sempre nella speranza di essere scelti da Fidel Castro per un’intervista. Lo arrestarono che Valladares aveva 22 anni nel dicembre del 1960 e ne sarebbe uscito nell’ottobre del 1982. Faceva l’impiegato presso la Cassa di risparmio postale. “Avevo solo espresso qualche dubbio sul futuro della rivoluzione”. Una paralisi gli bloccò le gambe, nel 1974, dopo che i dirigenti del carcere della Cabana gli rifiutarono il cibo per 46 giorni, non avendo Valladares accettalo di sottoporsi alla “rieducazione”. 
Ci hanno raccontato tutto dei gusti personali del Líder Máximo. Ma niente di questi eroi. Come Valladares, che dirà: “Eppure mi sentivo libero. La libertà è un atteggiamento interiore”.

Giulio Meotti

Bellissimo e sconvolgente il libro di Valladares, se riuscite a procurarvelo dovete assolutamente leggerlo.
Di Cuba in questo blog si è parlato spesso, tra l’altro qui, qui e qui
.

barbara

APPIATTIMENTO AL BASSO

Alcune aziende hanno cominciato a vaccinare i propri dipendenti. Qualunque persona di buon senso direbbe bene! Sappiamo che ci sono un sacco di vaccini non “evasi” perché le istituzioni pubbliche non riescono a organizzarsi per smaltirli, così alcune aziende private si fanno carico di ciò che lo stato non è in grado di fare. Non stanno rubando vaccini a medici e anziani, stanno semplicemente prendendo dei vaccini inutilizzati, ogni persona vaccinata in un’azienda è un lavoro in meno per lo stato e una persona a rischio di infettare in meno in circolazione, e ogni persona vaccinata in azienda è anche un vecchio o un medico in più che lo stato può vaccinare, visto che non deve più vaccinare quelli lì. Intervistato in merito, Cofferati protesta vivamente. Perché? Perché così si creano divisioni e disparità: siccome ci sono aziende che non vaccinano e i cui dipendenti, di conseguenza, non si possono vaccinare, allora non si devono vaccinare neanche gli altri. Classico appiattimento verso il basso tipicamente comunista: se tutti non possono essere ugualmente ricchi, allora tutti devono essere ugualmente poveri. O, nel caso specifico, a rischio covid.
Il che mi ha riportato alla mente un vecchio episodio. Avevo raccontato a una collega comunista di una coppia di amici, entrambi insegnanti al liceo, che quando andavano in gira con le rispettive classi erano soliti portarsi dietro i figli, in modo da offrire loro un’opportunità in più di vedere e imparare. Subito la collega insorge indignata: “E il preside dei ragazzi gli dà il permesso di assentarsi?! Io non lo permetterei mai!” “E perché?” “Perché non tutti hanno queste opportunità, quindi non vedo perché le debbano avere loro”. Naturalmente non trovava niente da ridire sul fatto che, con lo stesso stipendio, io dovessi pagare l’affitto che me ne portava via oltre un terzo, e lei no perché mamma e papà le avevano regalato l’appartamento. Che io dovessi comprare il cibo e tutto ciò che serviva per la manutenzione della casa e lei no perché prendeva tutto dall’albergo dei suoi genitori. Eccetera. Ma queste sono quisquilie, così come per Cofferati sarà sicuramente una quisquilia la disparità fra la sua pensione e quella di un metalmeccanico che ha sgobbato per quarant’anni. L’importante è che gli altri siano tutti livellati verso il basso, e nessuno possa avere opportunità, neppure quelle di studio e di apprendimento se non le hanno tutti gli altri. Lei, per inciso, era questa tizia qui.
E adesso godetevi il Cofferati in tutto il suo splendore.

barbara