Oggi pomeriggio ci siamo trovati tutti, io, il preside, parecchi colleghi e un po’ di scolare, perché eravamo di matrimonio. Matrimonio un po’ singolare, se vogliamo, dal momento che gli sposi sono sposati già da quattro anni, “ma adesso mi sposo per bene, in chiesa”. Loro l’avrebbero fatto anche prima, a dire la verità, ma hanno dovuto vincere l’accanita resistenza del parroco, perché lo sposo è egiziano e quindi, orrore orrore, cristiano copto. E infatti in una delle sue innumerevoli ammucchiate di parole il parroco ci ha tenuto, in mezzo a sontuosi florilegi sul valore del matrimonio cristiano, a sottolineare che in fin dei conti si tratta di un matrimonio un tantino misto, ma insomma alla fine ha ceduto, dando atto a Valeria dell’incrollabile determinazione con cui ha perseguito questo obiettivo (e secondo me lo ha fatto perché sentiva di doverlo, in qualche modo, alla memoria di sua madre. E no, non vi racconterò la tragica storia di sua madre. O magari sì, forse un giorno vi racconterò anche quella, ma non adesso, ché quella è davvero un’altra storia). E dunque arrivo – nonostante il piede disintegrato ancora molto disintegrato – alla chiesetta del castello e lo sposo è già lì, elegantissimo ed emozionatissimo, circondato dai fratelli arrivati su dall’Egitto e un bijou di nipotino mulatto, e un bel po’ di colleghi e colleghe su alcuni dei quali ci sarebbe parecchio da spettegolare ma mi guarderò bene dal farlo, non sia mai che a qualcuno di loro dovesse capitare di arrivare qua dentro, e una tizia orrendissima che non so chi fosse coi capelli unti e vestita come se dovesse andare a chiedere l’elemosina impietosendo con la miserevolezza dell’abbigliamento e una enorme borsa nera con su disegnate due chiostre di denti dagli enormi canini e la scritta rosso sangue VAMPIRE strettamente aggrappata a uno splendido esemplare di maschio umano nero e gigantesco che farebbe venire la bava alla bocca a qualche Signorina che conosco io, e c’è il preside e ci sono le scolare pronte con la scorta di riso e per fortuna, quando arriva il momento, faccio in tempo a precipitarmi da loro prima che escano gli sposi a dire “mi raccomando, lanciatelo in alto, che cada su di loro a pioggia, non addosso”, e infatti lo lanciano in alto; l’unica eccezione è una ex collega, all’incirca mia coetanea, ora in pensione, che glielo scaraventa dritto in faccia. E poi arriva la sposa, in una immensa nuvola di tulle bianco e brillantini e stola di pelliccia con un caldo che si sarebbe stati bene in costume da bagno ma lei resiste eroicamente e si avvia al braccio del giovanissimo cugino mentre un quartetto d’archi di colleghi e scolari musicisti provvede all’accompagnamento – e tutti ci emozioniamo.
Ma naturalmente non è per raccontare del matrimonio che ho messo in cantiere questo post, bensì per parlare del preside. Col quale ad un certo momento ci siamo trovati faccia a faccia con un bicchiere di vino in mano, e finalmente gli ho fatto la domanda che ho in mente dal giorno che l’ho conosciuto, otto anni fa: “Lei da dove viene?” L’inizio della risposta potrebbe sembrare singolare: “Ho fatto fare ricerche risalendo fino al Seicento”. Buffo, vero? A chi mai può venire in mente di farsi l’albero genealogico, risalendo addirittura di secoli? Comunque mi nomina un paese di queste parti, e io gli rispondo che no, ci deve sicuramente essere un “prima”, ci deve sicuramente essere un “altrove”, perché il suo è un tipico cognome ebraico, e dato che di ebrei da queste parti non ce ne sono mai stati, la sua famiglia deve per forza essere arrivata qui da qualche altra parte. E lui rimane per un attimo a fissarmi, immobile, a bocca aperta, ho quasi l’impressione di vedere, attraverso il suo cranio, un miliardo di rotelline che si mettono a ruotare vorticosamente. Poi, “Sa – dice – a questo non mi era mai venuto da pensare. Le ricerche le ho fatte per cercare di spiegare il mio aspetto…” Perché il mio preside, se lo vedete, potreste prenderlo per marocchino. O per libanese. O per siriano. O forse iraniano. Ma sicuramente non per un crucco. E non avendo nessun tipo di contatto con l’ebraismo, ignorava che il suo fosse un cognome “particolare”. Ho avuto la sensazione di avegli messo in mano il bandolo di una matassa. Sicuramente aggrovigliata, sicuramente difficile da sbrogliare, ma capace, forse, di dargli qualche risposta. Sconcertato, mi è apparso, ma anche emozionato, forse addirittura orgoglioso. “Allora dovrò cercare ancora – ha detto – andare ancora più indietro. Chissà…” (E mi è venuta in mente quella ragazza a cui una volta ho detto che il cognome della sua cattolicissima nonna era un cognome ebraico tipico della zona da cui lei proveniva, e lei è rimasta per un attimo come se le avessi dato uno schiaffo; poi si è ripresa e con uno sbuffo di sollievo ha detto: “Ah beh, ma io tanto mi chiamo Z.!” La stessa che, una volta che parlavo di violenze sui bambini ridacchiava come una gallina, e io, furibonda, ho detto: “Nel caso non te ne fossi accorta , sto parlando di bambini stuprati, di bambini seviziati, di bambini assassinati!” e lei ha risposto: “Ma facevo per sdrammatizzare”).
I miei lettori di più vecchia data lo hanno già visto, quando ho postato un video col mio collega di sostegno di allora, in cui compare anche lui. Gli altri lo vedranno adesso.
barbara