BICICLETTA

Ad andare in bicicletta ho imparato a otto anni, quando dal centro ci siamo trasferiti in periferia, dove si potevano fare un sacco di cose che in un centro privo, all’epoca, di zone pedonali e in un palazzo in cui ero l’unica bambina, non si potevano fare. E in epoca di traffico infinitamente inferiore a quello attuale, e oltretutto in una strada secondaria percorsa unicamente dalle auto di chi ci abitava, giocare per strada era la cosa più ovvia. Unico fastidio erano le mamme: molto spesso, dovunque ci mettessimo, quasi subito si apriva una finestra e si affacciava una mamma che gridava: “’Ndè via putèi! ‘Ndè zugare davanti casa vostra!” Il problema era che non esisteva una “casa nostra”: esisteva casa mia, e casa di Sandra e casa di Luisa e casa di Daniela e casa di Antonio e casa di Stefania e casa di Nadia e casa di Roberto e casa di Federica e casa di Rosanna e casa di Franco… per circa trecento metri. Ma era della bicicletta che volevo parlare. Mi affascinava incredibilmente il miracolo di queste cose che su quelle due ruote strette riuscivano a stare su. Poi un giorno ho chiesto a una bambina di prestarmi la sua: era una biciclettina da bambini perché lei aveva due o tre anni meno di me, e io sono sempre stata alta, per cui ci stavo accucciata; ho posato il piede sinistro sul pedale, e col destro a terra ho cominciato a spingere e spingere e spingere… E poi ad un certo momento ho sollevato il piede da terra e, miracolo!, la bicicletta stava su! Allora ho messo anche il piede destro sul pedale e ho cominciato a girare: avevo imparato ad andare in bicicletta. Dopodiché mio padre mi ha costruito una bicicletta mettendo insieme dei pezzi trovati qua e là; era una bicicletta da uomo di colore giallo-arancione, che per tre anni è stata la mia fedele compagna di avventure. E di disavventure: perché per andare in bicicletta non basta imparare ad andarci: bisogna imparare anche a frenare, e quello mi ha richiesto molto più tempo. Per molto tempo i miei freni naturali sono stati il muretto della signora Amelia e il cancello della villa dei padroni di casa; un paio di cicatrici sulle ginocchia sono visibili tuttora, a sessant’anni di distanza. Ci si facevano cose divertentissime, tipo riuscire a salirci in 15, o buttarsi giù dall’argine in verticale in un punto in cui tra la base dell’argine e il fiume non c’erano più di un paio di metri di terra, senza toccare i freni prima di essere arrivati giù. Bei tempi quelli, in cui non c’era il cellulare coi genitori che tutti i momenti rompono le palle per sapere dove si è e cosa si fa.

A undici anni, per la promozione alla licenza elementare, ho avuto la prima bicicletta vera, da donna (ero alta 1,64, e con una bicicletta da adulti ci stavo benissimo), più o meno come questa
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di un meraviglioso verde smeraldo metallizzato. La adoravo. A volte si andava sui colli, e poi al ritorno giù, senza freni, a sorpassare le macchine a oltre 60 all’ora (avevo il contachilometri sul manubrio). È stato in quegli anni che è uscita l’orrenda “bicicletta americana”,
Bici 2
brutta e pesantissima. E quando sono stata promossa agli esami di licenza media i miei hanno deciso di regalarmene una. Ma io ce l’ho già la bicicletta! Ma questa è meglio. Non è vero, è orrenda, non la voglio! Ce l’hanno tutti. E chi se ne frega! È brutta, fa schifo, non la voglio! Ma ce l’hanno tutti. Ma la mia è nuova. Quella è più nuova, e poi è di moda. Ho lottato con le unghie e coi denti ma non c’è stato niente da fare: ossessionati dall’apparire come gli altri, hanno dato dentro la mia bellissima e con due lire mi hanno portato a casa quell’orrore, che ho odiato con tutta me stessa e non ho smesso un solo momento di odiare, non mi ci sono mai abituata e soprattutto non mi sono mai fatta una ragione del sopruso che avevo subito. Oltretutto quando si andava sui colli avevo sempre bisogno che qualche ragazzotto robusto si sacrificasse a fare cambio, perché per me pedalare in salita con quel carro armato a pedali era assolutamente impossibile. Ricordo ancora una volta che a scuola si è fatta una gita in bicicletta, e tutti gli scolari a vedere quella roba si piegavano in due dalle risate, e mi toccava anche dargli ragione. Quando finalmente mi è stata rubata ho fatto salti di gioia.

Ad un certo momento, poco dopo i venticinque anni, ho comprato anche una bicicletta da corsa usata
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col cambio sul telaio che ogni volta che cambiavo faceva SGRO-GO-GON per assestarsi, talmente leggera che potevo sollevarla col solo mignolo, uno spettacolo! (Una volta al mare c’era un crucco che si era portato dietro la bici da corsa. Un giorno che era appoggiata al muro dell’albergo ho provato a sollevarla col mignolo, e non ci sono riuscita, per alzarla ho dovuto usare l’indice, e ho detto: “La mia è più leggera”, e lui, muso duro e aria offesa: “Es existiert NICHT!” Fanculo)

Adesso, da una settimana, c’è Caterina
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(sì, il motivo di tutto questo sproloquio è lei) (PS: avete notato? Ha il fanale con la dinamo!!), con la quale sto conducendo un importante esperimento scientifico: verificare se il detto che ad andare in bicicletta non si disimpara è valido anche dopo trentacinque anni che non si mette il culo su una bicicletta. Beh, è vero in parte: si reimpara velocemente, ma bisogna proprio reimparare. Appena ho provato a partire, uscita dal negozio, la ruota ha puntato dritta verso il centro della strada, per cui mi sono dovuta fermare e aspettare che le macchine avessero il rosso, per avere qualche momento per assestarmi, e insomma, quei due chilometri per arrivare a casa mi hanno veramente molto provata (Oddio la curva! Noncelafacciononcelafacciononcelafaccio!) (No! Il semaforo rosso! Adessocadoadessocadoadessocado!) Vabbè, per il momento non sono ancora caduta. L’altro ieri per la prima volta sono andata in bicicletta al corso di ginnastica (sì, mi sono iscritta a un corso di ginnastica fisioterapica per vecchiette. E anche a un corso di fotografia, oltre al corso di teatro che è ricominciato all’inizio del mese), sette-otto minuti al posto dei venticinque che impiego a piedi, però sono arrivata che tremavo tutta. Naturalmente dovrò riallenare quadricipiti e gastrocnemi, oltre ai polmoni e al cuore, per cui per il giro d’Italia del 2020 non so se ce la farò, ma per l’anno dopo preparatevi a fare tutti il tifo per me!

E naturalmente:

barbara

QUANDO ERO PIÙ AGILE

Questa era una delle mie specialità

Ma datemi un po’ di tempo e vedrete se non torno a farlo (al momento mi è categoricamente vietato correre, meno che mai saltare). Lunedì, comunque, dopo quasi due mesi di trattamento laser, pur continuandolo ancora per qualche settimana (costo totale dei soli dieci minuti al giorno di laser: circa 2000 euro), inizierò la seconda fase della riabilitazione, con massoterapia decontratturante e ginnastica posturale (“molto soft, per il momento”). Ma appena riuscirò a fare i quattro salti base del can can classico (due piedi a terra – su un ginocchio – due piedi a terra – su tutta la gamba) faccio un fischio e vi chiamo tutti a vedermi.
Nel caso qualcuno non conoscesse il motivo di tutto quello sventolamento di gonne: le ballerine del Moulin Rouge erano rigorosamente senza mutande, ma con tutte quelle gonnellone, se non le tiravano su gli spettatori non potevano vedere niente.

barbara