TITOLO DI MERDA

Per usare un eufemismo.

Shanti sconfitta dalla depressione: eutanasia a 23 anni dopo essere sopr…
Una depressione talmente grave a cui neanche le cure psichiatriche, i farmaci e l’amore della famiglia sono rius…

NO! Shanti non è stata sconfitta dalla depressione: Shanti è stata sconfitta da un branco di “medici” che infangano la propria professione. Shanti è stata sconfitta da uno stato criminale. Shanti è stata sconfitta dalla politica “progressista”, talmente inclusiva da includere anche la pena di morte per gli innocenti.
Per primo lascio parlare Giulio Meotti.

I terroristi islamici che uccidono e la cultura che “cura” la vita con la morte

Una ragazza sopravvissuta agli attentati di Bruxelles ottiene l’eutanasia. “Era traumatizzata”. Cosa diranno gli storici di questo periodo di follia? Che non era decadenza, ma apocalisse di civiltà?

Il suo nome era Shanti De Corte. Aveva 23 anni. Questa ragazza belga è stata soppressa, circondata dalla sua famiglia, dopo aver ottenuto legalmente l’eutanasia. Sei anni prima, Shanti era all’aeroporto internazionale di Bruxelles. Doveva volare a Roma come premio dopo la laurea. Si trovava nella sala partenze, quando i terroristi islamici si sono fatti saltare in aria. Shanti era a pochi metri da loro. Fu portata via ancora in vita dall’aeroporto quella mattina, ma da quell’incubo non ne sarebbe mai davvero uscita. Prendeva undici antidepressivi al giorno e frequentava un progetto di Myriam Vermandel, anche lei vittima degli attentati di Bruxelles e che offre cure mediche e terapeutiche alle vittime degli attentati. Shanti non ha retto e così ha presentato una richiesta di eutanasia per “sofferenze psichiatriche”. Due psichiatri hanno accolto la sua richiesta. Ora presso la procura di Anversa è stata aperta un’indagine sull’eutanasia di Shanti De Corte. Ma sarà archiviata, come tutte le altre inchieste.
Ha ragione Marion Marechal, la nipote di Marine Le Pen che in Francia prova a costruire un’alternativa conservatrice, quando commenta: “Lo shock traumatico di un attacco islamico porta una ragazza belga all’eutanasia che il nostro governo vorrebbe. Una doppia tragedia crudelmente sintomatica del nostro tempo”.
Ma poiché viviamo in una società che trasforma automaticamente ogni desiderio in diritto, ora si chiede allo Stato anche di pagare l’ultima iniezione, in nome della “giustizia sociale” e della “compassione”. Esiste, in un certo senso, un nuovo diritto fondamentale a pretendere dallo stato la medicalizzazione della propria morte. Gli oppositori dell’eutanasia non sono numerosi, il che non significa che siano marginali. Ma la maggior parte di loro avanza argomentazioni che non riescono mai a farsi sentire. Perché è sorda l’epoca rispetto a chi cerca di dare consistenza al bene e al male.
Shanti non era il caso di Christian de Duve, il Nobel per la medicina belga che a 95 anni ha scelto l’eutanasia. Nel caso di Shanti siamo su un altro piano ancora. Come nello scritto di Michel Houellebecq su Le Figaro: “Devo essere molto esplicito, quando un paese – una società, una civiltà – arriva a legalizzare l’eutanasia, perde, secondo me, ogni diritto al rispetto. Allora diventa non solo legittimo, ma desiderabile, distruggerlo, in modo che qualcos’altro – un altro paese, un’altra società, un’altra civiltà – abbia la possibilità di nascere”.
Gli islamisti che hanno cercato di uccidere Shanti De Corte sarebbero d’accordo.
Il giorno prima c’era stata la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (istituzione che non è mai stata certo un baluardo dei valori giudaico-cristiani) che ha condannato il Belgio sulle “salvaguardie” della legge sull’eutanasia, dopo che una donna perfettamente sana l’ha ottenuta solo perché “depressa”, come racconta il Times (il figlio, accademico, ha fatto causa allo stato).
Adesso l’eutanasia di una ragazza di 23 anni per “trauma psicologico” ci mostra fino a che punto possa estendersi l’idea di una “vita senza dignità”, una vita che alla fine appartiene allo Stato o, più esattamente, alla medicina che la abbrevia per motivi “umanitari” e alla “società civile” che decide con diabolici mezzi persuasivi cosa sia giusto o sbagliato. Quale paradosso! Lo spirito pubblico occidentale che si vanta di aver messo fuori legge la pena di morte la glorifica quando non è più comminata per punire, ma per “alleviare” e “curare”, riacquistando così tutti i crismi di nobiltà.
Siamo caduti nell’orrore e siamo passati dal banale slogan “non avrete il mio odio” di alcuni sopravvissuti agli attentati islamici al ben più terrificante “avrete la mia vita”? Chanti non si è suicidata, come è successo ad altre vittime del terrorismo. Uno stato, i suoi medici, le sue “commissioni bioetiche” e i suoi burocrati le hanno dato la morte legale non sapendole offrire alternativa morale e umana. Siamo l’Europa intrappolata tra la barbarie islamista e la cultura della morte, che conta solo sull’arrivo degli stranieri per salvarla? I chiodi che trattengono tutto il nostro “progresso” cadono all’istante quando scopriamo il drappo funebre appoggiato sulle nostre vecchie spalle? Non siamo forse finiti nella barbarie umanitaria, dove l’uomo è cancellato proprio in nome degli ideali che pretendevamo di elevare, “dignità” e “umanità”? Siamo forse usciti da un quadro di Hieronymus Bosch? E cosa diranno gli storici onesti di questo periodo di follia in cui non sappiamo più perché si deve nascere, ma che trova sempre molte ragioni per morire? Chi ne uscirà sano di mente sarà fortunato, ma saranno i nostri figli che dovranno vedere il sequel. I ragazzini olandesi ne sanno già qualcosa e ne sapranno di più in futuro.
Se continua così non sarà più la decadenza, ma l’apocalisse di civiltà.
Giulio Meotti

E ora due parole io. Undici antidepressivi al giorno. Undici antidepressivi al giorno non sono una terapia. Undici antidepressivi al giorno sono un attentato alla salute fisica e mentale. Undici antidepressivi al giorno sono violenza privata. Undici antidepressivi al giorno sono circonvenzione di incapace. Undici antidepressivi al giorno sono un crimine contro l’umanità. Shanti, anziché essere aiutata a superare il trauma, è stata assassinata dal boia di stato. Come Noa Pothoven, con una famiglia che non si è accorta prima delle ripetute molestie da bambina e degli stupri da adolescente e poi della profonda depressione e del suo desiderio di morire, e i cui psicologi hanno pesantemente aggravato la situazione, al punto da ricordare i centri “di cura” come un inferno, e alla fine hanno “riconosciuto” che la sua depressione, a 17 anni, non aveva alcuna possibilità di guarire, e le hanno concesso l’assistenza mentre si lasciava morire di fame e di sete (e se senza assistenza avesse sofferto troppo per la fame e la sete e avesse deciso di provare invece a vivere? E magari alla fine ci fosse riuscita?). Per non parlare di quella che di morire non aveva alcuna intenzione, assassinata dalla dottoressa che l’aveva in cura mentre marito e figlia la tenevano ferma perché stava tentando di ribellarsi all’iniezione letale. E a questa infame crudeltà aggiungono l’ipocrisia di chiamare eutanasia, buona morte, l’assassinio di innocenti.
E ritorniamo per un momento ancora a Shanti, torniamo per un momento a guardarla, anzi, a riguardare il suo sorriso:

i terroristi islamici lo avevano offuscato, uno stato criminale e degli psichiatri criminali lo hanno spento per sempre. Pagherà mai qualcuno per questi crimini?

barbara

ANNA

Anna, il personaggio biblico raccontato nel libro di Samuele e madre dello stesso profeta e guida di Israele, era depressa: non aveva figli, era una seconda moglie emarginata dalla prima che era, invece, feconda e madre. Secondo i canoni di quello che si racconta oggi in Europa Anna avrebbe dovuto uccidere il marito, che pur l’amava, sterminare la rivale ed i suoi figli ed accoltellare tutti quelli che incontrava per strada. Stranamente questo non accadde e il libro biblico di Samuele testimonia in 1 Samuele 1:10: “Ella (Anna) aveva l’anima piena di amarezza, e pregò il Signore dirottamente.” Da credente Anna pregò. Così semplicemente. Senza machete, asce, coltelli, spade, scimitarre. Che strana cultura questa nostra.
Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
(29 luglio 2016)

Per dimostrare la vanità di queste teorie basta una semplicissima considerazione comparativa. Grandissima parte della recente drammatica ondata di immigrazione proviene da paesi dell’Africa a sud del Sahara e dalla regione del Corno d’Africa, e coinvolge persone di fede musulmana, cristiana e animista. Eppure i casi di violenza assassina nei confronti della società civile europea da parte di africani non musulmani sono rarissimi o quasi inesistenti. Tutta la drammatica sequela di stragi, eccidi, sparatorie e accoltellamenti degli ultimi anni è invece attribuibile quasi senza eccezione a membri espliciti o nominali della fede islamica, nati in Nord Africa e Medio Oriente, o nati in Europa da famiglie di tali provenienze.
Sergio Della Pergola
(28 luglio 2016)

Già: un pazzo francese si mette uno scolapasta in testa e dice di essere Napoleone, un pazzo scandinavo chiede alla madre di dargli il sole, un pazzo musulmano entra in chiesa e sgozza il prete. Una depressa ebrea prega, un depresso musulmano prende un camion e si butta là dove la folla è più fitta affinché il bottino di cadaveri sia il più ricco possibile. Quanto alle vittime di bullismo, riporto qui una mia considerazione scritta qualche giorno fa nei commenti. Ho insegnato per 36 anni. In tutte le classi, ripeto TUTTE, ribadisco TUTTE, senza eccezione, c’è una vittima di bullismo. Calcoliamo quante classi ci sono in una scuola, quante scuole ci sono al mondo, e avremo un numero approssimato per difetto (perché a volte le vittime sono due) delle vittime di bullismo a scuola nel mondo. A cui vanno aggiunte le vittime di bullismo nelle squadre sportive, nelle scuole di danza, di musica, di teatro ecc. E poi andiamo a vedere quante di queste vittime vanno a fare carneficine. Fra il mezzo centinaio da me incontrato personalmente, il totale è zero. Strano mondo davvero, quello di noi infedeli.

barbara

I MIEI SOLITI VIAGGI IN TRENO

Che una dice massì, parto presto così arrivo presto. E nonostante sia uno di quei rarissimi momenti in cui potrei senza problemi dormire anche tre ore di fila e poi riaddormentarmi e dormirne altre tre, mi faccio la levataccia. Preparo le mie cose, corro giù per le scale, salto in macchina, arrivo alla stazione, parcheggio, entro, riesco miracolosamente a trovare una macchinetta funzionante per timbrare il biglietto, salgo in treno, arriva l’ora della partenza e il treno non parte. Tre minuti e non parte. Cinque minuti, dieci minuti, non parte. Poi finalmente parte, ma non riesce a recuperare tutto il ritardo, e quando arriviamo la coincidenza si sta beffardamente avviando. E dunque devo aspettare il treno successivo, un’ora dopo, col quale a Bolzano trovo solo un intercity delle ferrovie tedesche per il quale in biglietto delle ferrovie dello stato non vale e ne devo fare un altro, che da Bolzano a Verona mi costa quasi come quello che avevo fatto per tutto il viaggio. Vabbè. A Verona prendo finalmente il quarto e ultimo treno di questo viaggio un po’ sfigato e improvvisamente si ferma in aperta campagna. Dopo un po’ il capotreno (la capotreno? La capatreno? La capessatreno? La capotrena? La capotrenessa?) spiega che siamo fermi “causa abbattimento sbarre passaggio a livello, in attesa dell’arrivo delle autorità competenti”. Perché le sbarre dei passaggi a livello, you know, sono di un sensibile da non credere, soffrono di depressione cronica e basta un niente, tipo che uno le guarda male, e quelle subito si avviliscono e si abbattono. E insomma dovevo arrivare alle quattro e mezza e sono arrivata alle sei e mezza. In tempo lo stesso per riuscire a incontrare lui,

in tutta la sua sfolgorante bellezza e coi candidi capelli spumeggianti, ma giusto giusto una toccata e fuga, un caffè, due chiacchiere e fine, tempo scaduto.
Al ritorno invece niente, tutto tranquillo. A parte un treno soppresso.
E arrivata qui devo fare una confessione. E lo so che per i miei fedeli lettori sarà una delusione di proporzioni epiche, ma per onestà lo devo dire: in tutti i treni che ho preso – e sono stati ben sette – non ho visto neanche una passeggera coi capelli di color “rosso improbabile”.  Niente, neanche una. Ho visto un ragazzo che aiutava tutte le donne, giovani e vecchie, a sistemare le valigie. E un altro ragazzo guardare con le mani in tasca una signora, sicuramente ultrasettantenne,  tirare giù, faticosamente, una valigia piuttosto ingombrante. E una signora con un paio di etti di silicone dentro le labbra e un brillantino su una narice e un altro sopra la bocca e un paio di nei blu disegnati sulla faccia tipo damina del Settecento e alcune altre amenità. E una ragazza greca molto carina, bionda naturale con gli occhi azzurro-verde luminosi arrivata qui, per sfuggire alla crisi, su invito di un’amica che le aveva promesso un lavoro. Solo una volta arrivata ha scoperto qual era esattamente il lavoro che le si offriva. Per fortuna era arrivata qui a spese sue e aveva con sé tutti i documenti, ed è riuscita a filarsela prima di restare impigliata nella rete. Ma ancora così sconvolta da sentire il bisogno di raccontarlo, pur col suo italiano stentatissimo. Cioè insomma volevo dire che ho visto e incontrato gente di tutti i tipi, ma signore coi capelli di colore “rosso improbabile” neanche mezza. Spero che, per l’affetto che mi portate, riuscirete prima o poi a perdonarmi.

barbara