VAJONT, 9 OTTOBRE 1963

Esattamente cinquant’anni fa si verificava la catastrofe del Vajont. Catastrofe prevedibile e prevista: Tina Merlin – ma non solo lei – aveva instancabilmente tentato di denunciare i pericoli che avrebbero corso i paesi sottostanti se la diga fosse stata costruita. Inascoltata, fu denunciata e processata lei, invece, per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. La diga fu costruita, e costò quasi duemila morti. A chi non lo conoscesse raccomando il suo bellissimo “Sulla pelle viva” che riuscì a pubblicare solo nel 1983 presso La Pietra (ripubblicato dieci anni dopo da Il Cardo col titolo “Vajont 1963”).
Per chi non l’ha visto e per chi non c’era ripropongo il mio post di alcuni anni fa. Purtroppo non posso riportare la fonte perché i link non rispondono più.

Vajont, quasi una tragedia greca

Trentacinque anni dopo, la diga è ancora lì. Nessuno ha avuto interesse a conservarla, ma la grande vela di cemento da 261 metri ha resistito bene contro il tempo, come contro il collasso monumentale del monte alle sue spalle.
Il 9 ottobre 1997, l’attore Marco Paolini ha raccontato la storia del Vajont a quelli, in Italia, che non la conoscevano; ed erano moltissimi.
Una settimana dopo la valle era invasa dai turisti, forse per la prima volta. E per la prima volta la gente andava sul posto per vedere la diga; la montagna franata che ha riempito completamente il vecchio bacino.
E i cimiteri di quelli che morirono nella sciagura.
In effetti, la storia del Vajont è più di una cronologia fra operazioni tecniche ed eventi naturali; sembra piuttosto un complesso di fattori che si possono leggere in modo diverso.
Quelli che costruirono la diga del Vajont erano convinti di lavorare ad un capolavoro, nella storia dell’Ingegneria. Doveva essere la più grande diga a doppio arco mai progettata; e la più alta in Europa.
Come qualcuno disse in quei giorni, la diga del Vajont era effettivamente un capolavoro. Ma nessuno aveva notato che nell’entusiasmo per la grande sfida, era stato commesso un banale errore.
Così, a quegli ingegneri, imprenditori, progettisti e politici, sembrò improvvisamente assurdo che una macchina del genere fosse condannata, prima ancora del collaudo, ad una morte completa ed immediata. E perché? Perché, diamine, quasi tutto il fianco sinistro del serbatoio non poteva reggere la presenza di un lago artificiale.
Il Monte Toc aveva dato confusi ma importanti elementi per sospettare che non avrebbe sostenuto sollecitazioni di quella entità; e le indagini avevano indicato chiaramente che c’era qualcosa di certamente anomalo.
Furono fatti tentativi di valutare l’entità della potenziale massa di frana, e i risultati mostravano rischi al di là di ogni possibile stima superficiale.
Dopo la prima frana, nel 1961, e la comparsa della grande “M” che indicava con certezza l’entità della massa in movimento, una conclusione era stata tratta.
La frana sarebbe potuta essere enorme, ed estremo il rischio per tutta la zona, se il piano di scivolamento fosse stato “anche leggermente” inclinato verso il lago.
È piuttosto probabile che la continua osservazione della frana dal 1961 al 1963, avrebbe consentito di prevedere che il complesso del Vajont doveva essere fermato; o almeno sospeso nella sua attività, per consentire più importanti e pubblici esami.
Ora, proviamo a immaginare le barzellette che sarebbero state inventate sugli scienziati e finanzieri che avevano costruito la diga:
«Ah, quel coso lì? Serve per fermare il vento all’entrata della valle!»
Onorate carriere nel mondo accademico, tecnologico ed economico, distrutte perché che nessuno aveva fatto esami geologici profondi in tutta la valle, ma solo nei costoni in cui era piantata la diga.
Questo non era accettabile, per loro: provarono a sistemare la cosa segretamente, e divennero, in pratica, assassini.
Cosa è avvenuto, dunque?
È facile dire che fossero solo capitalisti senza scrupoli. Ma c’è dell’altro; qualcosa di molto più radicato nella natura umana.
La diga del Vajont era equipaggiata con strumenti che integravano quanto appariva anche all’esterno.
L’ultimo giorno, il Monte Toc stava dando l’ultimo, fatale avvertimento: vibrazioni del suolo, crepitii sotterranei e fratture visibili. Gli alberi sulla frana cadevano, mentre i sismogrammi indicavano l’avvicinarsi della fine.
Giancarlo Rittmeyer, che era di guardia al complesso la notte del 9 ottobre, probabilmente non dormì per niente.
Dovette rendersi conto che poteva accadere qualcosa di terribile; ma evidentemente non arrivò a capire che si stava preparando una catastrofe biblica; e certamente non capì che quella era la sua ultima notte.
Avvertì Venezia che la situazione precipitava; ma aspettò un’autorizzazione ufficiale prima di chiedere ai Carabinieri lo sgombero delle frazioni basse di Erto.
Continuò a pensare che una frana poteva cadere; ma che non sarebbe stato quello che poi fu.
Rittmeyer e i suoi uomini avevano un rifugio di emergenza nella parete di roccia del Toc, presso la cabina di controllo; ma non bastò a salvarli. Nessuno di quelli che erano alla diga, quella notte, sopravvisse.
Rittmeyer sperò che non succedesse davvero. E non fece quello che sarebbe stata una soluzione estrema, come abbandonare la diga lui e il suo personale, dopo aver ordinato direttamente, per telefono, l’evacuazione di emergenza di Erto, Casso e Longarone.
Perché? Perché sperò, fino all’ultimo, che il danno non sarebbe stato grave; che la frana sarebbe magari scesa piano, assestandosi, senza uccidere nessuno. E soprattutto, perché lui non aveva autorità sufficiente per ordinare uno sgombero massiccio, soprattutto senza autorizzazione dei suoi capi.
Eppure, se lo avesse fatto, è probabile che gli avrebbero creduto, e magari alcune delle vittime del Vajont sarebbe potuta essere salvata.
Adesso; è possibile che egli arrivò perfino a pensare, una cosa del genere: ma come poteva compiere un’azione così azzardata, contro tutti i suoi superiori che continuavano a dirgli: “State calmi, non preoccupatevi?”.
Per le informazioni che gli avevano dato, la frana non sarebbe stata catastrofica. C’era perfino una relazione tecnica in cui si diceva che, con l’acqua a 700 metri “ogni possibile evento di frana” non avrebbe provocato danni.
Se Rittmeyer avesse fatto qualcosa di spettacolare, per esempio chiedere personalmente l’evacuazione di massa, e la frana non fosse caduta: chi gli avrebbe mai più dato un lavoro?
Rittmeyer è solo uno – innocente, in sostanza – dei molti attori in questa tragedia moderna.
Eppure, nella storia del Vajont ci sono molti elementi della classica tragedia greca:
“Hybris”: lo slancio arrogante per piegare gli elementi a ciò che vogliamo.
“Peripetheia”: il brusco cambiamento tra un risultato atteso, e una fine incontrollata.
“Pathos”: l’improvvisa e terrificante distruzione delle speranze e delle attese; qualcosa che porta un uomo, dalla convinzione di essere un generoso benefattore dell’umanità, alla consapevolezza di essere l’omicida di duemila innocenti.

Ero bambina, ma me la ricordo bene. Ricordo bene l’impressione per questa immane tragedia, per tutti quei morti, per quella spaventosa devastazione. Ricordo anche il commento finale dei miei: “Asassini! E dopo ‘ndarà finire che i trova dei boni avocati e no va in gaèra nisuni”. E non ci è andato nessuno, infatti.
Longarone primaLongarone prima
Longarone dopoLongarone dopo

vajont morti I morti
Vajont
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Vajont3

Concludo facendo mie le parole pronunciate all’indomani da Tina Merlin: “Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa”.

barbara