E QUANDO CREDI CHE ABBIANO TOCCATO IL FONDO

loro sono già al settantaquattresimo piano interrato. Quella credevo essere il fondo è la gender archaeology: la conoscevate? L’ho trovata ieri girando per FB:

Galatea Vaglio

1p0o sh0r1g8  · 

La gender archaeology continua ad interessare il pubblico: qui la mia intervista su Radio Immagina. 
La gender archaeology è un arbitro che controlla che i reperti non siano interpretati attraverso pregiudizi di genere: non vuole imporre una visione in cui le donne avevano necessariamente il potere, solo evitare che sulla base di pregiudizi la loro presenza venga negata o sottostimata. 
( E grazie, come semore, alle #lezionidistoria su Valigia Blu e ad @Arianna Ciccone

Stendiamo un velo pietoso sull’italiano (che se dovessi correggere non saprei da che parte cominciare), da parte di una che ha scritto un libro per insegnare come si parla e scrive correttamente in italiano, ma apprezziamo moltissimo che “non vuole imporre una visione in cui le donne avevano necessariamente il potere” – e si noti l’indicativo, che sembrerebbe suggerire che le donne avrebbero effettivamente avuto il potere, il che induce a chiederci come mai poi lo abbiano perso fino a ridursi, non di rado, a mera proprietà dell’uomo. Poi non mi è molto chiaro il ruolo di quel “necessariamente”, soprattutto in quella posizione, ma sarà sicuramente un limite mio. Quello che invece mi è proprio del tutto oscuro è a chi mai potrebbe venire in mente di negare la presenza delle donne, se non altro per il piccolo dettaglio che le persone hanno continuato a nascere. Cioè, è vero che i teorici del gender, di cui la Signorina è una strenua sostenitrice, negano categoricamente che solo le donne possano partorire, però di prove finora non mi sembra che ne abbiano portate molte. Bon, come dice il buon Andrea Marcenaro. Questo è il fondo, dicevo. Che ho inviato a un gruppetto di amici. Uno dei quali mi ha risposto:

Perché voi non sapete che c’è il gender climate change. Basta cercare con google. E poi c’è questa perla:

Il Pene come Causa del Climate Change

Pubblicato da Massimo Lupicino il 23 Maggio 2017

Tenetevi forte perché l’argomento è decisamente…hot.

Due accademici americani: Peter Boghossian, insegnante di filosofia all’Università di Portland e James Lindsay, dottore in matematica con studi in fisica, hanno pensato bene di dimostrare quanto fosse ridicolo, assurdo e politicamente motivato il processo di peer-review di paper che trattano argomenti cari al versante liberal. Per farlo, hanno deciso di inventarsi di sana pianta un paper con il seguente titolo: “Il Pene Concettuale come Costrutto Sociale”. Un paper-bufala, volutamente privo di alcun senso, basato su due cavalli di battaglia molto cari al versante liberal più militante: ovvero la critica di qualsiasi espressione di mascolinità in ogni sua forma e, ovviamente, il Climate Change. Il tutto condito da termini ed espressioni roboanti quanto del tutto prive di significato.
Il loro esperimento ha avuto successo: il paper-bufala in questione è stato infatti referato e pubblicato dalla rivista Cogent Social Sciences, che orgogliosamente si definisce “rivista multidisciplinare che offre peer-review di alta qualità nel campo delle scienze sociali”.

L’Abstract:

Cominciamo subito con l’Abstract, semplicemente esilarante nonostante l’obbiettiva difficoltà che si incontra nel tradurre un testo volutamente sconclusionato:

Il pene anatomico potrebbe anche esistere, ma come le donne transgender hanno un pene anatomico prima dell’operazione, allo stesso tempo si può sostenere che il pene a fronte del concetto di mascolinità è un costrutto incoerente. Noi sosteniamo che il pene concettuale si comprende meglio non come organo anatomico, ma come costrutto sociale isomorfico ad una tossica mascolinità prestazionale. Attraverso una dettagliata critica discorsiva post-strutturalista e basandoci sul’esempio del climate change, questo paper sfiderà la visione prevalente e dannosa che il pene venga concepito come organo sessuale maschile, e gli assegnerà, piuttosto, il ruolo più consono di elemento di prestazione maschile”.

Con un Abstract del genere, si può intuire facilmente che l’articolo è ricco di perle. Come questa, per esempio:

Così come la mascolinità è intimamente legata alla prestazione, allo stesso modo lo è il pene concettuale (…). Il pene non dovrebbe essere considerato come onesta espressione dell’intento dell’attore, quanto piuttosto dovrebbe essere presentato in un’ottica di performance di mascolinità o super-mascolinità. Quindi l’isomorfismo tra il pene concettuale e quello che la letteratura femminista definisce “super-mascolinità tossica” è definito attraverso un vettore di “machismo braggadocio” culturale maschile, con il pene concettuale che gioca il ruolo di soggetto, oggetto, e verbo dell’azione

Il giudizio dei reviewers

Cogent Social Sciences ha accettato l’articolo con giudizi incredibilmente incoraggianti, e assegnando voti altissimi in quasi tutte le categorie. Uno dei reviewer ha commentato: “L’articolo cattura l’argomento della super-mascolinità attraverso un processo muti-dimensionale e non lineare”. L’altro reviewer l’ha giudicato “Outstanding” in ogni categoria. Tuttavia prima della pubblicazione Cogent Social Sciences ha richiesto alcune modifiche per rendere il paper “migliore”. Modifiche che gli autori hanno apportato in un paio d’ore senza particolari patemi, aggiungendo qualche altra scempiaggine come il manspreading (la tendenza che certi uomini hanno a sedersi con le gambe allargate), e “la gara a chi ce l’ha più lungo”.

E il Climate Change?

Gli autori hanno sostenuto nel paper che il climate change è concettualmente causato dai peni: “Il pene è la fonte universale prestazionale di ogni stupro, ed è il driver concettuale che sottende alla gran parte del climate change”.

Approfondendo l’ovvio concetto nel seguente modo:

Gli approcci distruttivi, insostenibili ed egemonici maschili nel mettere sotto pressione la politica e l’azione ambientalista sono il risultato prevedibile di uno stupro della natura causato da una mentalità dominata dal maschio. Questa mentalità si comprende meglio riconoscendo il ruolo che il pene concettuale riveste nei confronti della psicologia maschile. Applicato al nostro ambiente naturale, specialmente agli ambienti vergini che possono essere spogliati facilmente delle loro risorse naturali e abbandonati in rovina quando i nostri approcci patriarcali al guadagno economico li hanno privati del loro valore intrinseco, l’estrapolazione della cultura dello stupro inerente al pene concettuale appare nella sua chiarezza”.

Il pensiero degli autori

Gli autori dell’articolo-bufala dedicano ampio spazio ai motivi che li hanno spinti a scrivere il paper in questione, e criticano senza pietà i fondamentalismi legati all’ideologia liberal prevalente. Fondamentalismi che sottendono anche alle pubblicazioni scientifiche e, in particolare, a quel processo in sé delicatissimo di peer-review che dovrebbe aiutare a distinguere la cattiva ricerca da quella buona.
Gli autori intendevano provare o meno l’ipotesi che l’architettura morale costruita dai settori accademici più liberal fosse la discriminante prevalente nella decisione se pubblicare o meno un articolo su una rivista. In particolare, la tesi degli autori era che gli studi sul gender fossero inficiati dalla convinzione quasi-religiosa nel mondo accademico che la mascolinità fosse causa di ogni male. A giudicare dal risultato, si può ben dire che la loro ipotesi sia stata pienamente confermata.

Il “dietro le quinte”

Tra le curiosità più degne di nota va segnalato che gli autori, al fine di sostenere la teoria della causa peniena del climate-change, hanno anche allegato un riferimento totalmente sconclusionato ad un articolo inesistente creato da un generatore algoritmico di paper a sfondo culturale chiamato “Postmodern Generator”.
Inoltre hanno volutamente riempito l’articolo di termini gergali, contraddizioni implicite (come la tesi secondo cui gli uomini super-mascolini sono sia al di fuori che all’interno di certi discorsi nello stesso momento), riferimenti osceni a termini gergali riferiti al membro maschile, frasi insultanti per gli uomini (come la tesi secondo cui chi sceglie di non avere figli non è in realtà capace di “costringere una compagna”).
Dopo aver scritto il paper gli autori l’hanno riletto attentamente per assicurarsi che “non significasse assolutamente niente” e avendo avuto entrambi la sensazione che non si capisse di cosa il paper parlasse, hanno concluso che il risultato era stato pienamente raggiunto.
Infine gli autori concludono che il fatto che un articolo del genere sia stato pubblicato su una rivista di scienze sociali solleva questioni serie sulla validità di argomenti come gli studi sul gender, e sullo stato delle pubblicazioni accademiche in generale “Il Pene Concettuale come Costrutto Sociale non avrebbe dovuto essere pubblicato perché concepito per non avere nessun significato: è pura insensatezza accademica senza alcun valore”.

Pensieri alternativi

  • Per quanto ricco di spunti obbiettivamente esilaranti, l’esperimento di Boghossian e Lindsey pone delle questioni serie, gravi e ineludibili sullo stato della scienza, delle pubblicazioni accademiche, del processo di peer-review e in generale sull’influenza e la pervasività che in ambito accademico hanno certe posizioni fideistiche, para-religiose (ma rigorosamente laiche e laiciste) legate alla politica e al pensiero liberal prevalente.
  • Il climate change fa parte a pieno titolo dell’armamentario di cui i pasdaran dell’ortodossia liberal si servono per giustificare, spiegare, sostanziare qualsiasi cosa. Dalle guerre alle migrazioni, passando per la finanza e la sociologia, il climate change c’entra sempre. O non c’entra nulla. Questione di punti di vista.
  • Molto spesso capita di leggere su paper di argomento climatico delle postille messe lì in modo apparentemente posticcio, a mo’ di pietosa foglia di fico che suonano come: “questa ricerca sembra mettere in discussione la narrativa sul global warming antropogenico, ma in realtà non è così”. In quanti casi sono gli stessi reviewers di riviste completamente esposte e schierate sul versante del climate change catastrofista, a richiedere espressamente l’aggiunta di queste postille?
  • E in quanti casi, paper scientificamente validi saranno stati bocciati per il solo fatto di contraddire la narrativa e la “linea editoriale” della rivista in questione? [moltissimi, lo sappiamo per certo] E come si traduce tutto questo nella libertà di fare ricerca, da scienziato vero, e libero, e non da lavoratore a cottimo pagato per dimostrare quello che gli sponsor della ricerca si aspettano? E quello che gli editori della rivista vogliono leggere?

Sono tutte domande che restano inevase, ma l’esperimento in questione conferma che si tratta di domande legittime che attengono alla qualità del sistema di referaggio scientifico e, soprattutto, all’uso politico che si fa della ricerca scientifica.

…E riflessione finale

Mi si perdonerà l’espressione poco accademica, ma credo proprio che qualcuno si sentirà un po’ più libero, da oggi, nel dire che “il Climate Change è proprio una teoria del c*zzo”. Del resto, c’è anche un paper accademico a sostenere questa tesi. Un paper referenziato da una rivista che “offre peer review di alta qualità”. E se le referenze sono la stampella su cui i soloni del mainstream appoggiano teorie sempre più zoppicanti alla luce dell’evidenza sperimentale, non si vede perché lo scettico sboccato (ed esasperato) debba essere ingiustamente privato dello stesso privilegio. (qui)

Di teorie deliranti ho portato ampie documentazioni in questo blog, e delle altrettanto deliranti argomentazioni prodotte dai loro sostenitori, a partire appunto dalla fantomatica emergenza climatica e da quell’autentico delirio di onnipotenza che porta a credere che l’uomo possa controllare e guidare il clima. Ho già ricordato quella signora che alla mia obiezione che duemila anni fa Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti, cosa oggi neppure concepibile per via di neve e ghiaccio, ha risposto: “Evidentemente non è passato per le Alpi”, trasformando anche la storia in un optional. Adesso vi aggiungo un’altra novità: da un bel po’ di anni il ghiaccio dei poli sta aumentando, o yes (e se vi avanzano ancora due minuti leggete anche i commenti: sono interessanti). Comunque, cari amici uomini, occhio al  pisello, che se non state attenti, oltre a gravidanze indesiderate guardate quanti altri disastri ci combina (no, è inutile che ve lo facciate tagliare: vi resta sempre quello concettuale).

barbara

QUANDO CHI DOVREBBE INFORMARE È PAGATO PER MENTIRE

O almeno tacere. Quella se segue è la lettera con cui la giornalista Bari Weiss comunica le proprie dimissioni dal New York Times.

Caro A.G.,
È con tristezza che le scrivo per informarla delle mie dimissioni dal New York Times.
Tre anni fa sono entrata in questo giornale con gratitudine e ottimismo. Venivo assunta con l’obiettivo di portare voci che altrimenti non sarebbero apparse sulle vostre pagine: autori esordienti, centristi, conservatori e altri che istintivamente non avrebbero considerato il Times come la loro casa. La ragione di questo tentativo era chiara: l’incapacità di prevedere il risultato del voto del 2016 da parte del giornale significava che quest’ultimo non riusciva più a comprendere il paese di cui parlava. [Il direttore esecutivo] Dean Baquet e altri lo hanno ammesso in varie occasioni. La priorità per la sezione opinioni era rimediare a questa lacuna critica.
Ero onorata di essere parte di questo tentativo, guidato da James Bennet. Sono fiera del mio lavoro come autrice e come redattrice. Tra le personalità che ho contribuito a portare sulle nostre pagine figurano il dissidente venezuelano Wuilly Arteaga, la campionessa di scacchi iraniana Dorsa Derakhshani e il cristiano pro democrazia di Hong Kong Derek Lam. Ancora: Ayaan Hirsi Ali, Masih Alinejad, Zaina Arafat, Elna Baker, Rachael Denhollander, Matti Friedman, Nick Gillespie, Heather Heying, Randall Kennedy, Julius Krein, Monica Lewinsky, Glenn Loury, Jesse Singal, Ali Soufan, Chloe Valdary, Thomas Chatterton Williams, Wesley Yang e molti altri.
Ma le lezioni che dovevano seguire quell’elezione – riguardo all’importanza di comprendere gli altri americani, alla necessità di resistere al tribalismo e alla centralità del libero scambio di idee per una società democratica – non sono state imparate. Al contrario, nella stampa, ma forse specialmente in questo giornale, è emerso un nuovo pensiero dominante: l’idea che la verità non è un processo di scoperta collettiva, bensì un’ortodossia già nota a pochi illuminati il cui mestiere è quello di informare tutti gli altri.
Pur non comparendo nel colophon del New York Times, Twitter è diventato in ultima analisi il suo vero direttore. Poiché l’etica e il costume di quella piattaforma sono diventati quelli del giornale, il giornale stesso è diventato sempre più una specie di spazio performativo. Le storie vengono selezionate e raccontate in modo da soddisfare la più ristretta delle platee, anziché consentire a un pubblico curioso di leggere cose sul mondo e poi trarre le proprie conclusioni. Mi è stato sempre insegnato che i giornalisti hanno il compito di stendere la prima bozza della storia. Adesso, la storia stessa non è che qualcosa di effimero che va modellato secondo le necessità di una narrazione predeterminata.
Le mie incursioni nelle “idee sbagliate” [Wrongthink] mi hanno reso oggetto di bullismo costante da parte dei colleghi che non condividono le mie idee. Mi hanno chiamata nazista e razzista. Ho imparato a scrollarmi di dosso i loro commenti quando stavo «scrivendo un altro pezzo sugli ebrei». Diversi colleghi sono stati assillati da altri colleghi perché troppo gentili verso di me. Il mio lavoro e il mio ruolo vengono apertamente sminuiti nei canali Slack della società dove intervengono regolarmente i redattori. Qui alcuni colleghi insistono che io debba essere estirpata da questa azienda affinché la stessa possa divenire davvero “inclusiva”, altri invece aggiungono un’ascia emoji accanto al mio nome nei loro post. Ancora, altri impiegati del New York Times mi insultano pubblicamente su Twitter dandomi della bugiarda e ottusa, certi che questa persecuzione nei miei confronti non sarà punita. Non vengono mai puniti.
Esistono parole precise per designare tutto ciò: discriminazione illegale, ambiente di lavoro ostile, dimissioni costruttive. Non sono un’esperta legale. Ma so che sono cose sbagliate.
Non capisco come lei possa avere permesso a questi atteggiamenti di penetrare nella sua azienda sotto gli occhi dell’intero staff del giornale e del pubblico. E non riesco a conciliare il fatto che lei e altri vertici del Times siate rimasti immobili mentre mi elogiavate in privato per il mio coraggio. Presentarsi al lavoro come centrista in un giornale americano non dovrebbe richiedere eroismo.
Una parte di me spera di poter dire che la mia è stata un’esperienza isolata. Ma la verità è che la curiosità intellettuale – per non dire dell’assumersi dei rischi – oggi al Times è una cosa negativa. Perché pubblicare cose che sfidino i nostri lettori o scrivere cose audaci sapendo già che saranno sottoposte alla procedura anestetica per renderle ideologicamente kosher, quando possiamo garantirci una sicurezza lavorativa (e dei clic) pubblicando il nostro quattromillesimo editoriale su quanto Donald Trump rappresenti un pericolo per il paese e per il mondo? Così l’autocensura è diventata la norma.
Le regole residue al Times vengono applicate con estrema selettività. Se l’ideologia di una persona è in linea con la nuova ortodossia, quella persona e il suo lavoro non subiranno verifiche. Tutti gli altri vivranno nel terrore del Thunderdome digitale. L’odio online è tollerato fintantoché colpisce gli obiettivi giusti.
Commenti che soltanto due anni fa sarebbero stati facilmente ospitati, ora metterebbero un redattore o un autore in guai seri, se non alla porta. Se un pezzo può scatenare reazioni negative all’interno del giornale o sui social media, il redattore o l’autore evitano di proporlo.
Se sono abbastanza forti da proporlo, vengono subito spinti su un terreno più sicuro. E se ogni tanto ottengono la pubblicazione di un pezzo che non promuove esplicitamente campagne progressiste, questo avviene soltanto dopo che ogni riga è stata attentamente ritoccata, contrattata e puntualizzata.
Ci sono voluti due giorni e due posti di lavoro per dire che il commento di Tom Cotton «non era all’altezza dei nostri standard». Abbiamo aggiunto una nota redazionale a un articolo di viaggio su Jaffa poco dopo la sua pubblicazione perché «ha mancato di toccare aspetti importanti della costituzione e della storia di Jaffa». Ma ancora non ne è stata aggiunta alcuna all’ossequiosa intervista di Cheryl Strayed alla scrittrice Alice Walker, un’orgogliosa antisemita che crede negli illuminati rettiliani.
Il giornale di riferimento [paper of record] è sempre più il riferimento di coloro che vivono su una lontana galassia, i cui interessi non appartengono affatto alle vite della maggioranza delle persone. Si tratta di una galassia dove, solo per fare qualche esempio recente, il programma spaziale sovietico viene elogiato per la sua «diversità», dove il doxxing di ragazzi adolescenti viene condonato se fatto in nome della giustizia, dove tra i peggiori sistemi di caste della storia dell’umanità, accanto alla Germania nazista, figurano gli Stati Uniti.
Ancora oggi confido nel fatto che la maggior parte delle persone al Times non abbia queste idee. Tuttavia è intimidita da chi le ha. Perché? Forse perché ritengono che lo scopo ultimo sia giusto. Forse perché credono che avranno protezione se si limiteranno ad annuire mentre la moneta del nostro regno – il linguaggio – viene degradata al servizio di una lunga lista in continua evoluzione di cause giuste. Forse perché ci sono milioni di disoccupati in questo paese e loro si sentono fortunate ad avere ancora un lavoro in un settore in contrazione.
O forse è perché sanno che oggi difendere un principio nel giornale non attira consensi: equivale ad appendersi un bersaglio sulla schiena. Troppo avvedute per pubblicare su Slack, mi scrivono in privato parlando del “nuovo maccartismo” che ha messo le radici nel giornale di riferimento.
Sono tutti brutti segnali, specialmente per i giovani autori indipendenti e per i redattori particolarmente attenti a quello che devono fare per avanzare nella carriera. Regola uno: esprimi le tue idee a tuo rischio e pericolo. Regola due: non arrischiarti a commissionare un articolo che contraddica la narrazione. Regola tre: mai credere a un direttore o a un editore che ti invita ad andare controcorrente. Alla fine l’editore si piegherà al volere della folla, il direttore sarà licenziato o assegnato ad altra mansione e tu sarai abbandonato.
Per questi giovani autori e redattori, c’è una sola consolazione. Mentre posti come il Times e altre un tempo grandi istituzioni giornalistiche tradiscono i loro standard e perdono di vista i loro princìpi, gli americani hanno ancora fame di notizie corrette, idee vivaci e dibattito onesto. Entro in contatto con queste persone ogni giorno. Qualche anno fa lei disse che «una stampa indipendente non è un ideale liberal o progressista o democratico. È un ideale americano». L’America è un grande paese che merita un grande giornale.
Con tutto questo non nego affatto che alcuni dei giornalisti di maggior talento al mondo lavorino ancora per questo giornale. Lo fanno, cosa che rende questo clima illiberale ancor più straziante. Resterò come sempre una loro lettrice devota. Ma non posso più fare il lavoro per cui sono stata portata qui: il lavoro che Adolph Ochs [proprietario del New York Times dell’epoca] in quella famosa dichiarazione del 1896 descrisse così: «Rendere le colonne del New York Times un forum per la considerazione di tutte le questioni di pubblico rilievo, aprendole alla discussione intelligente da parte di tutte le sfumature dell’opinione».
L’idea di Ochs è una delle migliori in cui mi sia imbattuta. E mi ha sempre confortata la certezza che le idee migliori prevalgono. Ma le idee non possono prevalere da sole. Hanno bisogno di una voce. Hanno bisogno di essere ascoltate. Soprattutto, devono essere sostenute da persone che desiderino viverle.
Cordialmente,
Bari (qui)

E questo è un suo commento recente. È molto lungo, ma bisogna leggerlo per capire bene che cosa sta succedendo e verso quale baratro ci stiamo precipitando.

Bari Weiss: «Perché ho lasciato il New York Times e ora combatto la cancel culture»

Contro l’ortodossia illiberale della sinistra: nuovo j’accuse della giornalista che ha fatto scalpore dimettendosi dal New York Times in polemica con il conformismo del giornale

I miei amici liberal che vivono nell’America rossa confessano di evitare le discussioni su mascherine, Dominion [sistema per il voto elettronico accusato dai trumpiani di avere avuto un ruolo in presunti brogli a novembre, ndt], Ted Cruz, Josh Hawley, le elezioni 2020 e Donald Trump, per dirne solo alcune. Quando coloro che dissentono dalla maggioranza esprimono quello che pensano, ne pagano le conseguenze. Penso qui a un mio amico, lo scrittore conservatore David French, che per quattro anni ha sopportato una valanga di attacchi terrificanti a lui e alla sua famiglia per aver criticato l’amministrazione Trump, tanto da richiedere alla fine l’intervento dell’Fbi.
Ma sono due le culture illiberali che stanno divorando il paese. Lo so perché vivo nell’America blu, in un mondo inondato di borsoni NPR [National Public Radio, emittente ritenuta di sinistra, ndt] e di insegne da giardino che annunciano le credenziali di giustizia sociale della famiglia residente.
Nella mia America la gente che resta in silenzio non teme l’ira dei sostenitori di Trump. Teme la sinistra illiberale.
Sono femministe che credono che esistano differenze biologiche tra uomini e donne. Giornalisti che credono che il loro lavoro sia dire la verità sul mondo, anche quando non conviene. Medici il cui unico credo è la scienza. Avvocati che non scendono a compromessi sul principio per cui la legge è uguale per tutti. Professori che cercano la libertà di scrivere e di fare ricerca senza paura di essere denigrati. Insomma, sono centristi, libertari, liberali e progressisti che non sposano ogni singolo aspetto della nuova ortodossia dell’estrema sinistra.
Dopo che l’estate scorsa mi sono dimessa dal New York Times per l’ostilità del giornale alla libertà di espressione e di indagine, ho iniziato a ricevere quasi quotidianamente notizie da persone così. I loro messaggi mi sembrano come lettere inviate clandestinamente da una società totalitaria.
Mi rendo conto che possa apparire isterica. Vi chiedo dunque di esaminare qualche esempio tratto dalla mia casella di posta.
«Non avrei mai pensato di praticare il tipo di autocensura che applico adesso quando faccio le mie proposte ai direttori, ma oggi non ho quasi possibilità di fare altrimenti», scrive un giovane giornalista. «I giovani autori woke-scettici [il termine woke individua in generale i militanti delle varie cause sociali progressiste, ndt] devono aspettarsi la messa al bando e il ripudio se solo provano a deviare, anche minimamente, dalla sacra ideologia della wokeness».
«L’autocensura è la norma, non l’eccezione», racconta uno studente di una delle più importanti facoltà di legge del paese, scrivendo dalla sua email personale per timore di usare il suo account ufficiale dell’ateneo. «Io mi autocensuro anche quando parlo con alcuni dei miei migliori amici per paura che si sparga la voce». In pratica tutta la facoltà sottoscrive la medesima ideologia, continua lo studente. E così, confessa, «agli esami mi sforzo di scrivere risposte che rispecchino la loro visione del mondo anziché riportare le tesi migliori che conosco».
Viviamo nella società più libera della storia del mondo. Qui non ci sono i gulag che c’erano in Unione Sovietica. Formalmente non c’è alcun sistema di credito sociale come invece c’è in Cina. Eppure le parole che in genere associamo alle società chiuse – dissidenti, liste nere, double thinkers – sono esattamente quelle che balzano alla mente quando leggo i messaggi appena citati.
La visione liberale che abbiamo dato per scontata in Occidente dalla fine della Guerra fredda fino a solo cinque anni fa è sotto assedio oggi. È assediata a destra dalla rapida diffusione dei culti internettiani e delle teorie complottiste. Basta pensare all’onorevole Majorie Taylor Green, una che crede sfacciatamente a QAnon ed è appena stata eletta al Congresso.
A sinistra, il liberalismo è assediato da una nuova ortodossia illiberale che si è radicata dappertutto, comprese le stesse istituzioni incaricate di tenere in piedi l’ordine liberale. E l’arma più efficace di questa ideologia è la cancellazione. La cancellazione è utilizzata nel medesimo modo in cui le società antiche mettevano al rogo le streghe: per incutere paura nei cuori di quelli che stanno a guardare. Il punto è l’affermazione del potere. Mostrandoci che i prossimi potremmo essere noi, siamo costretti a conformarci e obbedire, restando in silenzio o magari offrendo noi pure il nostro legnetto da ardere.
Forse siete anche voi tra questa maggioranza che si auto-silenzia. È probabile che sia così, se ha ragione il biologo Bret Weinstein quando osserva che la popolazione si compone di quattro gruppi: i pochi che danno concretamente la caccia alle streghe, un ampio gruppo che si mette al seguito e un gruppo ancora più ampio che resta in silenzio. C’è anche un gruppo minuscolo che si oppone alla caccia. E quelli che stanno in quest’ultimo gruppo, «come per magia, diventano streghe».
Parlo a nome dell’ultima categoria. Consentitemi, in questo saggio breve, di provare a convincervi che ogni cosa che rende l’America eccezionale, ogni cosa che rende la civiltà degna di questo nome, dipende dalla disponibilità a impugnare un manico di scopa.
Sono nata nel 1984, il che mi situa nell’ultima generazione che ha visto la luce in America prima che esistesse l’espressione “cancel culture”. Il mondo in cui sono nata era liberale. Non nel senso fazioso del termine [liberal in inglese significa anche progressista, ndt], bensì nel senso classico e dunque più ampio del termine. C’era allora una diffusa visione liberale condivisa da liberal e conservatori, repubblicani e democratici.
Tale visione contava su alcune verità fondanti che parevano ovvie quanto l’azzurro del cielo: la convinzione che tutti sono creati a immagine di Dio; la convinzione che tutti sono uguali per questo; la presunzione di innocenza; una repulsione verso la giustizia sommaria; l’impegno per il pluralismo e la libertà di espressione, e per la libertà di pensiero e di fede.
Come ho ricordato altrove, questa visione del mondo riconosceva che ci sono interi ambiti della vita umana collocati al di fuori della politica, come l’amicizia, l’arte, la musica, la famiglia e l’amore. Era possibile che i giudici della Corte suprema Antonin Scalia e Ruth Bader Ginsburg coltivassero la migliore delle amicizie perché, come disse una volta lo stesso Scalia, certe cose sono più importanti dei voti.
Soprattutto, questa visione del mondo insisteva sul fatto che ciò che ci lega non è il sangue o la terra, ma la dedizione a un insieme condiviso di idee. Con tutti i suoi fallimenti, la cosa che rende grande l’America è che essa rappresenta il distacco dalla nozione, tuttora prevalente in tanti altri posti, per cui la biologia, il luogo di nascita, la classe sociale, il rango, il genere, la razza siano un destino. I nostri secondi padri fondatori, abolizionisti come Frederick Douglass, erano testimonianze viventi di questa verità.
Quella vecchia visione condivisa – ogni suo singolo aspetto – è stata travolta dalla nuova ortodossia liberale. Poiché questa ideologia si ammanta del linguaggio del progresso, tanti comprensibilmente si lasciano ingannare dal brand che si è auto-attribuito. Non fatelo. Essa promette giustizia rivoluzionaria, ma minaccia di trascinarci in un passato dove siamo tutti schierati uno contro l’altro secondo la tribù di appartenenza.
Il metodo principale di questo movimento ideologico non è costruire o rinnovare o riformare, ma abbattere. La persuasione è rimpiazzata dalla pubblica gogna. Il perdono è rimpiazzato dalla punizione. La pietà è rimpiazzata dalla vendetta. Il pluralismo dal conformismo; il dibattito dal de-platforming [divieto di fare intervenire in pubblico determinate personalità, ndt]; i fatti dai sentimenti; le idee dall’identità.
Secondo il nuovo illiberalismo il passato non può essere compreso nei suoi termini propri, ma deve essere giudicato attraverso la morale e i costumi del presente. L’educazione, secondo questa ideologia, non è insegnare alle persone come pensare, bensì dire loro cosa pensare. Tutto quanto sopra è il motivo per cui William Peris, docente alla UCLA [University of California, Los Angeles, ndt] e veterano dell’aeronautica, è stato sottoposto a procedimento disciplinare per aver letto in aula ad alta voce la Lettera dal carcere di Birmingham di Martin Luther King Jr. O per cui un distretto scolastico della California ha vietato Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain e Uomini e topi di John Steinbeck. O per cui il comitato di gestione delle scuole di San Francisco ha votato a favore della rinominazione di 44 istituti, compresi quelli intitolati a George Washington, Paul Revere e Dianne Feinstein – avete letto bene – a causa di vari peccati.
In questa ideologia, se non twitti il giusto tweet o non condividi il giusto slogan o non posti il giusto motto e la giusta foto su Instagram, la tua vita intera può essere rovinata. Se pensate che io stia esagerando, date un’occhiata alla vicenda di Tiffany Riley, la preside di una scuola pubblica del Vermont licenziata questo autunno perché ha dichiarato di sostenere le vite dei neri ma non l’organizzazione Black Lives Matter.
In questa ideologia, le intenzioni non importano un fico secco. Chiedete a Greg Patton. In autunno il professore di comunicazione aziendale alla USC [University of Southern California, ndt] stava facendo lezione in aula sulle “parole superflue” – come “um” e “like” e così via – per il suo corso di master. In Cina, ha osservato, «la classica parola superflua è “che che che”. In cinese sarebbe…», e ha pronunciato un termine cinese che suonava come un insulto razzista inglese.
Alcuni studenti si sono offesi e hanno scritto una lettera al decano della facoltà di economia accusando il loro professore di «negligenza e disprezzo». E hanno aggiunto: «Non dovremmo trovarci a combattere in aula per il nostro senso di pace e benessere mentale».
Invece di rispondere loro che le loro affermazioni erano follia, il decano si è arreso alla pazzia: «Per la facoltà è semplicemente inaccettabile l’utilizzo in aula di parole che possono emarginare, causare sofferenza e danneggiare la sicurezza psicologica dei nostri studenti». Patton è stato sospeso dall’insegnamento nel corso, e la sempre più elastica nozione di “sicurezza” è stata brandita, ancora una volta, come un’arma poderosa.
Il vittimismo, in questa ideologia, conferisce forza morale. «Penso, dunque sono» è sostituito da: «Sono, dunque so», e «so, dunque ho ragione».
In questa ideologia, tu sei colpevole dei peccati di tuo padre. In altri termini: tu non sei tu. Sei solo un mero avatar della tua razza o della tua religione. E il razzismo non riguarda più la discriminazione sulla base del colore della pelle di qualcuno. Il razzismo è qualunque sistema che consenta risultati diversi tra diversi gruppi razziali. Per questo le città di Seattle e San Francisco hanno rivisitato l’algebra perché razzista. Per questo, ancora, una Smithsonian Institution l’estate scorsa ha stabilito che il duro lavoro, l’individualismo e la famiglia sono caratteri “bianchi”.
In questa ideologia totalizzante, puoi essere colpevole per prossimità. Un imprenditore palestinese di Milwaukee, Majdi Wadi, è stato quasi ridotto sul lastrico quest’estate per i tweet razzisti e antisemiti scritti dalla figlia adolescente. Un calciatore professionista è stato licenziato a causa dei post di sua moglie. Ci sono centinaia di esempi simili. L’illuminismo, per dirla con il critico Ed Rothstein, è stato rimpiazzato dall’esorcismo.
Cosa forse più importante, in questa ideologia, la parola – il modo in cui si risolvono i conflitti nelle società civilizzate – può essere violenza, mentre la violenza, se esercitata dalle persone giuste perseguendo una giusta causa, non è affatto violenza.
È così che, in giugno, più di 800 miei ex colleghi del New York Times hanno dichiarato che un commento del senatore Tom Cotton li aveva messi in «pericolo», mentre la più celebrata giornalista della testata – ultima vincitrice del premio Pulitzer – ribadiva pubblicamente che saccheggi e rivolte sono «non violenza». Quella giornalista, creatrice del Progetto 1619 [colossale iniziativa editoriale del Nyt che mira a riscrivere la storia americana come storia di un impero fondato sullo schiavismo, ndt], continua a essere mitizzata. Intanto i redattori che avevano pubblicato il commento sono stati umiliati pubblicamente e allontanati dal giornale.
Si può dissentire dalla tesi esposta da Tom Cotton – il senatore invocava l’impiego della Guardia nazionale per mettere fine alle rivolte dell’estate – e insieme credere, come me, che non ci si può definire il quotidiano di riferimento e ignorare le opinioni di metà del paese.
Mi sono dimessa poche settimane dopo quell’episodio vergognoso, convinta che non ci fosse possibilità di rischiare intellettualmente in un giornale che si piega come una tenda davanti alla folla. Come ho scritto nella lettera di dimissioni, «sono tutti brutti segnali, specialmente per i giovani autori indipendenti e per i redattori particolarmente attenti a quello che devono fare per avanzare nella carriera. Regola uno: esprimi le tue idee a tuo rischio e pericolo. Regola due: non arrischiarti a commissionare un articolo che contraddica la narrazione. Regola tre: mai credere a un direttore o a un editore che ti invita ad andare controcorrente. Alla fine l’editore si piegherà al volere della folla, il direttore sarà licenziato o assegnato ad altra mansione e tu sarai abbandonato».
Il lettore scettico giustamente obietterà che le culture hanno sempre avuto dei tabù. Che ci sono sempre stati comportamenti o parole considerati inaccettabili. L’ostracismo ci accompagna fin dai tempi della Bibbia e la gogna è da tempo un modo per le tribù e le culture di conservare le usanze sociali importanti.
Tutto vero. Ma quella che chiamiamo cancel culture rappresenta una deviazione dai tabù tradizionali, in due modi.
Il primo è la tecnologia. Peccati che un tempo sarebbero rimasti confinati nella pubblica piazza o nel municipio locale ora sono a disposizione di tutto il mondo per l’eternità. In questa nostra era del Big Tech non esiste possibilità di trasferirsi in un’altra città e ricominciare, perché la nuvola di tutti i nostri post e simili resta sospesa per sempre sulla nostra testa.
Il secondo è che nel passato i tabù delle società erano in genere stabiliti attraverso una visione culturale diffusa. I tabù di oggi, invece, sono spesso idee radicali sospinte da una congrega di infervorati che tentano di ridefinire cosa sia accettabile e cosa dovrebbe essere evitato. È un gruppo che controlla quasi tutte le istituzioni che producono la vita culturale e intellettuale americana: di sicuro i media, ma anche l’istruzione superiore, musei, case editrici, squadre del marketing e della pubblicità, Hollywood, l’istruzione primaria e secondaria, le aziende tecnologiche e sempre più le funzioni risorse umane delle grandi imprese.
Non dovrebbe perciò sorprendere che un recente studio del Cato Institute ha rilevato che il 62 per cento degli americani dice di autocensurarsi. Più un gruppo è conservatore e più tenderà a nascondere le proprie idee: ammette di autocensurarsi il 52 per cento dei democratici, contro il 77 per cento dei repubblicani.
E per forza hanno paura. In un’era in cui la gente viene denigrata per cose trascurabili, lagnanze insignificanti e divergenze di opinione in un ambiente che si presume liberale e tollerante, chi oserebbe rendere noto il proprio voto per un repubblicano?
Ma nessuno entra in un gruppo per sentirsi male. Le persone entrano nei gruppi che le fanno sentire bene, che danno loro un significato, che offrono un senso di appartenenza. Motivo per cui così tanta gente della mia generazione e più giovane ancora è attratta da questa ideologia. Non credo che sia perché le manchi l’intelligenza o perché siano tutti fiocchi di neve.
L’ascesa di questo movimento è avvenuta sullo sfondo di grandi cambiamenti nella vita del paese: la lacerazione del nostro tessuto sociale, la perdita della religione e il declino delle organizzazioni civili, l’emergenza oppiacei, il collasso dell’industria, il trionfo di Big Tech, la scomparsa della fiducia nella meritocrazia, l’arroganza delle nostre élite, il succedersi di crisi finanziarie, un dibattito pubblico intossicato, il debito devastante accumulato dagli studenti, la morte della fiducia. È avvenuta in un contesto in cui il sogno americano sembra esaurirsi e le diseguaglianze della nostra presunta meritocrazia equa e liberale sono evidentemente distorte a vantaggio di alcuni e a danno di altri.
«Mi sono convertito perché ne avevo bisogno e vivevo in una società in disintegrazione assetata di fede». Così scrisse Arthur Koestler nel 1949 a proposito della sua infatuazione per il comunismo. Lo stesso si può dire di questa nuova fede rivoluzionaria.
Se vogliamo che le nostre giovani menti brillanti respingano questa visione del mondo, dobbiamo affrontare questi problemi perché senza questi malanni non avremmo avuto né Donald Trump né la rivoluzione culturale che sta trasformando dall’interno le più importanti istituzioni d’America.
Da qualche parte però dobbiamo cominciare e l’unico posto da cui possiamo partire è un appello al coraggio e al dovere.
È nostro dovere resistere alla folla in questa epoca di pensiero di massa. È nostro dovere dire la verità in un’epoca di menzogne. È nostro dovere pensare liberamente in un’epoca di conformismo.
Come ha detto perfettamente una volta il grande giudice americano Learned Hand, «la libertà si trova nel cuore degli uomini e delle donne; quando muore là dentro, nessuna costituzione, nessuna legge, nessun tribunale può fare granché per soccorrerla».
Tenere vivo lo spirito della libertà in un’epoca di illiberalismo strisciante è niente meno che il nostro obbligo morale. Dipende tutto da questo.

C’era una volta il principio “La mia libertà finisce dove comincia la tua”; oggi la mia libertà la fanno finire dove comincia la tua suscettibilità, le tue fisime, la tua permalosità, le tue paturnie, le tue fissazioni, i tuoi pregiudizi, le tue convinzioni, la tua credulità, i tuoi capricci, le tue bizze, le tue ossessioni, le tue ansie, le tue manie, le tue fobie, le tue paranoie, le tue velleità, le tue schifiltosità, i tuoi stereotipi, i tuoi pallini.
Ancora una piccolissima osservazione: Boghossian, cognome armeno; Weiss, cognome ebraico, e altri se ne trovano, in questa piccola coraggiosa squadra di resistenti: non sarà che chi è da sempre parte di una minoranza, in particolare minoranza spesso gratificata di speciali attenzioni, trova più facilmente nei propri geni la capacità di mettersi anche volontariamente in minoranza per opporsi a dittature e oppressioni?

barbara

SONO SEMPRE I MIGLIORI CHE SE NE VANNO

Questo per esempio è uno

La chiusura della mente americana

L’università ha scelto di sacrificare la ricerca in nome dell’ideologia

Pubblichiamo la lettera con cui il professor Peter Boghossian ha rassegnato le dimissioni dalla Portland State University

Gentile Susan Jeffords, Provost della Portland State University,

Le scrivo oggi per rasssegnare le dimissioni da assistente universitario di filosofia alla Portland State University.
Negli ultimi dieci anni ho avuto il privilegio di insegnare qui. I miei campi di specializzazione sono il pensiero critico, l’etica e il metodo socratico. Tengo corsi come “Scienza e pseudoscienza” o “Filosofia dell’educazione”. Ma oltre all’esplorazione dei filosofi classici e dei testi tradizionali, ho avuto modo di ospitare durante le mie lezioni contributi esterni di Terrapiattisti, apologeti del cristianesimo, scettici del cambiamento climatico e attivisti di Occupy Wall Street. Sono fiero del mio lavoro.
Ho invitato relatori del genere non perché fossi d’accordo con le loro opinioni. Ma proprio perché non lo ero. Da quelle conversazioni confuse e difficili ho potuto scorgere il meglio di ciò che i nostri studenti possono imparare: mettere in discussione le convinzioni altrui rispettando chi le professa, rimanere calmi in circostanze impegnative, addirittura cambiare idea.
Non ho mai creduto – né lo faccio ora – che l’obiettivo dell’istruzione fosse portare i miei allievi a conclusioni particolari. Al contrario, ho cercato di creare le condizioni per un pensiero rigoroso e di aiutarli a ottenere gli strumenti per cercare e approfondire le proprie conclusioni. È per questo che sono diventato un insegnante e amo insegnare.
Tuttavia, passo dopo passo, l’università ha reso impossibile questo tipo di indagine intellettuale. Ha trasformato un bastione della libertà di ricerca in una fabbrica di giustizieri sociali che hanno come soli input la razza, il genere, l’essere vittima. E come unici output il risentimento e la divisione.
Agli studenti della Portland State non viene insegnato a pensare. Al contrario, vengono addestrati a scimmiottare le certezze morali di alcuni ideologi. I docenti e gli amministratori hanno abdicato alla missione dell’università, che è la ricerca della verità, mentre fomentano intolleranza nei confronti di idee e opinioni diverse. Tutto questo ha creato una cultura della suscettibilità nella quale ora gli studenti hanno paura di parlare in modo onesto e aperto.
Nella mia esperienza alla Portland State ho avuto modo di notare abbastanza presto i segni di questo illiberalismo, che ora ha inghiottito l’accademia. Ho visto studenti che si rifiutavano di confrontarsi con punti di vista diversi. Mentre le obiezioni di docenti che mettevano in discussione le narrazioni accettate durante i corsi di educazione alla diversità, venivano respinte all’istante. Chi chiedeva su quali evidenze si fondassero le nuove politiche dell’istituto veniva accusato di microaggressione. E alcuni professori venivano giudicati intolleranti perché assegnavano testi canonici scritti da filosofi che, si dà il caso, erano europei e maschi.
All’inizio non capivo quanto tutto ciò fosse radicato. Pensavo che fosse concesso mettere in dubbio questa nuova cultura. Per cui ho iniziato a fare domande. Su quali evidenze si basa l’idea che i trigger warning (avvisi di contenuti traumatizzanti) e i safe space (luoghi sicuri per minoranze) contribuiscano davvero all’apprendimento? Perché la coscienza di razza dovrebbe essere la lente attraverso cui vediamo il nostro ruolo di educatori? Come abbiamo deciso che “l’appropriazione culturale” sia una cosa riprovevole?
Diversamente dai miei colleghi, ho chiesto queste cose ad alta voce e in pubblico.
Ho deciso di studiare i nuovi valori che stavano travolgendo Portland State e molte altri atenei. Valori che appaiono meravigliosi, come la diversità, l’uguaglianza e l’inclusione. Ma che potrebbero significare, in realtà, proprio il loro contrario. Più leggo le fonti primarie prodotte dai teorici di queste idee, più sospetto che le loro conclusioni riflettano i postulati di una ideologia anziché scoperte basate su evidenze scientifiche.
Ho cominciato a stabilire reti con gruppi di studenti che condividevano le stesse preoccupazioni e ho coinvolto relatori che esplorassero questi temi in chiave critica. Mi è diventato sempre più chiaro che i casi di illiberalismo cui avevo assistito negli anni non fossero stati eventi isolati bensì parte di un problema che riguardava tutta l’università.
Più esprimevo la mia opinione su questi temi e più subivo ritorsioni.
All’inizio dell’anno accademico 2016-2017, un ex studente mi ha denunciato e l’università ha avviato una indagine secondo il Titolo IX (il Titolo IX è parte di una legge federale che mira a «proteggere le persone da atti di discriminazione basati sul sesso in programmi educativi o in attività che ricevono assistenza finanziaria federale»). Il mio accusatore, un maschio bianco, aveva avanzato contro di me una caterva di accuse prive di fondamento sulle quali le regole dell’università mi impediscono, purtroppo, di dilungarmi. Ciò che posso dire è che i miei studenti, che venivano interrogati nel processo, mi riferirono che il titolare dell’investigazione aveva chiesto loro se sapessero qualcosa sul fatto che picchiassi mia moglie e i miei figli. Ci volle poco perché questa accusa terribile diventasse una voce diffusa in tutto il campus.
Con un’indagine per Titolo IX non c’è un regolare processo. Per cui non ho potuto avere accesso alle accuse specifiche, non ho avuto la possibilità di confrontarmi con il mio accusatore né l’opportunità di difendermi. I risultati sono stati rivelati nel dicembre 2017. Ecco le ultime due frasi del rapporto: «La divisione Global Diversity & Inclusion rileva che non ci sono prove sufficienti del fatto che Boghossian abbia violato le policy contro la discriminazione e le molestie. Si raccomanda che Boghossian riceva corsi di formazione sul tema».
Non solo non mi venivano chieste scuse per le accuse infondate. Ma l’investigatore mi disse che in futuro non mi sarebbe più stato possibile esprimere la mia opinione sui “gruppi protetti” o svolgere le lezioni in modo che la mia opinione al riguardo risultasse chiara. Una conclusione stramba per accuse assurde. Le università possono rafforzare il conformismo ideologico anche soltanto minacciando indagini del genere.
Alla fine mi sono convinto che la colpa fosse di quelle discipline corrotte che giustificavano deviazioni radicali dalla tradizione sia degli studi umanistici che della normale vita civile dei campus. C’era un bisogno urgente di dimostrare che studi moralmente di moda – non importa quanto fossero assurdi – potevano essere pubblicati. Ero sicuro allora che se avessi smascherato i difetti teorici di questa letteratura, avrei aiutato la comunità universitaria a evitare di costruire edifici su fondamenta tanto instabili.
Per questo nel 2017 ho co-pubblicato un paper (che era stato sottoposto a peer-review) intenzionalmente sconclusionato per prendere di mira la nuova ortodossia. Il suo titolo: “Il pene concettuale come costrutto sociale”. Una pseudo-ricerca, pubblicata su Cogent Social Sciences, sosteneva che i peni fossero prodotti della mente umana, responsabili del cambiamento climatico. Subito dopo, rivelai che l’articolo era una bufala, architettata per gettar luce sui difetti della peer-review e del sistema delle pubblicazioni accademiche.
Poco tempo dopo, vicino al dipartimento di filosofia, comparvero nei bagni svastiche con il mio nome sotto. Qualche volta anche sulla porta del mio ufficio. In una occasione accompagnate da un sacco pieno di feci. La nostra università è rimasta in silenzio. Quando ha agito, lo ha fatto contro di me, non contro chi perpetrava queste azioni.
Ho continuato a credere, forse in modo ingenuo, che se avessi smascherato il pensiero distorto su cui erano fondati i nuovi valori della Portland State avrei potuto risvegliare l’università da questa follia. Nel 2018 ho co-pubblicato una serie di articoli, tutti peer-reviewed, assurdi o moralmente ripugnanti in riviste accademiche che si focalizzavano sui temi della razza e del genere. In uno di questi sostenevo che ci fosse un’epidemia di stupri di cani ai parchi per cani e proponevo di mettere gli uomini al guinzaglio nello stesso modo in cui lo facevamo con i cani. Il nostro obiettivo era dimostrare che un certo tipo di “ricerca” non volesse la ricerca della verità ma alimentare lagne sociale. Questa visione del mondo non è scientifica e nemmeno rigorosa.
Gli amministratori e i docenti erano così irritati dai paper che pubblicarono un pezzo anonimo nel giornale degli studenti e l’università ha avviato un procedimento formale nei miei confronti. L’accusa? «Cattiva condotta scientifica», basata sulla premessa assurda che i redattori delle riviste che hanno accettato i nostri articoli intenzionalmente folli fossero «soggetti umani» usati a fini sperimentali. Mi hanno trovato colpevole per non avere ricevuto l’approvazione per la sperimentazione su esseri umani.
Nel frattempo a Portland State l’intolleranza ideologica ha continuato a crescere. Nel marzo 2018 un professore di ruolo ha bloccato una discussione pubblica che stavo tenendo con la scrittrice Christina Hoff Sommers e i biologi evolutivi Bret Weinstein e Heather Heying. Nel giugno 2018, qualcuno ha azionato l’allarme anti-incendio durante una conversazione con il famoso critico culturale Carl Benjamin. Nell’ottobre 2018, un attivista ha staccato i cavi del microfono per interrompere un dibattito con l’ex ingegnere di Google James Damore.
L’università non ha fatto nulla per fermare o affrontare questi atteggiamenti. Nessuno è stato punito o castigato.
Per me, gli anni successivi sono stati segnati da molestie continue. Trovavo volantini nel campus in cui ero raffigurato con il naso di Pinocchio. Alcuni passanti mi hanno sputato e minacciato mentre andavo a lezione. Sono stato informato dai miei studenti che i miei colleghi dicevano loro di evitare i miei corsi. Naturalmente, sono stato sottoposto a nuove indagini.
Vorrei poter dire che ciò che descrivo non abbia avuto effetti a livello personale. Ma ha avuto esattamente quelli ai quali puntava: una vita lavorativa che diventava sempre più intollerabile, senza nemmeno la protezione dell’incarico di ruolo.
Non si tratta di me, comunque. Si tratta del tipo di istituzioni che vogliamo e dei valori che scegliamo. Ogni idea che ha fatto crescere la libertà degli esseri umani è sempre stata condannata all’inizio, senza eccezioni. In quanto individui, spesso sembriamo incapaci di tenere a mente questa lezione. Ma è esattamente il motivo per cui esistono queste istituzioni: ricordarci che la libertà di mettere in discussione le cose è un diritto fondamentale. E le istituzioni educative dovrebbero ricordarci che questo diritto è anche un nostro dovere.
L’università di Portland State non è riuscita a ottemperare a questo suo dovere. Nel farlo, è venuta meno ai suoi doveri non solo nei confronti dei suoi studenti ma anche del pubblico che la sostiene. Se sono grato per l’oppotunità di aver potuto insegnare per oltre un decennio, mi è ora chiaro che questa istituzione non è un luogo adatto per le persone che vogliono pensare in modo libero ed esplorare idee diverse.
Non è l’esito che auspicavo. Ma mi sento moralmente obbligato a fare questa scelta. Per dieci anni ho insegnato ai miei studenti l’importanza di vivere secondo i propri principi. Uno dei miei è quello di difendere il nostro sistema di istruzione liberale da coloro che cercano di distruggerlo. Chi sarei mai se non lo facessi?
Peter Boghossian, qui.

Questo per esempio è un altro.

“Questo marciume di cancel culture ci porterà a smettere di insegnare Beethoven”

La lettera di dimissioni dall’università di un famoso musicologo inglese. “Non sono ottimista, si muovono tutti al passo dell’ideologia del nostro tempo. Io me ne vado, disgustato”

“Il musicologo che si è dimesso per protesta contro la cancel culture”. Così il Telegraph oggi racconta la vicenda di Paul Harper-Scott, che ha insegnato per 15 anni storia e teoria della musica all’Università di Londra. Fino a oggi. La sua lettera di dimissioni segue quella, pochi giorni fa, del professor Peter Boghossian dall’Università di Portland, Stati Uniti, a causa dello stesso clima. Quattro anni fa si era dimesso un altro docente, Bret Weinstein, dopo una campagna di intimidazione. Poi le dimissioni dal New York Times della giornalista Bari Weiss. Quello di Paul Harper-Scott è un altro documento che mostra quanto il politicamente corretto, iniziato come una pagliacciata ideologica, sia diventato una minaccia tremendamente seria. Una musica che ormai fa marciare al nuovo passo dell’oca.

***

“Perché ho lasciato l’università”

di Paul Harper-Scott

Dopo sedici anni di lavoro nel dipartimento di musica della Royal Holloway, Università di Londra, quest’estate ho deciso di lasciare il mondo accademico e iniziare una seconda carriera. Nel dipartimento di musica non avrei potuto essere benedetto da un ambiente più amichevole e stimolante in cui lavorare e i molti studenti a cui ho insegnato, in particolare quelli di cui ho supervisionato i dottorati, mi hanno fatto sentire che il mio lavoro valeva qualcosa in termini umani, e ne conservo il ricordo. Ma nonostante questo, sono contento di lasciarmi tutto alle spalle.
La mia decisione ha sbalordito molte persone e questa nota è un tentativo di chiarire il mio ragionamento. Il mio progetto di lasciare il mondo accademico era in preparazione da molto tempo e le ragioni sono interamente intellettuali. Sono entrato nella professione da outsider e immaginavo ingenuamente gli accademici come venivano presentati nei romanzi e nei programmi TV: piuttosto goffi e fuori dal mondo, ma sempre impegnati nella ricerca della verità, che non si fidano mai di un ‘fatto’ banale senza sottoporlo al più serio scrutinio scettico. Non era vero.
La breve spiegazione del motivo per cui ho lasciato il mondo accademico è che ne sono rimasto profondamente deluso. È un posto pieno di persone generalmente molto ben intenzionate, ma nel complesso non coraggiose, non disposte a seguire la verità ovunque essa conduca. Ci sono, naturalmente, molti musicologi che sono tutto ciò che avrei potuto sognare che sarebbero stati, e molti di loro, spero, continueranno a essere miei amici. Ma sanno bene quanto me che c’è del marcio in Danimarca.
Metterei il problema in questo modo (kantiano): ho supposto erroneamente che le università sarebbero state luoghi critici, ma stanno diventando sempre più dogmatici.
I dipartimenti musicali potrebbero smettere di insegnare la musica di Beethoven, Wagner e altri (a Oxford i musicologi lo stanno già apertamente dicendo), nella convinzione (francamente folle) che così facendo miglioreranno in qualche modo le attuali condizioni delle persone economicamente, socialmente, sessualmente, religiosamente o razzialmente svantaggiate. O i dipartimenti di musica potrebbero continuare a insegnare la musica di Beethoven, Wagner e altri, ma usare quella musica per offrire intuizioni intellettualmente critiche sulle strutture sociali, politiche, economiche, legali e di altro tipo del mondo in cui sono state scritte.
Negli ultimi anni, il modo di pensare dogmatico, che comporta l’umiliazione pubblica, l’assenza di piattaforme e i tentativi di licenziare gli studiosi, è diventato endemico. Ora, troppi studiosi di scienze umane si muovono al passo dell’ideologia generale del nostro tempo, facendo eco dogmaticamente alle opinioni dei politici, dei media e degli affari. Non sono ottimista.
L’attuale marciume potrebbe produrre alcuni buoni risultati che non posso prevedere. O potrebbe non essere così. A ogni modo, nel 2021 sentivo che non volevo passare la seconda metà della mia vita a lottare in un ambiente acritico. Come dice Coriolano (in un momento coraggioso e prima della sua brutta fine), ‘c’è un mondo altrove’.
Giulio Meotti

E meno male che ancora rimane qualcuno capace di vedere che il re è nudo e con il coraggio di dirlo. Proseguo domani – per non allungare troppo il post – con un altro drammatico documento.

barbara