FUOCHI D’ARTIFICIO

Dato che i fuochi d’artificio quest’anno sono stati vietati (poi li hanno fatti lo stesso – più che giustamente, direi – ma facciamo finta di no), ve ne regalo io un po’. Con annesso ricordo d’infanzia, particolarmente significativo dato che mi ha poi accompagnata per tutta la vita.

Dovevo avere tre o quattro anni, e c’erano i fuochi d’artificio in Prato della Valle. Mi ci aveva portata mia madre insieme a mia zia; loro volevano avvicinarsi, ma a me il rumore provocava dolore alle orecchie, che evidentemente mi erano state date in dotazione piuttosto delicate, e volevo fermarmi, ma lei non ci ha creduto che avessi male, era convinta che avessi paura, e per “insegnarmi” a non averne, ha continuato a portarmi avanti, sempre più avanti, ho tentato di ripararmi le orecchie con le mani e allora mi ha stretto forte il polso, ordinando a mia zia di fare altrettanto con l’altro, un passo, un altro passo, io urlavo dal dolore e l’aguzzina spietata, implacabile, inesorabile, con quella sconfinata crudeltà che solo una madre è capace di produrre senza battere ciglio e senza, poi, l’ombra di un rimorso, ancora un passo, ancora uno fino ad arrivare proprio sotto dove li sparavano, e lì mi ha costretta a rimanere per tutta la durata dei fuochi, indifferente alle mie urla disperate.

La devastazione provocata dal massacro operato sulle mie orecchie si è purtroppo rivelata pesantissima e irreversibile (ho letto che il rumore provocato da quei giocattolini di gomma col fischietto dentro che si aziona premendo il giocattolo, azionati a un metro di distanza da un bambino di un anno, è già sufficiente a provocare danni irreversibili): oltre all’udito diminuito, ho avuto sette otiti (tre da una parte e quattro dall’altra) e una foruncolosi, ossia dei piccolissimi foruncoli sul timpano, durata ininterrottamente quattro anni, dai venti ai ventiquattro, quattro anni con la febbre e coi dolori; mi hanno fatto perfino le radiazioni al cobalto: ci curavano il cancro, ma la mia foruncolosi non guariva. Poi  le orecchie sono rimaste delicatissime: se dormendo resto mezz’ora girata dalla stessa parte mi sveglio urlando dal dolore, freddo e vento, anche modesti, mi causano dolori acutissimi, spesso mi fanno male anche senza alcuna causa apparente. E sono patologicamente sensibile al rumore, già il vocio di un ristorante affollato mi provoca una vera sofferenza fisica, oltre a un nervosismo che sfocia ben presto in crisi isterica – e non entro assolutamente in bar ristoranti e pizzerie con la musica. E ho notevoli problemi col telefono, col quale la voce mi entra direttamente nell’orecchio.

Adesso finalmente posso guardare questo meraviglioso prodigio dell’ingegno umano, perché li fanno sulla spiaggia e io li guardo dal mio balcone, e il livello di rumorosità è sopportabile. E poi su youtube, perché il volume lo regolo io.

Suggerisco di guardarli direttamente su youtube (su pc, non su tablet e meno che meno sul cellulare) in modalità schermo intero.

Ma saranno poco carini quegli spermatozoi che si fanno strada su, su, su, fino a raggiungere l’obiettivo?

(Ecco, qui ho dovuto ridurre l’audio quasi a zero perché le urla degli spettatori sono a un livello che non sono assolutamente in grado di reggere, oltre ai battimani, vicinissimi alla macchina da presa)

E se avete ancora un po’ di tempo, beccatevi quelli freschissimi di Dubai.

barbara

AGGIUNTA POSTUMA

Perché ricordarli tutti in una volta non è mica possibile. E dunque ripartiamo.

Sulla schiena, al di sotto della spalla destra, ho una vistosa cicatrice, in corrispondenza dell’intervento per asportarmi una cisti di dimensione di poco inferiore a quella di un uovo, e quindi oltre alla cicatrice c’è anche la buca dove il chirurgo (la boldrina probabilmente direbbe la chirurga) ha scucchiaiato un bel po’ per asportare tutto. E dunque la prima volta che mi spoglio per fare il tecar alla schiena vede la cicatrice, vede la buca e dice: “Ah, ti sei fatta togliere un neo”.
Le racconto che a distanza di oltre tredici anni e mezzo da quando ho smesso di fumare, mi capita ancora piuttosto spesso di sognare di fumare, e mentre fumo – ben consapevole del fatto che avevo smesso – un po’ mi sento in colpa, ma mi sento anche tanto tanto tanto felice. Allora lei a sua volta mi racconta che all’inizio di questo suo percorso formativo si era occupata anche di alimentazione, trovando le esperienze di quelli che una volta la settimana fanno un giorno di “digiuno terapeutico” (che un digiuno possa avere qualcosa di positivo non ci credo neanche morta, ma d’altra parte io non credo neanche alle scie chimiche, il che dimostra che sono del tutto irrecuperabile, e quindi è inutile provare a discutere con me) a scopo depurativo, e una volta ha voluto provare: la mattina ha fatto colazione alle otto, e poi per 24 ore solo acqua, e durante tutta la notte ha sognato panini traboccanti di prosciutto e ogni sorta di cibarie. Io dico che, a parte il fatto che non ci credo, non potrei comunque digiunare, perché dopo un certo tempo che non introduco cibo, se non mangio svengo. Mangi frutta e verdura? chiede. Io mangio di tutto, dico, carne pesce uova latticini e poi sì, anche frutta e verdura. No, dice, è che questa cosa di reggere poco senza mangiare succede a chi mangia soprattutto carboidrati. Ah no, dico, quello non c’è pericolo: la pasta la mangio molto raramente, il pane praticamente mai… I carboidrati sono gli zuccheri, dice perentoriamente, e sono nella frutta e nella verdura (col cazzo, cocca: i carboidrati sono AMIDI e zuccheri, e si trovano soprattutto nei cereali. E meno male che hai fatto un corso di nutrizionismo – altra “specialità” di recente invenzione, con laureati in biologia che si improvvisano “nutrizionisti” e pretendono di sostituire i dietologi, che sono medici e sanno come funzionano gli organismi, e non solo le cellule). Comunque mangi più frutta e verdura che carne, no? chiede – ma praticamente afferma. Perché voi conoscete molta gente che mangia più carne che frutta e verdura? E quelli che digiunano periodicamente, per ragioni religiose o pseudo-terapeutiche, tutti carnivori assatanati che si strafanno quotidianamente di fiorentine pranzo e cena?
Da oltre trent’anni soffro di sciatalgia; da circa quattro-cinque anni è diventata molesta; da circa un anno e mezzo è diventata disperante. Adesso, fra infiltrazioni e laser, la situazione è abbastanza sotto controllo. Senonché domenica scorsa si è improvvisamente scatenato un attacco micidiale: dolore lancinante ventiquattr’ore su ventiquattro in qualunque posizione, impossibilità di fare praticamente qualunque movimento, estrema difficoltà a camminare, e solo zoppicando fortemente e per tratti brevi, una situazione veramente drammatica. Purtroppo il lunedì sono partita per Milano con l’illusione che si trattasse comunque di una cosa momentanea, e quindi non adeguatamente rifornita di cose utili, e sono stati tre giorni di tormento. Il mercoledì pomeriggio finalmente, rientrata a casa, prendo l’ultimo farmaco prescrittomi dall’anestesista, che nel giro di meno di un’ora mi ha significativamente ridotto il dolore, e senza effetti collaterali, questa volta. Poi vado a fare fisioterapia, e devo avvertirla che, pur migliorata rispetto a poche ore prima, ho però ancora una mobilità ridotta per cui non posso fare la posturale (e mentre mi metto in posizione per il tecar all’anca, per “aiutarmi” mi prende la coscia e comincia a tirare, io urlo “ahi ahi ahi no no no lascia lascia lascia” e più io urlo e più lei tira e più lei tira e più io urlo e più io urlo e più lei tira…) Comunque. Al momento di uscire mi trattiene ancora un momento per dirmi: “La sciatica comunque è tutta questione di postura: stacci attenta”.

Niente, un circo.

barbara

E OGGI UN’ALTRA

Oggi pomeriggio sono andata a fare l’ultima infiltrazione
infiltrazioni
– che insomma sì, c’è ben di peggio nella vita e io sono, ahimè, la prima a saperlo, però un bel po’ di male lo fanno anche loro, diciamolo – e quindi è davvero una bella cosa che siano finite. Senza contare che il giorno in cui la faccio poi devo stare a riposo quasi assoluto, che anche se io sono una che non fa praticamente niente, però quando sai che non puoi è proprio la volta che ti viene una gran voglia di portare su in soffitta quella roba – pesantissima! – che per il momento non ti serve, e arrampicarti sulla scala per sistemare quella cosa, e magari andare finalmente in spiaggia a farti una bella nuotatina e insomma, una gran palla. Ma non era di questo che volevo parlare, bensì del fatto che, avendo finito il ciclo, ho anche pagato. E ho pagato ESATTAMENTE LA METÀ di quello che mi costavano a Brunico. Di spendere di meno me lo aspettavo, ma la metà proprio no. Poi prima che uscissi il dottore mi ha detto che lui dopo 20-30 giorni dalla fine della terapia fa una visita di controllo gratuita, per verificare i risultati a distanza.
Ecco: evviva il trasferimento, evviva il cambiamento, evviva il sud (sì lo so, c’è gente che passa di qua che è pronta – non a torto – a spernacchiare sonoramente il “mio” sud, ma per me è proprio sud profondo, praticamente alla periferia di Città del Capo)!

Poi da alcune conoscenze fatte proprio in questi giorni ho saputo di un bravissimo fisioterapista-posturologo a cui penso di rivolgermi dopo il controllo, perché mi risolva gli ultimi residui di disturbi, in modo da rimettermi in sesto proprio per bene e tornare come nuova.

barbara

PICCOLO POST AUTOREFERENZIALE

Aggiornamento sciatica

Ieri ho fatto la risonanza magnetica (a pagamento, se no l’avrei fatta a ottobre). È risultato che, oltre all’artrosi, che già sapevo di avere da vent’anni, ho anche due ernie del disco, una delle quali è quella che mi schiaccia il nervo sciatico mentre l’altra, finalmente adesso lo so, schiaccia il nervo pudendo che in determinate posizioni mi provoca dolori talmente violenti da portarmi quasi allo svenimento. Ecco. Domani chiamerò un chiropratico che sta in un’altra città però è comodo anche col treno e sento se mi può trattare in tempi brevi (perché il dolore, che continua ad aumentare di giorno in giorno, è diventato ormai intollerabile). Altrimenti chiamerò un anestesia dell’ospedale che privatamente si occupa di terapia del dolore per farmi fare delle infiltrazioni e poi con calma andrò anche a fare, in un secondo momento, la manipolazione per sistemare almeno un po’ la roba fuori posto. Eccheppalle però.
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barbara

E ALLE SEI DI MATTINA

Saltare in macchina e correre al pronto soccorso a farmi cucire uno squarcio di una decina di centimetri, largo uno e profondo altrettanto. Le infermiere quando l’hanno visto sono inorridite, e anche il medico, in pratica l’unica a non lasciarsi impressionare sono stata io. Ho discretamente mugolato quando mi ha disinfettata e quando mi ha infilato l’ago per l’anestesia, ma direi che tutto sommato sono stata piuttosto brava. Il dottore ha detto che è una brutta posizione, che si cicatrizzerà male; ho detto va bene, mi rassegnerò a rinunciare a partecipare al concorso per modelle. Vabbè, adesso torno a stendermi a letto col ghiaccio, tanto più che l’effetto dell’anestesia è completamente esaurito. E domani mattina alle sette, di nuovo all’ospedale per l’operazione. Uffa però.

barbara

NUNTIO VOBIS GAUDIUM MAGNUM

E cioè che il mio ginocchio sinistro, dopo 18 giorni, ha finalmente smesso di sanguinare. Il destro ancora no, ma insomma non si può avere tutto dalla vita. Le gambe, nel frattempo, sono arrivate ad avere più colori di una foresta in autunno, e se non fosse che sono le mie, e che per lavarmi asciugarmi e vestirmi le devo toccare, il che ogni volta mi fa cacciare una discreta dose di strilli, sarebbe anche divertente. Poi grazie all’ortopedico strafigo ho finalmente scoperto perché il naso solo a guardarlo mi fa urlare: perché nel corso del mio incontro con l’asfalto si è rotta la cartilagine. Smanettando un po’ nei punti in cui faceva un po’ meno male, sono riuscita a mandare un paio di pezzi a incastrarsi nel punto giusto, ma mi rimangono ancora un po’ di bitorzoli dolorosissimi (ed è abbastanza impressionante toccarmi il naso e sentire crac crac). E restano i problemi neurologici, e per la visita devo ancora aspettare più di due settimane, ma insomma, si sopravvivrà anche a questo, spero. In compenso ieri per la prima volta mi sono arrischiata a uscire senza bastone. Certo, resto ancora parecchio impedita, e per consolarmi della mia scarsa possibilità di movimento, mi consolo guardando muoversi gli altri.

barbara

GLI ARRESI

I sommersi, avrebbe forse detto qualcuno: coloro su cui troppo si è accanita la vita, fino a stroncarne ogni residua energia, ogni residua resistenza, ogni residua capacità di continuare a combattere. Coloro che troppo hanno dovuto lottare, e alla fine non ce l’hanno più fatta. Sullo sfondo, una guerra di cui, a differenza di altre, non si parla praticamente mai: quella di Korea (qui, per chi desiderasse informarsi); una guerra, come tutte le guerre, col suo carico di orrori – e il prezzo più alto finiscono sempre per pagarlo i più innocenti. E sullo sfondo dello sfondo un’altra vicenda di  cui troppo poco si parla: la presenza giapponese in Cina, le efferatezze e le crudeltà oltre ogni limite immaginabile imposte alla popolazione (se ne era dato qualche cenno qui). E la vita che dopo, dopo ciò che è stato fatto e ciò che è stato subito, dopo ciò che è stato impedito e ciò che non è stato possibile impedire, dopo che si è sbagliato e se ne è pagato il prezzo – e forse il prezzo era troppo alto, ma non siamo mai noi ad avere voce in capitolo, quando si tratta di stabilire i prezzi – la vita, dicevo, che dopo si continua a vivere, non si sa se davvero meriti di essere chiamata vita. E tuttavia bisogna viverla fino in fondo, fino al resoconto finale, quando tutti i nodi verranno al pettine e si sarà costretti, quantomeno, a guardarli in faccia.
L’ho comprato per sbaglio, questo libro, per via di una serie di malintesi, e scelto a caso. E mai caso e sbaglio sono stati più fortunati, perché è un libro bellissimo, da assaporare pagina per pagina, riga per riga, parola per parola, sillaba per sillaba. Tragedia per tragedia e riscatto per riscatto.

Chang-Rae Lee, Gli arresi, Mondadori
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barbara

NON FINITO

Ogni mattina preparo i miei abiti. Li distendo sul letto come si fa con i morti. Gli abiti di sempre, camicia bianca, giacca e pantaloni neri, cravatta nera. Un fazzoletto, bianco. Calze nere. Una kippà, nera. Fuori dai vetri intanto corrono via i mesi, se ne vanno lentamente le stagioni. Giorni di pioggia, giorni rotolati di vento ma questi abiti mi rimangono addosso come la pelle al soldato. Modè, berakot, ogni mattina. Sul letto rimane un fazzoletto bianco. Mi servirebbe, per certo, ma io sono un uomo in parte, inconcluso. Forse ogni ebreo lo è o meglio forse, lo dovrebbe essere.

Se mi dimenticherò di te Gerusalemme, possa la mia destra rimanere paralizzata, possa la mia lingua attaccarsi al palato. Ogni giorno della vita mi sono privato, impoverito, completato appunto; mi sono reso incompiuto, di lutto e nel pianto.
C’è un aneddoto hassidita che ricordo spesso a me stesso; racconta di un vecchio che lamentava straziandosi, e piangeva come chi non sa riannodarsi alla vita, ed a questo aggiungeva una figura miserevole, cencioso, polveroso, e senza denti. – Di che piangi- gli chiese un rabbino che passava di lì. – Piango per la distruzione del Tempio – rispose il gemebondo. – Meglio sarebbe tu piangessi peri tuoi denti! –
Ah, ben lo so, ma a me cosa manca? Ho ancora tutti i denti io. Io lavoro, mi considero di discreta salute, non mi lamento certo; sono stato sposato ho avuto una figlia ora lontana, nascosta in una vita altrove. Fuori dalla finestra spio la gente camminare e mi figgo nei loro pensieri. Leggo le loro miserevoli commedie del quotidiano, il daffare del sopravvivere, la fatica di una vita scomposta perché lontana dalla nostra legge; e continuano. Continuano a vivere. Anche senza D-o, lontani da D-o o scivolati nelle esecrabili eresie dei millenni.
Io ogni mattina abbandono quel fazzoletto sul letto, testimone muto del dolore antico, della yod mancante; e porto sulle spalle quest’abbozzo che ho chiamato vita e che presto avrà compimento.
Da sempre lascio sul desco un cibo; domani lo mangerò con altro cibo ed altro lascerò al giorno successivo. Ch’io mai mi alzi da tavola col piacere della sazietà. Così sono io, non finito. Né mai ho voluto condividere con altri questo mio segreto proposito di manchevolezza; serbato anche alla famiglia, quando famiglia c’era fra queste mura. La bambina rideva da una stanza all’altra correndo e Rachele custodiva il suo giuoco. Rachele.
Se ne è andata molti anni fa. Chiese il divorzio ed io lo concessi. – Non voglio trascinare la mia vita con quest’uomo triste, come un apostrofo. – disse; ed io che pur compresi il senso del suo lamentare, non ne feci altra creanza, anzi la lasciai andare, la scorsi camminare seguendo il muro della cantoria verso il giardino dove partivano i treni e lì partì con loro.
Mi sentii mutilato nel profondo di questo sudario che ostinatamente continuo a chiamare anima e resi al profondo la porzione di me.
Da questa finestra vedo ancora il muro della cantoria, ricordo si fermò a calzare una scarpa appoggiando la mano destra alle pietre. In quel momento si voltò, per un attimo, sembrava triste, proprio come me.
Mia figlia è lontana, oltremare, – Meglio frangere i sogni su qualche scoglio, che contare il porfido che dalla casa porta alla piazza e dalla piazza al Tempio -, mi diceva.
Così sono questi tigli, nessun legame con la tradizione.
– Non credo, semplicemente non credo. – e in quel suo vociare mi confusi e non ebbi risposte da dare, se non un ostinato silenzio.
Così quel giorno accompagnai la sua corsa con la mia preghiera. Per quanto possa servire correre. Quando vidi lontano il suo profilo disfarsi nel caldo della strada salii il fresco delle scale. Spezzai una fetta di pane in due parti, una per mia figlia infelice d’esilio, l’altra per me. Mia figlia che dall’esilio non ha mai fatto ritorno. Io no davvero, non sono come loro. Io tornerò a Sion, da dove sono venuto.
Senza occhi né mani, portatore umile di pietre e di calce. Ogni mattina preparo i miei abiti. Talled, tefillin. Mi ricongiungo con le vene al sacro, con il cuoio mi lego al Signore. E se questa carcassa fu abituro al dolore ebbene io del dolore me ne privai, ricacciandolo nel profondo, da dove emerse come materia infetta per sottomettermi. Rachele! Rachele, ti ho mutilata dalle mie giornate, rescissa come uno stolone, lasciata a fecondare altre terre, senza nemmeno bagnarti della mia rugiada.
Brindo col mio vino, in silenzio, alla tua vita gloriosa nel mondo nuovo, mentre qui gli anni trascorrono senza mutamenti.
Io sono qui mancante a me di me, riparo vetri con carta pergamina e forse oggi sembreresti anche tu una ulcerata e stanca oleografia.
A volte mancano i giorni, lasciati a macerare altrove, che qualcuno viva d’avanzo al mio ritrarsi. Così mi faccio povero di vanto, ricco d’ogni lascito.
E figlia senti, tu che da lontano, pensi tuo padre grigio mestatore di pagine, sopravvissuto per celia ai secoli, considera ora ciò che tornerai, quando le ventidue lettere di te avranno compiuto loro scrittura.
Io per mestiere traduco. Trasformo la parola viva in lingue morte. Mi faccio interprete di un futuro tetro, il solco nero nella neve e guardo il muro della cantoria e la finestra con le colonnette ritorte, dove fuggiva il coro per l’aria grigia d’autunno. E scrivo, e colo questo miele nero che mi fa dolce ed aspro e qui deliro, privato a volte della mia ragione.
Eppure a volte, nelle ore quiete, quando la luce del giorno si spegne sulle carte, sugli inchiostri luccicanti, mi rannicchio nel manto, e lascio che i fantasmi vengano a vegliare il mio riposo; e chiedo loro dei paesi lontani, e delle frenesie dei loro piccoli mondi, delle attese che concedono alla pace, dell’anime sospese, e con pietà, come si conviene, mostro loro l’immutabile tenacia del cosmo.

Israel Eliahu

Questo fa parte di quelli che io chiamo i suoi racconti onirici. Che non sono da penetrare con i neuroni, ma da lasciar penetrare nelle proprie cellule, a poco a poco, rilettura dopo rilettura, fino a farne parte integrante di sé. E allora sarà tutto chiaro. Perché è con la pelle, con la carne, con il sangue, con le ossa, e non con le circonvoluzioni cerebrali, che possiamo percepire il dolore altrui.
Shabbat shalom

barbara

QUANDO IL CUORE SANGUINA

«Certamente sono stupito e profondamente addolorato da quello che leggo sulle vicende vaticane». Lo dice Mario Monti nell’intervista a Famiglia Cristiana a proposito delle recenti vicende che ruotano intorno ai «corvi» in Vaticano.
«Sono addolorato – spiega il presidente del Consiglio – perché, in sé, sono vicende dolorose. Ma anche perché penso, senza poter avere la minima idea, ovviamente, né compete a me di averla, sui fatti, al moltissimo dolore che questo getta, almeno temporaneamente, su molte persone. E al dolore che questo ha provocato alla persona e nel cuore del Santo Padre. Pur essendo la persona e il cuore di grande solidità. E – rileva ancora Monti – non solo di grande dolcezza». (qui)

Profondamente colpita da sì straziante dolore, e non essendovi al momento sul pianeta Terra altre fonti di dolore su cui riversare le mie cospicue doti di sensibilità e simpateticità, partecipo con tutta me stessa al terribile dolore del cuore del papa e a quello – per interposta persona e per la proprietà transitiva dei vasi comunicanti che come la corrente alternata vanno avanti e indietro e poi come le parallele all’infinito finiscono per incontrarsi – del nostro amato premier, e invito tutti i miei amici a fare altrettanto, che oltretutto lo sapete benissimo che partecipando al dolore del papa si va in paradiso.

N.B.: ho corretto tre errori di ortografia contenuti nel testo, non so se presenti già nell’intervista su Famiglia Cristiana e riprodotti nel presente articolo con copia/incolla, o se originale produzione dell’anonimo estensore dell’articolo.

barbara