SALVATI DA ISRAELE 4

L’ultima, naturalmente, è la strepitosa missione del Mossad in Iran, con il trafugamento dei documenti più segreti nel posto più segreto sorvegliati dai sorveglianti più attenti e professionali, da affiancare all’incredibile missione di Entebbe (uno, due, tre, quattro), alla cattura di Eichmann in Argentina, all’eliminazione degli autori della strage di Monaco. Più tutte quelle di cui non sappiamo niente, e chissà quante ce ne sono.

Il blitz perfetto del Mossad in Iran. In una notte rubati i segreti nucleari

Svelatala la missione con cui gli 007 israeliani hanno messo le mani sull’archivio di Teheran.

Mezza tonnellata di documenti e fotografie, una montagna di materiale cartaceo da trasportare dall’Iran a Israele, due Paesi a un passo dalla guerra, con i Guardiani della rivoluzione che avevano fiutato l’operazione ed erano alle calcagna degli agenti del Mossad. È questo l’aspetto più spettacolare, da film di spionaggio della Guerra fredda, del colpo che ha permesso ai servizi israeliani di mettere le mani sull’archivio segreto del programma nucleare iraniano. Una mole di dati che dimostrano, secondo il premier Benjamin Netanyahu, come l’Iran abbia mentito alla comunità internazionale e quindi non possa essere creduto neppure ora.
Fin dal 2015, dalla firma dell’accordo sul nucleare che ha portato alla fine della maggior parte delle sanzioni occidentali, il Mossad era in azione a Teheran per trovare qualcosa che gli ispettori dell’Aiea non avevano mai trovato. La «pistola fumante» delle ambizioni atomiche degli ayatollah. Netanyahu l’ha mostrata al pubblico lunedì, in una presentazione ad alto impatto mediatico. Ma le decine di slide che scorrevano sui teleschermi di tutto il mondo erano il frutto di una missione al limite che si è conclusa in una notte ad altissima tensione.
Nel febbraio del 2016 le spie israeliane individuano un magazzino nel sobborgo di Shorabad, a Sud di Teheran, una zona industriale. Il magazzino è dimesso, sembra abbandonato, ma dentro c’è un tesoro. I «55 mila file» che documentano la storia del programma nucleare iraniano. L’edificio viene posto sotto sorveglianza continua e il Mossad deve chiedere rinforzi ed espandere la sua rete di agenti. Gli iraniani hanno già spostato l’archivio più volte, possono farlo di nuovo, non lo si deve perdere d’occhio neppure un minuto.
Nel gennaio di quest’anno un fonte interna rivela che nel magazzino ci sono alcune «casseforti speciali». È il momento di agire. La squadra del Mossad fa irruzione, in piena notte, prende tutti i documenti dalle casseforti e li trasferisce in un edificio sicuro. Sono decine di migliaia di file cartacei che pesano «più di mezza tonnellata», molto ingombranti. Bisogna farli uscire dall’Iran senza dare nell’occhio e già questa è un’operazione complessa. Nei piani doveva svolgersi in più fasi, ma appena arrivati nell’edificio sicuro gli 007 si rendono conto che i Servizi dei Pasdaran, un corpo d’élite fondato da Ali Khamenei nel 2009, si sono insospettiti e li stanno seguendo.
Si tratta di scappare portandosi via una carico che occupa almeno un furgoncino, a giudicare dai file mostrati da Netanyahu in tv, con gli agenti segreti braccati dalle Guardie rivoluzionarie come nel film «Argo». «Li avevamo alle calcagna», ha rivelato una delle spie alla tv Hadashot. Non ha spiegato come sono riusciti a seminarli, ma il ministro dell’Intelligence Israel Katz ha precisato che si è trattato di un’operazione «senza precedenti nella storia di Israele», un Paese che, a cominciare da Entebbe, ha vissuto molti momenti di questo tipo: «Quando ho conosciuto i dettagli non potevo credere che avessero potuto farcela», ha commentato.
A non poterci credere sono anche gli iraniani. Tutto il corpo dei Servizi dei Pasdaran è sotto inchiesta. Secondo media del Golfo, come Channel 10, è già scattata un’ondata di arresti e i responsabili delle sorveglianza del magazzino «rischiano la fucilazione». I documenti rubati e lo show di Netanyahu hanno convinto in maniera definitiva, salvo sorprese, il presidente americano Trump a ritirarsi dall’accordo sul nucleare. Ma l’Intelligence israeliana punta ora a convincere un altro attore fondamentale, l’Aiea. Se anche l’Onu concluderà che l’Iran ha barato allora l’intesa sarà seppellita del tutto. E lo scontro fra Israele e la Repubblica islamica andrà al calor bianco.
(Giordano Stabile, La Stampa, 3 maggio 2018)

E con questo colpo magistrale si spera che almeno uno dei criminali disastri con impatto sull’intero pianeta perpetrati da Obama possa essere disinnescato. Se poi qualcuno si chiedesse come mai l’AIEA non abbia trovato quelle prove, la risposta è molto semplice:
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A questo va aggiunto che anche in un’altra delle imprese recenti a quanto pare c’è lo zampino del Mossad. Come si suol dire, se Israele non esistesse, bisognerebbe inventarla, ma per fortuna hanno già provveduto gli ebrei. Più o meno tremilacinquecento anni fa. 
E ora la difendono e ci difendono.

barbara

SI PUÒ DIRE “BALDRACCA EBREA”?

Si può dire “baldracca ebrea” senza essere antisemiti? Io direi di sì: se una signora si trova ad essere contemporaneamente ebrea e baldracca, ed esercita la propria baldracchitudine proprio in qualità di ebrea, direi che è pienamente legittimo dirlo. Se poi della suddetta signora si pretende anche di fare un santino, una donna “coraggiosamente controcorrente”, un’intellettuale dal pensiero profondo da citare a destra e a manca, allora dimostrarne e documentarne la baldracchitudine e farla il più possibile conoscere è un vero e proprio dovere morale e io, credo che questo sia noto, ai miei doveri non mi sottraggo mai. E per documentare quanto sopra detto, nessuno – come spesso accade – meglio di Ugo Volli in una sua recente cartolina pubblicata su Informazione Corretta.

Il santino della Arendt, no!

Cari amici,
lo sfruttamento della memoria della Shoà contro Israele è ormai un classico, ci hanno provato con Primo Levi attribuendogli parole che non aveva mai scritto, l’hanno rifatto con infiniti assurdi paragoni fra Auschwitz e Gaza, fra la stella di Davide che campeggia nella bandiera ebraica e la svastica, parodiando la celebre fotografia che ritrae un bambino ebreo minacciato con un fucile da un soldato nazista, mettendo elmetti e divise naziste ai leader di Israele, magari disegnando una vignetta in cui la faccia di una nota ebrea appaia deformata come un mostro con tratti razzisti e sull’abito compaiano appaiati una stella di Davide e un fascio littorio… insomma questo paragone insultante viene propagandato  in mille modi.
Se riescono nell’impresa paradossale e violentissima di saldare l’immagine di Israele a quella del nazismo, gli antisemiti ottengono almeno due vantaggi evidenti: da un lato dirottano la solidarietà per le vittime della Shoà agli arabi nemici di Israele  (e l’operazione non è danneggiata dal fatto ben noto che questi abbiano avuto complicità con la Shoà stessa settant’anni fa e oggi esibiscano spesso e volentieri simboli nazisti, inneggino a Hitler e diffondano “Mein Kampf”). Dall’altro scusano la Shoà stessa e diminuiscono la responsabilità dei popoli europei che in larga maggioranza la realizzarono la favorirono, o almeno non vi si opposero.
Naturalmente non occorre pensare che vi sia una centrale propagandistica e una strategia precisa; basta pensare a un luogo comune che si diffonde, un umore anti-israeliano e dunque antisemita che vi si esprime; una di quelle forme espressive che passano quasi inavvertite e tradiscono però un modo di pensare, come quando si fa uso di stereotipi razzisti.  Ora questo gesto comunicativo ha trovato la sua realizzazione più sofisticata in un film – tanto sofisticata da riuscire nell’impresa che il film fosse proiettato in occasione della Giornata della Memoria e fosse accolto bene da un pubblico che non vuole certo considerarsi antisemita. Alludo naturalmente al film su Hannah Arendt della von Trotta.
Non intendo discutere qui del film come opera, dei suoi meriti estetici e della sua semplificazione contenutistica. Per evitare di fare una polemica personale, mi limito a citare un brano dalla critica di una delle più accreditate riviste ebraiche americane online: “Nella sequenza più strana, quasi surreale, del film, Arendt viene fermata su un vicolo deserto da un trio di agenti del Mossad. Essi cercano di intimidirla riguardo alla pubblicazione del suo libro “La banalità del male”, insistendo sulla sua potenziale nocività. “Volete bruciare i libri,” Arendt li canzona “e mi fate lezione.” Il riferimento è chiaro e voluto: gli israeliani sono i nuovi nazisti, capaci di chiedere acquiescenza dai loro nemici con la forza. La sequenza fa eco alla prima scena di “Hannah Arendt”, in cui Eichmann viene rapito da una simile strada deserta in Argentina. Sono Arendt e Eichmann entrambi vittime della stessa spinta alla violenza? Come Arendt, il film sembra confondere nazisti ed ebrei, assassini e vittime, così a fondo che non sa su quale lato situarsi. Questo è, a dir poco, profondamente inquietante. Il trionfo intellettuale della Arendt sembra richiedere l’immolazione retorica di tutti i rivali, compreso lo Stato di Israele.” (http://mosaicmagazine.com/picks/2013/06/idolizing-hannah-arendt/) La confusione fra vittime e assassini del resto è una specialità della Von Trotta, per esempio nel suo film più fortunato (“Anni di piombo”), in cui la simpatia per i terroristi era travolgente…
Ma, ripeto, non voglio parlare qui del film; meglio affrontare direttamente Hannah Arendt, perché la confusione qui viene direttamente da lei. Dopo un amore clandestino con Heidegger, che non smetterà mai di ammirare, e dopo una tesi di dottorato con Jaspers, Arendt scappa in Francia, dove lavora un po’ come segretaria in organizzazioni di soccorso sioniste. Questa vicinanza al sionismo viene meno dopo una fuga tutto sommato abbastanza facile in America. A partire dai primi anni Quaranta, Arendt si costruisce una carriera giornalistica a New York sulla base del suo antisionismo. Accusa i sionisti di essere troppo morbidi con gli inglesi, di fare compromessi coi nazisti per tirar fuori gli ebrei dalla Germania, di volere uno stato ebraico. Nella polemica trascende spesso e scrive cose che oggi troviamo solo in bocca ai nemici più violenti del popolo ebraico. Sostiene che la rivolta del Ghetto di Varsavia inizia contro la polizia ebraica, che i sionisti imbrogliano il popolo ebraico, che per certi versi sono come i nazisti. Tratta da fascisti i comitati del sionismo revisionista per la costituzione di quella che poi sarà la Brigata Ebraica, e afferma che i “sionisti generali” come li chiama, non sono affatto diversi da loro. Li accusa in particolare di prendersela inutilmente con gli arabi, di non volere la pace, di aspirare per una sorta di follia al suicidio collettivo del popolo ebraico. Le sue previsioni politiche sono tutte sbagliate, ma affermate con un’alterigia e una violenza che spaventano e indignano tutti i suoi amici. Si schiera pubblicamente contro la fondazione dello stato di Israele, fa propaganda in questo senso appoggia i tentativi di sostituirlo con un protettorato dell’Onu. Afferma trionfante che gli americani hanno capito che in verità non c’è stata colpa della Germania o del popolo tedesco, ma solo di Hitler. Nel ’48 se la prende con Ben Gurion affermando che abbia scelto l’Urss contro l’America, il che è assai bizzarro; ma altrove dice che l’Unione Sovietica è la sola ad aver abolito l’antisemitismo senza perseguitare gli ebrei, naturalmente alla vigilia delle epurazioni antisemite di Stalin. Insomma le sue tesi sul processo Eichmann sono semplicemente la conseguenza di un punto di vista anti-israeliano e antisionista molto estremo, che ha già ripetutamente espresso per tutto il corso degli anni Quaranta e Cinquanta.
Le tesi principali sul processo, che sono illustrate dal film, sono due, entrambe insostenibili. La prima è quella che si usa chiamare “banalità del male”, che non è altro se non l’accettazione alla lettera della difesa standard dei criminali nazisti (e di tutti i genocidi dopo di loro, in Ruanda, in Bosnia, dappertutto): non siamo colpevoli perché abbiamo ubbidito agli ordini. Questo palesemente non è vero. Eichmann faceva parte di un’élite che fece con competenza, entusiasmo e ferocia la sua parte. Il loro odio contro gli ebrei era antico e si era indurito in mille azioni squadristiche: nessuno li obbligava ad essere dov’erano e a comportarsi come fecero. Essi erano entusiasti e spesso andarono ben oltre il loro dovere sindacale. Ci sono parecchi testi in cui questi assassini parlano senza il contesto di un processo: interviste, conversazioni in carcere e così via. In tutti si vantano della loro azione, come le loro vittime lamentano la ferocia barbara del loro comportamento. Definire “banale” questi boia è un  insulto non solo alle vittime, ma anche alla verità e all’intelligenza, e non è comunque una tesi innocente. Infatti essa viene sviluppata nell’idea che i colpevoli della Shoà fossero tali (o in fondo fossero innocenti in quanto incapaci di intendere e di volere), perché “non pensavano”. Ora questa tesi lascia fuori dall’ambito della responsabilità non solo tali pretesi automi, ma anche gli intellettuali del nazismo, giuristi come Carl Schmitt, scrittori come Céline, poeti come Pound e mille altri fra cui in prima fila Heidegger, che era stato l’amante di Arendt e lei sempre difese. Al di là degli aspetti personali, la tesi rappresenta il nazismo come qualcosa di estraneo alle dinamiche storiche e di pensiero della Germania e dell’Europa, ne fa un’eccezione, lo rende inspiegabile. Del resto era ciò che la stessa Arendt aveva sostenuto nel brano che ho già citato: solo Hitler era il colpevole. O, aggiungo io, neppure lui, prontamente coperto dall’attenuante di una comoda follia.
Nessun colpevole, dunque? No, qui interviene la seconda tesi di Arendt, la più ignobile. Colpevoli sono stati gli ebrei. Già, perché invece di dissolversi in una totale disorganizzazione, seguirono la loro antica esperienza storica, accettarono di costituire delle dirigenze anche sotto l’assalto nazista (che peraltro le richiedeva o se non c’erano, le costituiva d’autorità). Come ha spiegato in un libro breve ma importante lo storico Yerushalmi, gli ebrei nei secoli hanno sempre cercato di reggere le persecuzioni negoziando col potere, accettando i suoi ricatti di denaro, piegandosi ben oltre la dignità fino al limite della propria identità, rifiutando solo di tradire la propria identità religiosa e collettiva. Si comportarono così anche le persone che nell’immane tragedia della Shoà si trovarono a reggere delle comunità. Alcuni impazzirono fino a fare i piccoli tiranni, altri cercarono dei profitti personali, non c’è dubbio. Ma erano una minoranza. I più cercarono di fare il possibile per salvare delle vite, per protrarre la sopravvivenza, talvolta per ribellarsi. Molti si uccisero, prima o poi. Arendt, che assolve Eichmann, per mancanza di pensiero, se la prende con le sue vittime, che invece secondo lei che pensava comodamente nel suo studio dalle parti di New York, avevano il torto di voler fare dei compromessi con lo stesso Eichmann. Come i sionisti, altra bestia nera della Arendt. Mi è difficile stare calmo pensando a questa signora presuntuosa, che non capisce nulla di politica e di umanità ma pretende di insegnarla, resta amica per tutto la vita di Heidegger e condanna sdegnosa le vittime dei campi, i membri dei consigli ebraici e anche gli altri che li accettavano. Quando qualcuno le chiese se non sentiva un minimo di solidarietà coi suoi fratelli, diede una risposta di agghiacciante altezzosità: io non amo in particolare nessun popolo (o proprio nessuno, la parola è people), non vedo perché dovrei trovare simpatia per il popolo ebraico (o per gli ebrei: Jewish people).
La Arendt è una giornalista confusa e pasticciona, sommamente ideologica, ma di un’ideologia bizzarra e fumosa, che non è né comunista né liberale, né socialista né democratica, ma vagamente cooperativa e federale. E’ diventata famosa per via di un paio di libri (quello sul totalitarismo e quello sulla “condizione umana”) che riprendevano tesi altrui, per esempio di Strauss, con infinita arroganza. Non si è detta filosofa ma teorica della politica; in verità non è stata una cosa né l’altra. Tutto ciò è scusabile, la sua carriera non ha né più né meno valore di quella di tanti intellettuali di successo. Ma per favore non facciamone un santino, non presentiamola come una che resiste a chissà quali pressioni. I suoi amici che le tolsero il saluto in seguito all’operazione pubblicitaria di presentare il processo ad Eichmann come un processo di stato staliniano (fra l’altro, mi dicono, avendo seguito assai poco le udienze), non le fecero del male, lo subirono. Se oggi c’è la Giornata della Memoria e se si ricorda la Shoà come quell’abominio che fu, il merito non è degli storici o del processo di Norimberga, che non si incentrava su questo, ma della grande analisi, del lavoro di liberazione della memoria voluto da Ben Gurion. Contro cui Arendt esercitò liberamente tutta la sua opposizione  e il suo sarcasmo. Farne oggi un’icona della memoria ebraica è veramente troppo.

Ecco: un’ebrea che si fa sbattere da un nazista e poi col culo al caldo si permette di giudicare chi del nazismo fu vittima, va chiamata con nome e cognome: baldracca ebrea.

barbara

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È venuto su quello del piano di sotto, che aveva da chiedermi un favore. Poi, siccome ci trovavamo proprio davanti a una bandiera israeliana (in effetti in casa mia è praticamente impossibile non trovarsi di fronte o di fianco a una bandiera israeliana) mi fa: “Visto che a lei interessano gli ebrei, come è andata a finire con Priebke?” Si parla un po’ della questione, io dico che secondo me la cosa migliore sarebbe stata di fare come con Eichmann (anche se va detto che Eichmann non aveva un avvocato adoratore pronto a muovere mari e monti pur di suscitare il massimo clamore intorno a lui e a ogni cosa che lo riguardasse); si parla un po’ di Eichmann e dell’operazione del Mossad per catturarlo (lui è italo-argentino, la cosa in qualche modo lo tocca abbastanza da vicino), e di Peron e dell’assistenza da lui fornita ai nazisti. Mi dice che Peron alla fine della guerra ha firmato personalmente quarantamila passaporti in bianco perché venissero consegnati ai criminali nazisti in fuga (mai sentito che di firmare i passaporti si occupino presidenti e affini, ma insomma vabbè). E poi mi fa la grande rivelazione: “C’è mio figlio che è in Inghilterra e ha letto un articolo proprio l’altro giorno, non so se l’ha sentito anche lei (più o meno in questo tono qui), che hanno scoperto che Hitler non è mica morto nel bunker: hanno scavato un tunnel e da lì l’hanno fatto scappare, l’hanno imbarcato su un sottomarino e lo hanno portato in salvo in Argentina. Lo sapeva lei?” Ho detto ah sì, ne girano tante di queste leggende, ogni tanto ne inventano una nuova. Mi ha guardata come voi guardereste un quarantenne convinto che la Befana scenda ogni anno dal camino per appendere la calza coi dolci.
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barbara