IL GATTO DAGLI OCCHI D’ORO

Gli occhi di Leila si riempiono di nuovo di lacrime, ma questa volta sono lacrime diverse da prima.
Alza gli occhi: dall’altra parte della finestra ci sono i tetti e lì vede il gatto che si è trascinato la sua fame e le sue ossa fino a una chiazza di sole tra i camini e la grondaia.
La fame del gatto è un’urgenza intollerabile.
Un’urgenza assoluta. Irrimandabile.
Ogni secondo che passa strazia le viscere del gatto. Ogni secondo che passa potrebbe essere l’ultimo. Leila si infila il panino nella tasca dei jeans e chiede di uscire.
A fare che? La pipì? E non poteva farla durante l’intervallo? Come sarebbe si è dimenticata. Questa è la prima media, mica l’asilo.
Il grosso vantaggio di essersi già fatti la fama dell’oca è la libertà di manovra.
Leila abbandona la classe seguita da un uragano di risate, come una pop star inseguita dagli applausi, che, questa volta, le lasciano addosso una via di mezzo tra una granitica indifferenza e un vago compiacimento.
I giri tra i corridoi al mattino permettono ora al suo senso di orientamento di sbrogliarsela. Deve solo salire le scale fino al piano superiore, di lì uscire sulla terrazza e, appigliandosi alle inferriate esterne dei finestroni sul corridoio dovrebbe riuscire ad arrivare fino alla grondaia.
I corridoi sono deserti. La bidella è nell’atrio attaccata al telefono (per fare il pollo alla diavola… se metti metà acqua e metà olio, la cipolla non brucia…). La porta della segreteria è aperta, ma anche la segretaria è al telefono e non alza gli occhi (per lo zabaione due uova intere, due tuorli e cento grammi di zucchero vanigliato…).
La portafinestra del terrazzo scricchiola orrendamente ma, tra lo zabaione della segretaria e il pollo alla diavola della bidella, la cosa passa inosservata.
Il sole inonda il terrazzo. Le fronde degli ippocastani riempiono la visuale.
Leila si arrampica: le inferriate sono talmente comode che sembrano una scala a pioli.
Ora Leila è al di sopra delle fronde degli ippocastani e si gira un attimo a guardare. La città se ne sta sotto il sole, prima dell’orizzonte c’è il mare e tra la città e il mare, dentro l’ansa del fiume, scintillano gli acquitrini. La brezza le scompiglia i capelli.
I gabbiani volano sulle discariche. Più in là le saline brillano nella luce dell’ultima estate.
Leila finisce la sua arrampicata. Sull’ultimo passaggio si appoggia alla grondaia e si tira su. Il gatto è lì. I suoi occhi d’oro scintillano come gli acquitrini sotto il sole.
Leila tira fuori il suo panino e lo mette davanti al gatto. Il gatto la guarda a lungo, poi si stiracchia, si avvicina pigramente al panino e comincia a mangiare il salame dell’imbottitura, lentamente, come assaporandolo. Poi sbocconcella anche un po’ di pane. Forse era veramente una fame abissale o forse il pane e salame ai gatti gli fa particolarmente bene. Comunque il gatto sembra essersi ripreso alla grande: guarda ancora Leila e poi schizza via, scompare tra i comignoli, veloce e lieve come il re degli elfi.
Un urlo squarcia la brezza.
«C’è una SUL TETTOOOOOO!»
Il pollo alla diavola deve essere cotto e lo zabaione se lo devono anche essere mangiato.
L’urlo risuona e si espande come le campane che chiamavano a raccolta quando arrivavano i saraceni, ma l’immagine del gatto che corre con tutta la sua grazia tra i comignoli continua a illuminare Leila da dentro, come una luce.
Dovrebbe preoccuparsi di quanto si arrabbierà la sua mamma, ma la preoccupazione non riesce a scalfire la sua allegria.
E poi, parliamoci chiaro, il suo non è il tipo di madre che sgrida troppo per questioni scolastiche.
«Ah, davvero? Sei anche salita sui tetti? E ti hanno dato tre in condotta? E di comprare il latte te lo sei ricordato?»
Leila dà un’ultima occhiata allo scintillio del fiume, tra la città e gli acquitrini, e respira ancora un attimo la brezza leggera.
Poi scende.

I professori sono usciti dalle classi seguiti dagli allievi. Non manca niente e nessuno: dalle Adidas della professoressa di ginnastica (scienze motorie) agli spigoli della professoressa di italiano.
La professoressa di italiano ha gli spigoli che tremano e non riesce nemmeno a parlare. La professoressa di ginnastica (scienze motorie) ha le Adidas che stanno ferme, ma lo stesso il fiato non riesce a tirarlo fuori. Quello che recupera la voce per primo è un tizio in giacca e cravatta, che Leila deduce dover essere il preside. Il preside la riconduce alla sua classe e finalmente le domanda perché diavolo è salita là sopra.
Leila non ha voglia di nominare il gatto.
«Per guardare la città dall’alto» risponde serenamente.
Risatine di sfondo.
Leila ascolta le risatine. Non c’è nessun dubbio. È un altro tipo di risatina.
Leila si rende immediatamente conto di avere cambiato categoria. È passata dal genere ‘straccione-incapace-decisamente scemo’ al ‘trasgressivo-ribelle-un po’ matto’, che è anni luce al di sopra del precedente.
«Nessuno degli allievi è mai salito sui tetti» insiste il preside.
«Dovrebbero. Lì sopra è bellissimo» spiega Leila con un tono di voce tra il timido e l’allegro.
Risate franche, ma questa volta, di nuovo, sono per lei e non su di lei.
Leila si accorge che tutto l’insieme del suo comportamento, dalla denuncia di un padre originario di Marte e di una madre dedita alla vermicultura, può essere reinterpretato e, in effetti, è reinterpretato alla luce del nuovo genere: trasgressivo un po’ folle. È salita di grado.
Il preside fa la faccia di uno che ha appena incontrato il mostro di Frankenstein, e a Leila fa un po’ pena. Ma non può mollare. Continua a parlare. Ripete che lassù è bellissimo. Parla dell’ansa del fiume, delle paludi, dei camminamenti tra i canneti fino ai nidi delle oche selvatiche, che dal tetto della scuola si vedono. Parla di come si fa a scovarli, come si fa a non dargli fastidio quando le uova stanno per schiudersi.
C’è un silenzio affascinato, Leila parla dei due campi zingari e del campo profughi (tutti frequentano la Santorre di Santarosa), dei bambini rumeni che sono arrivati insieme ai bambini albanesi, dopo i russi e prima dei senegalesi. Parla dei bambini africani: vengono da pezzi diversi dell’Africa, qualcuno è un deserto, qualcuno una savana, qualcuno giallo, qualcuno verde, ma tutti disperati. La sua migliore amica si chiama Maryam e arriva dall’Etiopia che è il Paese degli altopiani, dove nasce il Nilo. Il regno del Leone di Giuda. Leila tira fuori dalla tasca dei jeans sdruciti la monetina etiope con sopra la testa del leone che Maryam le ha regalato in seconda elementare come portafortuna e che lei porta sempre in tasca. Maryam non farà le medie, anche se andare a scuola le piaceva, perché è la prima femmina della sua famiglia che ha imparato a leggere e forse hanno paura che esagerare le faccia male; quindi la tengono a casa, però loro due sono d’accordo che Leila le racconterà tutto quello che sente a scuola, perciò sarà come se un po’ facesse le medie anche lei. Dice anche questo.
Il preside si riprende. Interrompe Leila bruscamente ma con una certa cortesia, minaccia punizioni esemplari, ma nel frattempo non ne attua nessuna. Ma in futuro guai a chi si azzarda anche solo a uscire sulla terrazza senza permesso. Tra l’altro la bidella che stava facendo? Mica al telefono come sempre a parlare di cucina? E la segretaria? Non è passata davanti al suo ufficio quella ragazzina per…
Leila raggiunge il suo banco e si siede.
Fiamma si volta e le fa un radioso sorriso.

Ecco, c’è lei, Leila (sì, come la principessa di Guerre Stellari), la ragazzina troppo grassa troppo malvestita troppo diversa troppo tutto. E Maryam, l’amica etiope. E bambini ricchi e bambini poveri e bambini viziati e bambini tristi e mamme rifatte e mamme troppo presenti e mamme troppo assenti ed emarginazione e integrazione e amicizia e antipatie e mutilazioni genitali e paura e coraggio e poi lui, certo, il gatto dagli occhi d’oro, e guai se mancasse!

Silvana De Mari, Il gatto dagli occhi d’oro, Fanucci

barbara