EBREI IN VENDITA?

Il sottotitolo di questa recensione potrebbe essere: ma veramente Netanyahu delirava? Veramente ha detto delle così colossali sciocchezze? Veramente ha mostrato una così abissale ignoranza della storia? Si trattava, come si ricorderà, delle trattative fra autorità ebraiche e dirigenti nazisti per tentare di salvare ebrei facendoli emigrare nella Palestina mandataria, trattative sabotate dal gran Mufti di Gerusalemme Haji Amin al Husseini, che avrebbe invece spinto verso lo sterminio. Qualcuno ha addirittura negato che tali contatti vi siano mai stati; ora, non solo vi sono stati, come ho documentato qui, ma sono stati talmente intensi e prolungati nel tempo da poter riempire, con la loro narrazione, un libro di oltre trecento pagine. E cominciamo a vedere qualche indicazione.

Abbiamo visto come l’Ha’avarah venisse ostacolata e come, all’inizio del 1938, l’opposizione all’accordo fosse divenuta quasi unanime. Perché, allora, esso rimase in vigore fin dopo il pogrom del novembre 1938, anzi, fino allo scoppio della guerra? La ragione, come indicano tutte le nostre fonti, è che gli accordi esistenti avevano l’appoggio di Hitler. Se non esistono documenti che portino la sua firma, ciò è dovuto semplicemente al modo in cui governava la Germania in generale: preferiva trasmettere le sue decisioni oralmente, e solo quando era indispensabile. I documenti mostrano chiaramente come la maggior parte dei funzionari dell’epoca aspettassero con impazienza una decisione del Führer, in particolare che rivedesse il suo sostegno all’emigrazione in Palestina e, quindi, anche all’Ha’avarah. È provato che all’inizio del 1938 egli invece confermò quel sostegno, naturalmente a voce. Una nota del 27 gennaio 1938 di Clodius, direttore della divisione Economia del ministero degli Esteri, riporta un’affermazione di Rosenberg: nel corso di una consultazione, Hitler aveva ribadito la sua risoluzione di sostenere l’emigrazione in Palestina e I’Ha’avarah. Di nuovo, com’era tipico dei processi decisionali nel Terzo Reich, questo non significa che tentativi di mutare la decisione non venissero compiuti. In effetti solo von Hentig continuò, per motivi pratici, a dare in certo qual modo appoggio alla politica del Führer; tutti gli altri cercarono di modificarla. L’Ha’avarah fu tenuta in vita contro i desideri di quasi tutti i burocrati dell’economia del governo tedesco perché Hitler aveva deciso che l’emigrazione degli ebrei era più importante di qualunque considerazione economica, e che la Ha’avarah era uno dei modi per raggiungere l’obiettivo. (p. 35)

Da parte dei nazisti ci fu una rispondenza perché l’emigrazione degli ebrei era la loro politica. Le forze dei due campi erano squilibrate. Gli ebrei si trovarono sin dall’inizio in una trappola: non potevano contare sull’aiuto di terzi e, in Palestina, lottavano con un’amministrazione britannica che si faceva sempre più ostile. Imboccarono l’unica strada che avevano a disposizione per salvare il salvabile: trattare con il nemico. Il loro intento in quella fase non era ancora di salvare vite [poiché all’epoca nessuno poteva prevedere che un giorno tutti gli ebrei sarebbero stati condannati a morire, ndb]. Il loro principale obiettivo era lo sviluppo della Palestina, perché la Palestina ebraica era troppo debole per lanciarsi in operazioni di salvataggio in Germania o altrove. Con abbastanza tempo a disposizione, essa sarebbe divenuta in grado di assorbire masse di ebrei. Solo che abbastanza tempo non fu dato. (p. 38)

Ma le date non tornano, è stato obiettato anche da chi sapeva perfettamente delle trattative: Netanyahu ha parlato del 1941, e tutti sanno che in quella data la soluzione finale era già in atto. In realtà, pur con qualche accento retorico e forzando i toni, Netanyahu non ha detto sciocchezze neppure nelle date.

L’emigrazione in Palestina levava di torno solo poche migliaia di ebrei: tra il 1° settembre 1939 e il marzo 1941, in effetti, gli emigranti B furono 12.863, e non tutti provenivano dal Reich, né tutti raggiunsero la Palestina. Eichmann voleva che si facesse molto di più, il che sembra spiegare i viaggi della Sakariya dell’inverno 1939-40 e le tre navi di Storfer dell’autunno 1940. Tali esiti di pressioni interne dovettero apparire a Eichmann piuttosto scarsi, ed egli tentò di far partire gli ebrei con pressioni più brutali. Il 3 luglio 1940 convocò i capi della RVE delle comunità di Praga e Vienna e chiese loro di sottoporgli nel giro di quarantott’ore un piano per liberare il Reich da tutti gli ebrei. È inutile dire che questo ultimatum non servì. All’inizio del 1941 ogni tentativo nazista di spingere gli ebrei in direzione della Palestina cessò. A prenderne il posto fu lo sviluppo della «soluzione finale». Fino all’ottobre 1941, tuttavia, agli ebrei del Reich fu ancora permesso partire, e molti vennero spinti oltre i confini, anche se, nelle zone dell’Unione Sovietica che venivano conquistate, lo sterminio di massa era iniziato. In quello stesso ottobre, in effetti, era in allestimento a Chelmno il primo campo di sterminio, dove s’iniziò a uccidere con il gas l’8 dicembre 1941, ma i preparativi erano in corso già in ottobre, quando gli ebrei potevano ancora andarsene. In Serbia le uccisioni di massa erano già, a quella data, in pieno svolgimento. Le due politiche, lo sterminio e l’espulsione, furono per un breve periodo in vigore contemporaneamente. (p. 67)

Il 27 agosto Wisliceny s’incontrò con il Gruppo e comunicò che doveva ricevere nuove istruzioni. I suoi capi, disse, stavano preparando un convoglio dalla Polonia a Theresienstadt di cinquemila bambini ebrei, duemila dei quali erano già in viaggio. Il fatto che lo sapesse dimostra che aveva effettivamente parlato con Eichmann, perché mille bambini di Bialystok arrivarono a Theresienstadt in agosto. Eichmann aveva posto il veto alla loro emigrazione in Palestina a causa dell’opposizione del Mufti di Gerusalemme, capo del movimento nazionale arabo palestinese, Hajj Amin al-Husseini, che nel 1941 s’era recato in Germania. Il Muftì, disse, era tra i maggiori fautori dello sterminio degli ebrei. (p. 109)

I contatti riguardo ai bambini furono ripresi nell’estate del 1943, quando Eichmann e Himmler dovettero far fronte a un tentativo svizzero, di cui parleremo più avanti, di intervenire a loro favore. Fu allora, il 28 agosto 1943, che circa mille bambini vennero trasferiti da Bialystok a Theresienstadt, dove furono tenuti fino al 5 ottobre, evidentemente per qualche progetto di scambio. Anche Steiner, in una deposizione resa il 2 dicembre 1946 di fronte alla corte nazionale slovacca, conferma che le trattative sui bambini vi furono, e che all’epoca Wisliceny, a nome di Eichmann, disse che il Muftì di Gerusalemme, Hajj Amin el-Husseini, stava cercando di impedire che andassero a buon fine. (pp. 122-123)

Dunque Netanyahu non ha inventato fatti, non ha sbagliato date, non ha falsificato la storia, contrariamente a quanto urlato in quei giorni di novembre (“Ma qui, ci premeva spiegare solo, dati alla mano, perché quello che ha detto Netanyahu sia una menzogna. L’espresso). La cosa curiosa è che le accuse più furiose contro Netanyahu che avrebbe “riscritto la storia a fini politici” e fatto “affermazioni senza fondamento”(La Stampa) è proprio Yehuda Bauer, l’autore del libro che tutto questo ha raccontato e documentato in prima persona.

Un altro inestimabile pregio di questo ottimo libro è quello di fare piazza pulita delle leggende nere cresciute intorno ai dirigenti sionisti, accusati, con tanto di citazioni inventate, di essersi del tutto disinteressati del destino degli ebrei europei, interessati unicamente alla battaglia sionista: niente di più falso.

Notizie attendibili sui piani nazisti di sterminio di massa erano giunte in Palestina con l’arrivo, il 13 novembre 1942, di sessantanove cittadini ebrei palestinesi catturati in Europa allo scoppio della guerra. Essi provenivano da diverse zone dell’Europa occupata, comprese numerose città della Polonia, e furono scambiati contro un numero maggiore di tedeschi residenti in Palestina. Portavano informazioni dirette, frutto di esperienze personali, che non lasciavano dubbi su quanto stava accadendo. Come ovunque altrove, esse rappresentarono uno shock e suscitarono incredulità e disperazione. Ma spronarono anche all’azione la dirigenza dell’Agenzia ebraica, i leader in Palestina del movimento sionista. David Ben Gurion, presidente dell’esecutivo, Moshe Shertok (Sharett), capo della sezione politica, Yitzhak Grünbaum, capo del comitato polacco, che nel 1943 avrebbe presieduto il Comitato di salvataggio dell’Agenzia ebraica, Eliezer Kaplan, tesoriere, e Chaim Weizmann, presidente, che risiedeva a Londra, erano le figure principali. Di nuovo, l’abituale accusa, oggi, è che l’Agenzia ebraica fece troppo poco troppo tardi per soccorrere gli ebrei in Europa, che poneva la creazione di uno stato ebraico al disopra della salvezza degli ebrei, e che Ben Gurion e Grünbaurn in particolare erano politici freddi, pervicaci nell’ignorare la distruzione del loro popolo in Europa. Autori e storici ebrei liberali, non ortodossi, ortodossi e ultraortodossi ripetono queste accuse da anni.
Oggi, tuttavia, sappiamo con sufficiente chiarezza che Ben Gurion ricevette informazioni circostanziate nel momento in cui esse divennero disponibili. Egli colse fino in fondo, si direbbe, le implicazioni dei piani di sterminio nazisti; e, al contrario della visione che si è imposta, divenne estremamente attivo nel promuovere contatti con gli Alleati per persuaderli a intervenire a favore degli ebrei europei. (pp. 101-102)

I maggiori contrasti all’interno dell’Agenzia ebraica vertevano sui rapporti con gli inglesi. Specialmente Grünbaum non si fidava di loro: era sicuro che avrebbero sabotato ogni tentativo di salvare gli ebrei. Ben Gurion era di parere opposto; pensava che se gli Alleati occidentali non si fossero persuasi a sostenerla, la missione non avrebbe avuto nessuna possibilità di successo. Un tentativo ebraico indipendente era condannato a un immediato fallimento. Avevano ragione entrambi, naturalmente. Ma a emergere qui è un quadro diametralmente opposto a quello dipinto dalla letteratura storica popolare, che vede in Grünbaum un personaggio che fece poco e si preoccupò ancor meno, e in Ben Gurion quasi un collaboratore dei nazisti, un uomo insensibile e indifferente che aveva a cuore soltanto il futuro della Palestina ebraica, non gli ebrei della diaspora. La verità, come abbiamo visto, è ben diversa. Entrambi erano profondamente coinvolti. L’esecutivo dell’Agenzia ebraica si riunì sette volte nel mese successivo all’arrivo di Pomeranz da Istanbul, e tre volte in sessioni speciali a casa di Ben Gurion. Questi vedeva nella vicenda Brand l’evento al momento centrale per l’Agenzia ebraica, vi consacrò tempo ed energie, e dichiarò a MacMichael, oltre che all’esecutivo dell’agenzia, che gli ebrei andavano portati ovunque, non solo in Palestina. (pp. 223-224)

E infine ancora un accenno al comportamento degli Alleati nel corso della guerra, difficilmente comprensibile nella sua illogicità.

Nel gennaio 1944 i capi di stato maggiore alleati occidentali presero una decisione che non aveva niente a che vedere con gli ebrei o il loro salvataggio: non avrebbero usato mezzi militari a scopi civili quali il salvataggio o il soccorso. Ogni proposta ebraica di servirsi dell’aviazione o di altre forze armate per impedire ai nazisti di portare avanti gli assassinii era quindi destinata ad andare incontro alle obiezioni dei militari. Compito di questi ultimi, com’era stato loro esplicitamente detto, era passar sopra a ogni altra considerazione per concentrarsi esclusivamente sul raggiungimento della vittoria. Questo principio, «la vittoria innanzi tutto», fu ripetutamente enunciato dai politici: gli ebrei, e le altre vittime del nazismo, avrebbero potuto essere salvati solo da una vittoria alleata. Finché essa non fosse stata raggiunta, ogni altra politica sarebbe stata controproducente: non avrebbe fatto altro che permettere al regime nazista in Europa di durare più a lungo del dovuto.
Nella posizione degli Alleati c’era una contraddizione. Essi stavano combattendo, tra le altre cose, per la liberazione delle popolazioni civili in Europa dall’oppressione nazista. Secondo logica, piani di salvataggio che non ostacolassero il vittorioso proseguimento della guerra sarebbero dovuti diventare una priorità. Negoziare per guadagnare tempo, esercitare pressioni sulla Croce Rossa affinché intervenisse a favore degli internati nei campi di concentramento e fornirle i mezzi per farlo efficacemente, promettere per tempo ai neutrali che ogni rifugiato che giungesse ai loro confini non sarebbe divenuto un peso per la loro economia: tattiche del genere non erano in contraddizione con lo sforzo bellico. Bombardare le ferrovie o le installazioni dove la gente veniva gassata e aiutare i partigiani ebrei nella stessa misura in cui venivano aiutati quelli non ebrei sarebbero state mosse perfettamente corrispondenti allo scopo di una vittoriosa prosecuzione della guerra. La distribuzione di volantini che dichiarassero che i bombardamenti erano una rappresaglia per gli assassinii di civili, inclusi specificamente gli ebrei, perpetrati dai nazisti non avrebbe certo prolungato il conflitto. Nel rifiuto di aiutare gli ebrei gli Alleati andarono molto oltre quanto le loro stesse politiche dichiarate, in se erronee e contraddittorie, richiedevano. Essi contravvennero ai loro stessi obiettivi bellici e macchiarono indelebilmente la loro immagine.
Come abbiamo visto, all’origine della posizione degli Alleati, persino nel caso di leader (e viene in mente Churchill) tutt’altro che indifferenti alla sorte degli ebrei, c’era una ragione. Gli Alleati non capirono veramente mai la politica antiebraica dei nazisti. Non prendevano i loro scritti e la loro propaganda alla lettera. Pensavano che l’antisemitismo nazista fosse uno strumento per conquistare il potere e mantenerlo: non si resero conto che, per loro, esso non era un mezzo, bensì uno scopo. Si creò così uno squilibrio: i nazisti vedevano negli ebrei i propri principali nemici, quelli che stavano dietro a tutti gli altri e li controllavano; gli Alleati non compresero, e forse non potevano comprendere, che quella demonizzazione, puramente illusoria, che trasformava una minoranza impotente e indifesa in una minaccia globale, era presa sul serio. Per loro gli ebrei erano solo una seccatura, e per gli inglesi una minaccia ai propri interessi nazionali in Palestina e Medio Oriente. La storia si prese la sua vendetta: gli inglesi non persero solo la Palestina, ma tutto l’Impero. L’avrebbero perso comunque, ma indubbiamente la guerra accelerò il processo. (pp. 309-310)

E oggi, a settant’anni di distanza, abbiamo entità simil-naziste che si producono in carneficine quotidiane, e che in discorsi e proclami e video e con ogni mezzo a loro disposizione annunciano apertamente i loro programmi di sterminio. E non vengono presi sul serio. E si deride chi sostiene che si dovrebbe invece farlo. E anche con noi, purtroppo, prima o poi la storia si prenderà la sua vendetta.

Il libro va letto, naturalmente.

Yehuda Bauer, Ebrei in vendita?, Mondadori
ebrei in vendita
barbara

LA FAMIGLIA KARNOWSKI

Una tensione indefinita, un misto di attesa, esaltazione e paura invase la capitale quando gli uomini in stivali s’impadronirono delle strade e delle piazze.
Erano ovunque, e in gran numero. Sfilavano in parata, sfrecciavano a tutta velocità in automobile o in motocicletta, brandivano torce accese, cantavano in coro e marciavano, marciavano, marciavano.
Il risuonare dei loro passi risvegliava il sangue. Non si sapeva bene che cosa i nuovi padroni avrebbero portato, ma tutti erano tesi, tesi ed elettrizzati. C’era una sensazione di anarchia, qualcosa di diverso dal solito, di festivo, di inquietante e di frenetico, come in un gioco infantile.
Di nuovo, come un tempo, c’erano fanfare, bandiere, uniformi, saluti militari, parate e discorsi altisonanti. Più fragoroso che in qualunque altro luogo, il martellare degli stivali echeggiava nella zona occidentale di Berlino, sul Kurfürstendamm, sulla Tauentzienstrasse, in tutto il quartiere dove vivevano e lavoravano i grandi commercianti, i professori, i direttori di teatro, gli avvocati, i medici e i banchieri dai capelli e gli occhi scuri. «Wenn das Judenblut vom Messer spritzt, dann geht’s noch mal so gut, so gut» [Quando il sangue ebraico zampilla dal coltello, allora tutto va di nuovo così bene, così bene] cantavano a squarciagola gli uomini del «nuovo ordine», marciando davanti ai negozi eleganti, alle banche e ai grandi magazzini di quelle strade, perché le zazzere nere udissero bene.
Le udivano benissimo quelle parole, coloro ai quali erano rivolte. Così come le udivano gli intellettuali, i giornalisti e gli intermediari seduti nei bar, con un giornale e l’eterna tazza di caffè. Anche loro erano inquieti per quanto stava accadendo, provavano un po’ di vergogna e si sentivano a disagio. Ma non erano seriamente spaventati. In fin dei conti si trattava solo di poche frasi di una stupida canzonetta. Del resto, nemmeno i commercianti della Friedrichstrasse e dell’Alexanderplatz le prendevano sul serio.
Gli affari andavano bene come prima, e anche meglio. La gente si riuniva nelle strade, era di umore spensierato, festoso, e spendeva i propri soldi dimenticando la prudenza e la parsimonia consuete. Nei bar, assieme allo strudel e al caffè, i camerieri portavano ai clienti abituali dai capelli neri i giornali esteri continuando a chiamarli «dottore», che il titolo fosse legittimo o meno. Nessuno credeva che tutto ciò potesse cambiare. Nessuno ci voleva credere. E poi, come sempre succede in caso di calamità, ognuno pensava che se doveva arrivare una disgrazia avrebbe colpito il vicino, non lui.
Rudolf Moser si recava come di consueto in automobile all’imponente stabile che ospitava la sua casa editrice. Per quanto fosse sgradevole sentire quei canti sul sangue degli ebrei, in nessun momento aveva pensato che potessero riguardarlo personalmente. È vero che era di origine ebraica, ma era battezzato da un bel pezzo, aveva una moglie cristiana, ed era addirittura membro del consiglio della Gedächtniskirche, la chiesa più prestigiosa della città. Il suo salotto era frequentato da politici in vista, anche di destra. Uno dei loro, il dottor Zerbe, era ricevuto in casa sua. Qualunque cosa potesse succedere agli ebrei, non riguardava lui, il cristiano.
Nemmeno i proprietari di grandi magazzini, i banchieri e i grossi commercianti, i direttori di teatro, gli attori e gli artisti celebri, nonché i professori di fama mondiale che appartenevano ancora alla comunità, pensavano che il sangue di cui doveva grondare il coltello potesse essere il loro. Il legame che mantenevano con la comunità era di natura puramente formale. Erano tedeschi fino al midollo, radicati nella cultura del paese. Avevano grandi meriti da far valere. I più giovani avevano combattuto al fronte e vi si erano distinti. Se qualcosa doveva accadere, sarebbe toccata agli ebrei osservanti, ai nazionalisti che si aggrappavano alla cultura ebraica e alcuni dei quali sognavano addirittura di emigrare in Asia.
Anche il dottor Spayer, rabbino della Nuova Sinagoga, non credeva che quelle minacce lo riguardassero. La sua famiglia non viveva in Germania da generazioni? Nelle sue prediche non usava il miglior tedesco? Non adornava i suoi sermoni con frasi di Goethe, Lessing, Schiller e Kant? Non aveva esortato i suoi fedeli a difendere il paese alla vigilia delle ostilità e a offrire il loro sangue e il loro ardore alla patria? Se qualcuno si poteva rimproverare, erano gli stranieri, gli immigrati di fresca data. Come durante la guerra, ricominciò a prendere le distanze dal suo amico David Karnowski. In questi tempi difficili è preferibile tenersi il più lontano possibile da gente di quel tipo, pensava. L’uomo non deve mettersi in pericolo. Beato l’uomo che ha sempre paura, è scritto.
Il dottor Georg Karnowski continuava a lavorare nella sua clinica, senza preoccuparsi troppo di quel che gridavano gli uomini in stivali, cioè che nella patria risvegliata i medici ebrei dovevano fare le valigie. Assurdo! È nato qui, qui ha compiuto gli studi, qui si è reso celebre per la sua importante attività medica. E poi ha fatto la guerra, è stato decorato, promosso capitano. Sua moglie è cristiana, tedesca da sempre. Se ha paura, è per i genitori. Stranieri, tuttora privi della cittadinanza tedesca, potrebbero avere dei problemi.
Nemmeno David Karnowski immaginava che potessero cacciarlo dal paese, lui che ci viveva da tanti anni, aveva mandato un figlio in guerra, era egli stesso un commerciante degno di fiducia, puntuale e onesto, al punto che ai tedeschi con cui trattava mancavano le parole per cantarne le lodi. Si era integrato alla perfezione nel paese, aveva assimilato la lingua fin nelle minime sottigliezze, era un occidentale al cento per cento che non aveva assolutamente più nulla a che vedere con l’Oriente. Se c’era un pericolo per gli stranieri, era convinto fosse per quelli arrivati in massa dopo la guerra, che si erano stabiliti nel vecchio Scheunenviertel. Accanto alla compassione per quella gente, David Karnowski provava anche un po’ di risentimento. Intanto erano arrivati in troppi. Poi, mentre infuriava l’inflazione avevano acquistato case per un tozzo di pane. Lui stesso aveva venduto il suo stabile a uno di loro. Inoltre molti erano ebrei con caffettano e cernecchi, amministratori di sinagoghe, cantori, scribi, rabbini vecchia maniera. David Karnowski spesso si vergognava nell’incrociarli in tram o nella metropolitana. Alcuni venivano anche a chiedere offerte nella parte ovest della città. Con il loro aspetto e i loro costumi non avevano reso un buon servizio agli ebrei berlinesi. Anche lui, pur essendo straniero, non riusciva a sopportare i nuovi venuti. Non c’era da stupirsi se si erano attirati l’odio dei gentili. È vero, anche fra di loro si trovavano persone rispettabili, gente colta e illuminata. Il vecchio Efraim Walder, per esempio. Ma nell’insieme la popolazione di quel quartiere costituiva un corpo estraneo nella capitale. Era possibile che gli uomini del nuovo regime si mostrassero poco teneri con gli stranieri senza documenti che vi risiedevano.
Gli abitanti dello Scheunenviertel facevano a loro volta distinzioni al proprio interno. A reb Hertzele Vishnik, il proprietario dell’albergo Franz Joseph sulla Dragonerstrasse, pareva evidente come due più due fanno quattro che lui e i suoi compatrioti, gli austriaci o i galiziani, come li chiamavano i russi, non correvano alcun pericolo. L’Austria non era stata alleata della Germania? I due paesi non avevano combattuto il nemico fianco a fianco? È vero che la parte di Austria chiamata Galizia era passata a nuovi padroni, i polacchi. Ma era successo perché era stata persa la guerra. In realtà quella regione era parte dell’Austria, e comunque considerata come tale. Sarebbe stato stupido credere che se la prendessero con loro, degli alleati, molti dei quali avevano combattuto in prima linea. Se avevano in mente qualcuno, si trattava dei russi, gli stranieri che avevano invaso il quartiere. A loro volta i russi facevano distinzioni: c’erano quelli con i documenti in regola e quelli i cui documenti erano dubbi. Questi ultimi si dicevano che nella peggiore delle ipotesi ci sarebbe sempre stato il consolato del loro paese. Il mondo non era una giungla. (pp. 260-264)

Già, è proprio così che è andata: ognuno credeva di far parte della categoria degli “ebrei buoni” e che la mannaia, se proprio doveva abbattersi, si sarebbe abbattuta su qualcun altro (e ancora oggi, ottant’anni dopo, ci sono ebrei che ancora non hanno imparato la lezione e non ne vogliono sapere di impararla). Come dice il vecchio, saggio talmudista, ti proponi di essere ebreo in casa e tedesco nel mondo e ti ritrovi a fare il goy in casa mentre quegli altri, fuori nel mondo, in te continuano a non vedere altro che l’ebreo.

Quando il libro è uscito, più di qualcuno ha gridato al capolavoro: avevano ragione, lo è. E dunque non vi resta che leggerlo.

Israel Joshua Singer, La famiglia Karnowsky, Adelphi
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barbara