ABBASSO I SANTINI!

È un post parecchio lungo, ma non ci posso fare niente: detesto i santini, come già più di una volta ho avuto occasione di dire, e per smontare le leggende e tirare giù gli idoli dal piedistallo serve un po’ di documentazione, e la cosa richiede il suo tempo, portate pazienza. Sono tre articoli, che si completano a vicenda, e quindi ho scelto di postarli tutti e tre.

Il patetico coro “grazie Gorbaciov” della stampa italiana

Un grande storico ricorda che fu solo un’altra cariatide sovietica che cercò di salvare la nomenklatura. “Sotto di lui più dissidenti morti in galera” (Solzenitsyn lo definì campione di ipocrisia)

“L’8 dicembre 1986 Anatoli Marchenko muore nel carcere di Chistopol dopo quattro mesi di sciopero della fame per il rispetto dei diritti umani in URSS, l’abbandono della tortura, l’applicazione degli accordi internazionali a cui l’URSS aveva sottoscritto, l’amnistia per i prigionieri politici. Gli osservatori dell’epoca ritenevano che i prigionieri politici sovietici morissero più nelle prigioni e nei campi sovietici nel 1986 che sotto Breznev”.
Lo ha scritto due giorni fa su Le Figaro Jean-Louis Panné, un grande storico ex direttore della casa editrice Gallimard, collaboratore del Libro nero del comunismo. Un articolo in totale controtendenza rispetto ai panegirici di Mikhail Gorbaciov apparsi in tutta la stampa italiana. Alla vedova di Marchenko non fu permesso neanche di portare il corpo di suo marito per la sepoltura a Mosca.

“Tutti i gruppi di monitoraggio degli accordi di Helsinki sui diritti umani all’epoca subirono una feroce repressione e furono smantellati” scrive Panné. “Molti di loro hanno pagato con la vita la lotta alla dittatura, di cui Gorbaciov non ha mai messo in discussione gli elementi essenziali, consentendo una straordinaria continuità alla polizia politica del regime. Nelle sue ‘Memorie’, Andrei Sacharov cita una serie di vittime sotto Gorbaciov. Sakharov, famoso in tutto il mondo, può tornare a Mosca, senza smettere di essere osservato. Simbolo di questa politica anti-dissenso è il momento in cui Gorbaciov gli prende il microfono per impedirgli di parlare davanti al Congresso dei Deputati del Popolo, le cui sessioni sono trasmesse dalla televisione nazionale, mentre il fisico chiede l’abrogazione dell’articolo 6 del Costituzione dell’URSS, che stabilisce il sistema del partito unico”.
Nella sua opera Gulag, la storica Anne Applebaum ricorda che un gruppo di deputati americani nel 1990 fece visita a Perm, il campo di concentramento sovietico: “La situazione rimaneva immutata. I prigionieri si lamentavano ancora per il freddo che dovevano patire e venivano rinchiusi nelle celle di rigore per ‘reati’ come il rifiuto di allacciare l’ultimo bottone dell’uniforme”.
Almeno quattro dissidenti morirono nei Gulag nei primi quattro anni di potere di Gorbaciov.
Anatolji Marcenko (una vittima di Gorbaciov) ne Le mie testimonianze descrive il gulag dell’epoca gorbacioviana. “Sono stato sottoposto a umiliazioni e angherie. Molte volte mi hanno rinchiuso nella cella d’isolamento, dove danno il cibo un giorno ogni due, in cui la temperatura non supera i 14 gradi, mentre ti tolgono gli indumenti caldi”. Pavel Protsenko, bibliotecario e ortodosso, fu chiuso in un manicomio e sottoposto a perizia psichiatrica. Nikolaj Serebrjannlkov venne sottoposto a trattamenti a base di psicofarmaci, colpevole di avere scritto lettere a Gorbaciov denunciando le persecuzioni cui erano ancora sottoposti i credenti. Come il cristiano ortodosso Alekzandr Ogorodnikov, arrestato (tre volte) a causa della sua partecipazione al movimento di rinascita religiosa, condannato per “parassitismo”. Ci fu il caso di Lev Timofeev, economista e giornalista, autore di due lucidissimi pamphlet pubblicati in Occidente ed editi in Italia da Il Mulino e SugarCo. Timofeev denunciò, con passione e amarezza, la resistenza popolare al malgoverno dell’economia, primo intellettuale a essere arrestato e condannato dopo la nomina di Gorbaciov a segretario generale del Pcus. E Anatolij Korjagin, un medico che aveva denunciato gli abusi della psichiatria a fini politici. Un famoso poeta, Vasyl Stus, morì in un campo di lavoro sovietico sotto Gorbaciov.
Nel 1988, tre anni dopo l’ascesa al potere di Gorbaciov, il dissidente Mikhail Kukobaka, dopo 16 anni trascorsi in campi di prigionia, ospedali psichiatrici e celle di isolamento per le sue proteste contro il sistema sovietico, lasciò finalmente il gulag di Perm, sugli Urali. Un gesto di buona volontà di Gorbaciov. Ma Kukobaka disse: “Nelle carceri, nei campi, non c’è glasnost, non c’è perestrojka. Glasnost è destinata all’esportazione come mezzo di controllo sull’opinione pubblica occidentale”.
“C’erano molte vie d’uscita dal comunismo, ma Gorbaciov non aveva tale obiettivo” dirà anche Alexander Solzenitsyn al New York Times. “Gorbaciov lanciava slogan sulla perestrojka, ma stava pensando a come trasferire la nomenklatura in comode sedi commerciali. La sua perestrojka era solo ipocrisia”.
La Gorbymania (come la Castromania) in Occidente è sopravvissuta alla dipartita dei loro fondatori.
Giulio Meotti

Per non parlare della Cheguevaromania, e adesso anche la Zelenskymania: tutte le peggiori fecce diventano oggetto di culto.

Gorbaciov, ecco perché in patria lo ricordano così male

È abbastanza evidente che, al tono celebrativo con cui si commemora Gorbaciov in Occidente, si contrappone un cattivo ricordo da parte dei suoi ex cittadini. Non solo quelli delle repubbliche ex sovietiche, che subirono la sua repressione armata. Ma anche quelli dei russi stessi, che patirono la crisi economica finale. 

Gli articoli e gli editoriali sulla morte di Gorbaciov, in questi due giorni dopo la sua morte, sono tutti più o meno celebrativi. L’ultimo presidente sovietico fu l’uomo che pose fine alla guerra fredda, dunque viene ricordato soprattutto per il suo ruolo di pace. Ma non si comprende come mai in patria, sia in Russia che nelle altre repubbliche ex sovietiche, sia ricordato con estrema ostilità. Benché rispettato dal nuovo regime, Putin stesso gli ha reso omaggio, non ha ottenuto funerali di Stato. È una figura, ormai storica, divisiva e impopolare. Perché?

Si fa presto ad affermare che Gorbaciov sia odiato dai nostalgici dell’Urss, che con Putin sono tornati in auge. Certamente, questa fu l’opposizione più visibile ed anche più violenta. Nel periodo dal 1985 al 1989, il Kgb era ben consapevole dei limiti economici, militari e strutturali dell’Unione Sovietica. Fu il Kgb a incoraggiare la promozione di Gorbaciov a Segretario Generale, dopo la morte di Chernenko, approvata poi dal Comitato Centrale con voto unanime. Gorbaciov era già uomo di fiducia di Andropov, storico direttore del Kgb e poi segretario generale dell’Urss dal 1982 al 1984. Gorbaciov venne selezionato perché relativamente “giovane” (54 anni nel 1985) e aperto di mente, ma fedele al sistema comunista. Il Kgb stesso promosse e in un certo senso incoraggiò l’abbandono dei regimi dell’Est europeo, con quella che venne informalmente chiamata la “dottrina Sinatra”: ciascuno per la sua strada. Tuttavia, l’atmosfera cambiò repentinamente quando nei regimi ex comunisti le elezioni vennero vinte da partiti non comunisti, a partire dalla Polonia.

Esercito e Kgb si coalizzarono per impedire che la disgregazione del blocco orientale divenisse disgregazione anche della stessa Urss. E pretesero che Gorbaciov imponesse l’ordine alle repubbliche secessioniste, anche proclamando lo stato d’emergenza. Il segretario generale usò la forza (contro Kazakistan, Georgia, Azerbaigian, Lituania e Lettonia), ma rifiutò il cambio di passo preteso da militari e servizi. Fu questo rifiuto che portò al tentativo di golpe contro di lui, nell’agosto del 1991. Il resto è noto: il golpe fallì, Gorbaciov ottenne una vittoria apparente, ma di fatto aveva già perso il potere. Eltsin, il presidente della Repubblica Socialista Federativa Russa, si oppose in prima persona ai militari e divenne lui il leader politico carismatico della nuova stagione russa che portò alla disgregazione dell’Urss. Dopo il collasso sovietico, esercito, ex servizi segreti, burocrazia statale, non perdonarono mai a Gorbaciov di aver causato il “crollo” dell’impero, di essersi lasciato sfuggire di mano il processo di riforme e decentramento che loro stessi avevano avviato.

Nelle repubbliche ex sovietiche, al contrario, non perdonano a Gorbaciov quelle ultime repressioni della stagione di sangue del 1986-91, volte a tenere assieme un’Urss in piena frammentazione. In Kazakistan ricordano gli oltre 200 morti civili del massacro di Alma Ata del dicembre 1986. Quando Gorbaciov sostituì il segretario generale locale Dinmukhamed Kunaev con il russo Gennadij Kolbin, i kazaki inscenarono proteste che vennero schiacciate con la forza delle armi. Gli armeni non perdonano a Gorbaciov di aver permesso (o non ostacolato abbastanza) i primi massacri compiuti dagli azeri nel Nagorno Karabakh nel 1988 e 1989. Gli azeri, al contrario, non dimenticheranno mai il massacro di Baku, il “gennaio nero” del 1990, quando le forze regolare e le truppe speciali del KGB entrarono nella capitale azera per stroncare sul nascere il locale Fronte Popolare (indipendentista e anti-armeno), uccidendo da 130 a 170 persone, in gran parte civili, fra il 19 e il 20 gennaio. I lituani non dimenticano la “domenica di sangue”, culmine di tre giorni di intervento militare sovietico (11-13 gennaio 1991) contro la repubblica baltica, dopo la sua proclamazione di indipendenza. Mentre il mondo era distratto dalla Guerra del Golfo, che sta appena iniziando, i sovietici nella notte fra il sabato 12 e la domenica 13 gennaio 1991, tentarono di occupare la capitale lituana, a partire dalla conquista della sede della televisione. La folla inerme oppose resistenza, vi furono meno morti rispetto ai precedenti massacri (14 le vittime), ma fu comunque traumatico, il tutto ripreso quasi in diretta dai media locali e internazionali. Contemporaneamente, e per lo stesso motivo, i carri sovietici entravano anche a Riga, ma dopo dieci giorni di confronto fra manifestanti (protetti da numerose barricate in cemento) ed esercito, l’Armata si ritirò. Non prima di aver fatto altri 6 morti, fra cui due poliziotti lettoni.

Se nelle repubbliche ex sovietiche vedono in Gorbaciov l’ultimo dei dittatori occupanti, non meno repressivo dei suoi predecessori, anche i dissidenti russi tendono a considerarlo come uno storico bluff. Significativa la reazione di Kasparov, campione di scacchi e poi dissidente: al momento della morte dell’ultimo leader sovietico ha twittato “Come giovane campione del mondo sovietico e beneficiario della perestrojka e della glasnost, ho spinto ogni muro della repressione per testare i limiti improvvisamente mutevoli. Era un periodo di confusione e di opportunità. Il tentativo di Gorbaciov di creare un ‘socialismo dal volto umano’ fallì, e grazie a Dio”. Le pagine più drammatiche di denuncia, le scrisse un altro dissidente, Vladimir Bukovskij, nel suo Gli Archivi Segreti di Mosca: “Per quanto ci affannassimo a spiegare che il sistema sovietico non era una monarchia e che il segretario generale non era uno zar, chi in quel momento non avrebbe comunque augurato il successo al nuovo zar-riformatore? Delle centinaia di migliaia di politici, giornalisti e accademici, solo un minuscolo gruppetto conservò una sufficiente lucidità per non cedere alla seduzione, e un gruppo ancor più sparuto di esprimere apertamente i suoi dubbi”.

La repressione del dissenso interno non finì affatto con l’ascesa al potere di Gorbaciov. Come documenta Bukovskij, dai files presi negli archivi del Cremlino, ancora nel 1987, il KGB organizzava campagne per arrestare i dissidenti, far fallire le iniziative a favore dei diritti umani, impedire l’ingresso di intellettuali e attivisti stranieri. Il tutto era ordinato da Chebrikov, direttore dei servizi segreti, con il pieno appoggio di Gorbaciov. Nella sua monumentale opera Gulag, la storica Anne Applebaum, ci ricorda come gli ultimi campi di concentramento vennero chiusi nel 1992, l’anno dopo la fine dell’Urss. “Tipica di quel periodo è la vicenda di Bohdan Klimchak – scrive la Applebaum – un tecnico ucraino arrestato per aver tentato di lasciare l’Unione Sovietica. Nel 1978, temendo di essere arrestato con l’accusa di nazionalismo ucraino, aveva varcato la frontiera sovietica con l’Iran e chiesto asilo politico, ma gli iraniani lo avevano rimandato indietro. Nell’aprile 1990 era ancora detenuto nella prigione di Perm. Un gruppo di congressisti americani riuscì a fargli visita e scoprì che, in pratica, a Perm la situazione rimaneva immutata. I prigionieri si lamentavano ancora per il freddo che dovevano patire e venivano rinchiusi nelle celle di rigore per ‘reati’ come il rifiuto di allacciare l’ultimo bottone dell’uniforme”.

Tuttavia fu un altro prigioniero politico ucraino, Anatolij Marchenko, che determinò un primo grande cambiamento nel sistema concentrazionario sovietico. Per protesta contro le orribili condizioni degli internati nei campi, intraprese lo sciopero della fame e fu lasciato morire l’8 dicembre 1986. La vicenda fece scalpore anche all’estero e Gorbaciov si decise ad approvare un’amnistia generale. Non fu, appunto, la fine del sistema dei campi in quanto tale (che come abbiamo visto chiuse solo nel 1992), ma la fine del Gulag come metodo statale repressivo. Il Kgb accettò, sia secondo la Applebaum, che secondo voci dissidenti come quella di Bukovskij, perché l’amnistia ormai “costava” poco al regime. Non si doveva fare alcuna retromarcia ideologica: i prigionieri, graziati, dovevano comunque firmare delle dichiarazioni di pentimento. E giunti alla fine degli anni Ottanta, la dissidenza, ridotta allo stremo, non era considerata più un pericolo per il regime, come si legge dai documenti di allora.

I dissidenti sono, appunto, una minoranza. La maggioranza dei russi ha pessimi ricordi di Gorbaciov per le sue maldestre riforme economiche. “Mi trovai ben presto — ricorda l’allora ambasciatore Sergio Romano al Corriere — ad osservare criticamente gli avvenimenti. Rimproveravo a Mikhail Sergeevic (Gorbaciov, ndr) di non avere un vero programma economico. Va bene concedere più libertà: tutti erano giustamente contenti. Ma cosa fare del sistema di produzione collettivo? Lui parlò della creazione di una ‘industria sociale’: ma non spiegò mai in cosa consistesse”.

Gli anni di Gorbaciov furono anni di ristrettezze. E anche di proibizionismo dell’alcool, che aggiunse ulteriore disperazione ad uno scenario lugubre di suo, con code per il pane e razionamenti. Particolarmente catastrofica fu la “riforma monetaria” del 22 gennaio 1991. A sorpresa, nottetempo, per stroncare i proventi del lavoro nero e del contrabbando, vennero confiscate tutte le banconote da 50 e 100 rubli. La procedura di sequestro permise di ritirare dalla circolazione 14 miliardi di rubli in contanti, ma bruciò i risparmi di decine di milioni di sovietici, soprattutto quelli più benestanti. Nell’aprile successivo, nel tentativo di riallineare il prezzo di Stato a quello di mercato, tutti i prezzi triplicarono di colpo. Furono gli ultimi fuochi prima del collasso.

Alla fine, il cambiamento venne da quel che Gorbaciov non fece: non impose più la censura sulla storia e sulla letteratura, con la sua politica di Glasnost (trasparenza). Per i sovietici non russi fu il momento di parlare nella propria lingua nazionale. E di raccontare ancora la loro storia nazionale, compresi i capitoli più oscuri, come il patto del 23 agosto 1939 (declassificato solo nel 1989) con cui Stalin e Hitler si erano spartiti l’Europa orientale. I russi stessi poterono leggere gli orrori che avevano subito e di cui non avevano potuto raccontare nulla fino ad allora. Fu la verità, alla fine, che ebbe il sopravvento e determinò il crollo del sistema che Gorbaciov voleva riformare.
Stefano Magni, qui.

Qui, in realtà, è completamente sbagliato il titolo: in patria, a differenza che qui, lo ricordano benissimo, per questo lo odiavano a morte e tuttora lo odiano.
Un piccolo ricordo personale che può dare un’idea di quanto fosse artificiale l’economia: al cambio ufficiale un dollaro valeva mezzo rublo, al cambio nero, ossia quello reale, quello del valore reale del rublo, un dollaro ne valeva cinque.

Gorbachev: non un democratico ma l’ultimo dittatore sovietico

Non pose fine alla Guerra Fredda, la perse. Il suo programma non era la libertà dei popoli dell’Est, ma salvare il comunismo. Involontariamente ne dimostrò la irriformabilità

Premetto che ignorerò volutamente i coccodrilli della stampa italiana sulla vita e opere dell’ultimo segretario del PCUS, Michail Gorbachev, morto martedì sera all’età di 91 anni.
Per non dire dei comunicati agiografici dei politici o della diplomazia internazionale, che ricordano il “padre della perestroika” secondo la vulgata preconfezionata che l’Occidente ha comprato, impacchettato e diffuso in questi decenni. Così come le celebrazioni dei vetero-comunisti che si rallegrano della dipartita del “becchino dell’URSS”.

Il paradosso di Gorbachev
La vicenda politica di Gorbachev è prigioniera di un paradosso che ne stravolge completamente il senso storico: osannato da una parte come un cavaliere alato che libera l’Europa dal giogo comunista, disprezzato dall’altra come un traditore che consegna l’esperienza sovietica alle grinfie del nemico capitalista. Non è stato né l’uno né l’altro.
Il settimo segretario andrebbe semplicemente ricordato, a modesto parere di chi scrive, come l’uomo che pensava di salvare il comunismo da se stesso, il meno impresentabile dei successori di Lenin, la cui eredità affermava esplicitamente di voler recuperare, non un democratico ma l’ultimo dei dittatori. E, soprattutto, il grande sconfitto della Guerra Fredda.

Un caso di eterogenesi dei fini
Più che aggettivi, conviene utilizzare due avverbi per descriverne personalità e azione: involontariamente e inconsapevolmente. Un eroe o un villano suo malgrado, uno statista che – spostando alcuni mattoncini di un kafkiano castello di sabbia [? Fatto di sabbia o fatto di mattoni? Quello di Kafka, in ogni caso, è fatto di solidissima pietra] – se l’è visto cadere addosso [la sabbia o i mattoni?], la rappresentazione plastica del concetto di eterogenesi dei fini.
Il programma di Gorbachev non era affatto la libertà per i popoli del socialismo reale, che se la sono presa da soli quando hanno visto che il re era nudo, né tantomeno per le genti del moloch sovietico, ma piuttosto salvare a tutti i costi l’URSS e il comunismo da una morte certa.
Nel suo tentativo di cambiare tutto affinché nulla cambiasse, non si intravede la lungimiranza di chi riconosce i risultati disastrosi di un esperimento sbagliato ma l’ostinazione conservatrice di salvare la decrepita carcassa del marxismo-leninismo, adattandola a una realtà immaginaria che sarebbe stata spazzata via al primo contatto con quella tangibile.
Con la perestroika e la glasnost, due concetti che hanno assunto vita propria nel corso degli anni, Gorbachev ha involontariamente attivato il meccanismo di demolizione controllata del comunismo in Europa Orientale e inconsapevolmente provocato la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Un fallimento politico dall’esito felice per chiunque consideri il totalitarismo come il male assoluto.

Interlocutore affidabile
Non è mia intenzione ripercorrere qui le tappe del mandato gorbacheviano, soprattutto in politica estera. Sulla sua biografia troverete in questi giorni decine di articoli, quasi tutti uguali. Sarebbe assurdo peraltro negare una certa soluzione di continuità rispetto ai suoi predecessori nella gestione delle dinamiche più critiche della Guerra Fredda, a partire dagli accordi sulla riduzione delle testate nucleari firmati con il presidente Reagan.
Gorbachev lesse correttamente lo spirito del tempo e l’opportunità di una distensione effettiva con l’Occidente democratico e capitalista. Al di là della retorica della “casa comune europea”, un concetto da pubbliche relazioni purtroppo carente di significato politico concreto, va riconosciuto all’ultimo segretario del PCUS il tentativo di proporsi come un interlocutore affidabile, dopo decenni di conflitto ideologico tra due schieramenti ideologicamente contrapposti.
Ma l’insanabile contraddizione di questa prospettiva, che la maggior parte delle analisi pre e post-mortem tende sospettosamente a tacere, è che non si trattava in nessun caso di un confronto tra blocchi equiparabili: da una parte si trovava un sistema imperfetto ma generalmente rispettoso della dignità umana, dall’altra uno che ambiva alla perfezione dell’uomo nuovo facendo scempio da decenni delle più elementari norme di civiltà e diritto.

Una contraddizione insanabile
Gorbachev cercò probabilmente di colmare almeno in parte questo gap, che ancora oggi risulta decisivo nell’ambito delle relazioni internazionali, nonostante il parere contrario del fondamentalismo realista. Ma rimase a metà del guado, volendo salvare l’insalvabile ed esponendosi così alle critiche sia della nomenklatura, che vedeva traballare i suoi privilegi, sia dei veri riformatori che gli imputavano l’eccessiva lentezza delle sbandierate riforme economiche e politiche.
Da qui discende il secondo insuperabile paradosso della sua traiettoria: l’azione del grande riformatore sarà ricordata per aver dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio l’irriformabilità del comunismo.

La continuità
Scrive Michel Heller nella sua biografia politica di Gorbachev che “la storia dei sette segretari (del PCUS) indica che la loro preoccupazione essenziale era la conquista del potere” e che avevano sempre giustificato la “volontà di potere” con la “necessità di disporre di uno strumento che permettesse la realizzazione di riforme”.
È chiaro che non si tratta di comparare la tragedia della collettivizzazione staliniana con la perestroika ma di comprendere la linea di continuità che unisce il primo dittatore totalitario della storia europea (Lenin) con l’ultimo dittatore riformista dell’Unione Sovietica. Una continuità, vale la pena ribadirlo, rivendicata a più riprese dallo stesso Gorbachev.
“Assistiamo”, continua Heller, “all’elaborazione di una struttura finita: il potere è necessario per la realizzazione delle riforme, le riforme sono indispensabili per la realizzazione del potere”. Il sistema sovietico si è perpetuato per 74 anni attraverso questo meccanismo endogeno, una sorta di rivoluzione permanente chiusa su se stessa, strumentale al consolidamento di un potere assoluto che nessuno avrebbe dovuto sfidare.
Gorbachev, l’ultimo dei dittatori sovietici, non fa eccezione. Il cadavere agonizzante dell’URSS andava tenuto in vita a tutti i costi, e con esso il gorbachevismo. Anche con le cattive, se necessario. Come a Riga e a Vilnius, nel gennaio 1991, a Tbilisi, due anni prima, a Baku, nel 1990, ad Almaty, nel 1986.
Se non ne avevate sentito parlare, non sorprendetevi, non rientrano nella narrazione mainstream sul campione di democrazia, sul Nobel per la Pace e sull’artefice della fine della Guerra Fredda. Così come non vi rientra l’appoggio convinto che un Gorbachev già senile diede all’annessione della Crimea nel 2014, supporto che gli è valso il divieto di ingresso da parte delle autorità ucraine [sarebbe più corretto ricordare che la Crimea, storicamente russa e popolata da russofoni da sempre, era stata proditoriamente regalata all’Ucraina da Krusciov sessant’anni prima. Quello del 2014, seguito a regolare referendum, è stato un puro e semplice atto di giustizia].
D’altra parte gli ucraini avevano già sperimentato di prima mano gli effetti della glasnost del segretario generale, quando sull’incidente nucleare di Chernobyl era calato per giorni il silenzio tombale del Politburo, con tanto di sfilate del primo maggio nelle zone contaminate dalle radiazioni.

L’errore decisivo
Quando vede che il Paese gli sta sfuggendo di mano, incalzato dai liberali che premono per l’instaurazione di un’economia di mercato senza palliativi, Gorbachev compie l’errore decisivo del suo mandato.
I politologi l’hanno curiosamente chiamata “svolta a destra”, in realtà è un riavvicinamento alla sinistra comunista più ortodossa: negli stessi giorni in cui invia le truppe a reprimere l’indipendentismo dei Paesi Baltici, nomina uno dopo l’altro ai posti di comando gli oltranzisti che pochi mesi dopo tenteranno di esautorarlo nel golpe di agosto.
La vecchia guardia torna di fatto al potere, con Pugo agli Interni, Kravchenko alla guida della televisione di Stato, Janaev alla vicepresidenza. Sarà Boris Eltsin, da un mese presidente eletto della Russia, a salvarlo dall’arresto in Crimea e a riportarlo al Cremlino ormai delegittimato dai costanti tentennamenti, fughe in avanti e penose retromarce.

La fine
Mentre le repubbliche sovietiche si preparano a dichiarare la loro autonomia da Mosca, il 23 agosto Gorbachev si presenta davanti al Soviet Supremo russo in un atto di gratitudine e contrizione allo stesso tempo. Non ha capito però che il suo tempo è finito, e con lui quello dell’URSS.
Eltsin interrompe il suo discorso chiedendogli di leggere i nomi dei golpisti, uno ad uno, per poi costringerlo di fatto ad accettare la sospensione delle attività del Partito Comunista russo. È una scena drammatica per un leader ormai superato dagli eventi, trasmessa in mondovisione.
Da quel momento è un susseguirsi di reazioni a catena, fino alla firma del trattato di Belavezha che a dicembre decreta la fine ingloriosa del primo Stato comunista della storia.
Il resto è cronaca. I primi anni di Eltsin, unica vera parentesi democratica nella millenaria tragedia russa [beh, ecco, sulla “vera democrazia” dell’alcolizzato costantemente ubriaco Eltsin io stenderei un grosso grosso grosso velo pietoso], la crisi economica e sociale degli anni della transizione [la crisi economica, giusto per polemizzare appena appena un pelino, è iniziata immediatamente dopo la gloriosa Rivoluzione d’Ottobre, e anche se è vero che anche in questo campo Gorbaciov è riuscito a combinare disastri, non sono molto sicura che la situazione fosse peggiore di quella al tempo della collettivizzazione forzata e della grande carestia fabbricata a tavolino da Stalin], il passaggio di consegne ad un ex funzionario del KGB [beh, no, non è esattamente così che stanno le cose: quando nel 1999 Eltsin lo ha nominato primo ministro, Putin non era solo un ex colonnello del KGB ma anche un politico che da tre anni lavorava nell’amministrazione Eltsin; poi dopo le dimissioni di Eltsin è stato eletto presidente della repubblica: nessun “passaggio di consegne”, dunque, bensì un semplice, normale avvicendamento secondo le regole della democrazia. Sminuire le persone antipatiche tagliandone le competenze non è mai una buona politica, come stiamo vedendo anche in Italia] per cui il crollo di quell’immensa prigione di genti chiamata Unione Sovietica rappresenta ancora oggi “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”[quell’immensa prigione di genti (e di che altro dovrebbe essere una prigione?) era anche uno stato potente, temuto e rispettato: attribuire il rimpianto alla prigione anziché alla potenza io lo chiamerei malafede preconcetta, oltre a un mai nascosto odio personale contro Putin].
Per capire la Russia putiniana, che molti si accontentano di definire semplicemente fascista, non si può non partire dal treno di Lenin finanziato dai tedeschi [io credo che per capire la Russia putiniana sarebbe meglio partire dall’impero zarista, e magari leggere qui] e da lì ripercorrere le tappe della sua successione al vertice del Cremlino, dalla prima all’ultima. RIP, Mr. Gorbachev.
Enzo Reale, qui con tutti i link, che non mi è stato possibile riprodurre, in particolare quelli relativi alle feroci repressioni delle rivolte delle repubbliche baltiche, Georgia ecc..

Certo che se quest’uomo riuscisse a scrivere i suoi articoli in maniera un po’ meno prolissa sarebbe un gran bene per tutti – oltre a varie pecche qua e là che non ho potuto non segnalare, per non parlare di quella chiusa appiccicata con lo sputo. Restano comunque valide le informazioni. Io le violente repressioni degli stati baltici e di tutti gli altri che hanno provato a sollevarsi le ricordo bene, ma da quello che si legge in giro sono in parecchi ad averle dimenticate, o mai conosciuto perché troppo giovani.
Aggiungo ancora un piccolo ricordo personale: nel corso di una visita a un museo, noto che ha una pessima illuminazione, che penalizza i quadri, e la guida, immediatamente: “Era così già al tempo degli zar”. Cioè, voi in sessant’anni di potere non siete stati capaci di cambiare due lampadine, ma la colpa è degli zar.

barbara

E IL VAMPIRO HA MORSO ANCORA

e la giugulare, ormai semivuota, si sta afflosciando. Di cose da dire e citare ne avrei da qui all’eternità, ma per oggi mi accontento di questi due importanti articoli.
Le immagini che troverete inserite negli articoli, sono prese dalla rete e inserite da me
, e lo stesso vale per i video.

Così il Palazzo e i media complici cercano di screditare la protesta: i ceti invisi alla sinistra diventano fascisti e camorristi

È in atto un processo di cinesizzazione: i nuovi ultimi, piccoli imprenditori, bottegai e filistei invisi alla sinistra, non possono nemmeno lamentarsi. A Napoli, a Roma scendevano in piazza, miti anche da spaventati, da esasperati, ma con la complicità dell’informazione organica conviene dire che ogni protesta è infiltrata dalla delinquenza organizzata e dai fascisti, mai da altre forme. La sinistra sovversivista che sostiene le rivolte del Black Lives Matter in America, qui tiene i dimostranti in sospetto di criminali, di carogna e vuole sparargli addosso

L’infiltrazione è la strategia del potere quando vuole bloccare il malcontento. Ce la ricordiamo, noi figli del secolo scorso, avevamo imparato a sgamarli subito i personaggi targati alle manifestazioni sul terrorismo, la buonanima di Cossiga teorizzava apertamente la sedizione inscenata per poter domare quella vera. Serve a paralizzare la protesta ma, prima e meglio ancora, a ritorcerla, a strumentalizzarla. Roba da professionisti, ma l’hanno imparata subito gli avventizi attuali, che possono dire: avete visto, non siete affidabili; tumulti a Napoli, tumulti a Roma e noi chiudiamo tutto; lo facciamo per voi, per tenervi in sicurezza. È un colpo basso e lo sanno e lo sappiamo: a Napoli, a Roma scendeva in piazza la gente comune, i bottegai e i precari a vita, miti anche da spaventati, da esasperati, ma conviene dire che erano tutte escandescenze fasciste e camorriste. La verità essendo che in ogni adunata c’è una quota fisiologica di mattocchi o di provocatori e anche a Napoli, a Roma, a quelli di Forza Nuova si saldavano gli altri balordi dei centri sociali e la manovalanza delle famiglie di malaffare. A Napoli, poi! Dove i centri sociali sono tenuti in palmo di mano dal sindaco De Magistris che ha fatto assessora una di loro e di fronte allo spettacolo dei Masanielli magari si leccava i baffi.

e a proposito di infiltrati

Bello, vero?

Ma come la mettiamo col piazzale di Montecitorio, blindato ai cittadini e perfino agli operatori dell’informazione già sere prima degli scontri napoletani e romani, come ha fatto vedere Barbara Paolombelli? La mettiamo che il Potere – per una volta lasciatecelo identificare con la retorica maiuscola, pasoliniana – il Potere sa di essere inviso ai cittadini, per quanto l’informazione organica propali il contrario, e si premunisce; sa che le misure assurde, grottesche in gestazione potranno scatenare autentiche rivolte e agisce per neutralizzarle e per dirottarle.
C’è una tecnica del colpo di stato, ma anche una tecnica dello stato che colpisce, che protegge se stesso. Oggi la tecnica è elementare, sta in questo: dire che ogni protesta è infiltrata dalla delinquenza organizzata e dai fascisti – mai da altre forme. La sinistra sovversivista che sostiene le rivolte del Black Lives Matter in America, qui tiene i dimostranti in sospetto di criminali, di carogna e vuole sparare sulla feccia, come dice quell’esponente piddino.

occhio però, che a mandare le forze dell’ordine per sparare potrebbe andare a finire così

e per voi potrebbe non mettersi troppo bene

Annuncia la titolare del Viminale, la Lamorgese degli sbarchi incontrollati: sono pronta a militarizzare tutto il Paese.

Segnali preoccupanti, che l’informazione controllata non raccoglie e, se li raccoglie, è per legittimarli, per propagandarli. Il ministro Speranza va da Fazio a gettare il suo ballon d’essai, quasi a far intendere che si potrebbe mandare la polizia politica casa per casa, contando sullo spionaggio diffuso. Com’è ovvio ci rimette la faccia ma niente paura, c’è pronto lo Scanzi non più antipiddino il quale lo ospita nel suo piccolo talk show, gli stende rossi tappeti d’amore.

Ai tempi si chiamava collaborazionismo, oggi conviene dire senso di responsabilità. Come i testimonial del Covid, cantanti, sportive, perfino politiche in fama di gossippare che annunciano orgasmiche: anche io sono positiva! Sono spontanee o ispirate simili pagliacciate? Lo sanno o non lo sanno che così facendo contagiano di isteria somatizzante migliaia di anime semplici? Ma sì, ma quante storie, l’importante è esserci, mettersi in mezzo, ci può sempre scappare un affare, la logica influencer ha contagiato anche loro, ha contagiato tutti.
Il ceto medio che fu, la borghesia mercadora sempre in fama di meschina e farabutta, non ha più voce in capitolo; se scende in piazza la confondono coi fascisti e i mafiosi, se protesta in televisione la prendono in giro, la zittiscono. Pierluigi Bersani, che proviene dal PCI, ha fatto capire senza timor di vergogna che non meritano alcun sostegno perché tanto sono più o meno tutti evasori. Il governo che chissà perché si ostinano a definire rosso-giallo quando è semmai rosso antico, cambogiano o socialfascista, per l’intera filiera produttiva ha stanziato l’elemosina di 6 miliardi e il Pd è chiaramente per un atteggiamento punitivo, basta sentirli parlare. E più ci si sposta all’estrema e più si avallano misure concentrazionarie: chi è che spalleggia senza scrupoli le trovate devastanti e repressive di Conte? La sinistra fantasma delle sigle evanescenti di Liberi e UgualiSinistra e Libertà.
È in atto un processo di cinesizzazione, o, come diceva il Mussolini proveniente dal socialismo massimalista rivoluzionario: “Tutto nello stato, nulla al di fuori dello stato, niente contro lo stato”. Ma lo stato è in braghe di cartone e i soldi dell’Europa non arriveranno. I nuovi ultimi, i piccoli imprenditori, i bottegai e filistei invisi alla sinistra, e purtroppo anche alla destra romantica e parolaia, muoiono senza potersi neppure lamentare, ma solo chi ci è passato sa che abbassare una saracinesca per l’ultima volta non è la morte di un’attività ma della propria vita, dei propri sforzi, delle speranze, della fatica, della libertà di una vita.
Max Del Papa, 26 Ott 2020, qui.

Una Caporetto sanitaria, economica, giuridica. Ma ora guai a farsi tentare da “governissimi”

Che il governo fosse allo sbando, del tutto inadeguato ad affrontare questa emergenza, noi di Atlantico Quotidiano l’avevamo ben chiaro già dal marzo scorso [beh, non solo voi, ma chiunque avesse occhi da vedere, orecchie da sentire e neuroni da connettere]. Che l’uso, anzi l’abuso dei Dpcm fosse una deriva pericolosa, uno strappo allo stato di diritto e alla dinamica democratica, anche. Sulla comunicazione irresponsabile di Palazzo Chigi siamo tornati più volte. Ma tutto si sta ripetendo.

Sì, ma non proprio proprio uguale:

La linea dello scaricabarile sugli italiani non cambia: il governo è capace solo di scaricare l’emergenza su cittadini e attività economiche, cioè sulla sfera privata, prima imputando loro l’aumento dei contagi, poi disponendo obblighi e divieti, mentre continua a dimostrarsi totalmente incapace di occuparsi di ciò di cui è responsabile: la sfera pubblica. Le misure contenute nell’ultimo Dpcm – il terzo in dieci giorni! – ne sono la prova. Dopo nemmeno un mese di risalita dei contagi, il sistema sanitario (e di protezione civile) si trova nuovamente del tutto impreparato dinanzi a ciò che era ampiamente e da tutti previsto, nonostante il governo abbia avuto 5-6 mesi di tempo per rafforzarlo e riorganizzarlo.
Quello che andava fatto, e non è stato fatto, è sotto i nostri occhi

e oggi, a differenza della primavera scorsa, è sotto gli occhi dei cittadini, aumentandone l’esasperazione. Non sono state aumentate a sufficienza le terapie intensive né create strutture temporanee idonee a ospitare malati Covid; non è stato potenziato a sufficienza il personale negli ospedali e nelle Asl, per cui l’esito dei test non è ancora tempestivo come dovrebbe, il tracciamento dei contatti è lento ed è andato subito in tilt; non è stato potenziato il trasporto pubblico locale né sono stati implementati test rapidi per le scuole; non esistono protocolli per seguire nelle loro case i pazienti meno gravi, che invece vanno a intasare gli ospedali con ricoveri al 20-30 per cento non necessari.
Ad agosto, ricorderete, la telenovela del bando per i banchi a rotelle… Non sapevamo, all’epoca, che il bando per le nuove terapie intensive sarebbe arrivato solo a ottobre. E solo sabato scorso, 24 ottobre, la Protezione civile si è degnata di far partire i bandi per 1.500 unità di personale medico e sanitario e 500 addetti amministrativi a supporto del contact tracing.
Insomma, un disastro. Il conto, salato, è arrivato con il Dpcm di ieri a cittadini e imprese. Subdolamente: un inizio di lockdown senza chiamarlo lockdown.
Misure adottate con l’unico scopo di far vedere che il governo sta facendo qualcosa, purchessia. Il loro impatto sulla diffusione del virus sarà probabilmente trascurabile, visto che non sono supportate dai dati dei contagi nelle attività che si vanno a chiudere e limitare.

Si tratta quindi di misure prive di logica, ragionevolezza e proporzionalità, principi cardine che dovrebbero guidare le decisioni quando sono in gioco limitazioni così profonde delle libertà fondamentali. Esiste una stima dei contagi avvenuti nei locali di quelle attività, nelle ore in cui saranno obbligate a chiudere? Una rapida verifica si potrebbe fare: quanti ristoranti e locali sono stati chiamati dalle Asl per risalire ai contatti di un positivo tramite i loro registri? L’emergenza Covid sembra ormai autorizzare in astratto qualsiasi limitazione di diritti che, al pari della salute, sono tutelati dalla Costituzione. E per di più, con atto amministrativo, non avente forza di legge.
Bar e ristoranti, piscine e palestre, cinema e teatri, che in questi mesi hanno investito tempo e denaro per adeguare i loro locali, applicato i protocolli, insomma si sono preparati a tenere duro, rispettando le regole e accettando di dover comunque perdere clienti e fatturato, ora sono costretti di nuovo a chiudere da un governo che invece non ha fatto la propria parte, li ha (e ci ha) traditi.

Ieri il presidente del Consiglio Conte ha assicurato che le “misure di ristoro” per i titolari delle attività interessate dalla chiusura saranno in Gazzetta Ufficiale “già martedì” [con potenza di fuoco, immagino]. Ma quanto? Entro quando? In che forma? Con quali criteri? Ha parlato addirittura di accredito in conto corrente. Ma se si può fare oggi, perché non si è fatto la primavera scorsa?
Il ministro dell’economia e delle finanze Gualtieri ha parlato di indennizzi “entro metà novembre” per 350 mila aziende, credito di imposta sugli affitti, eliminazione della rata Imu, cassa integrazione per i dipendenti e 1.000 euro per i collaboratori.
Sono evidentemente consapevoli che la rabbia sta montando. Ma quale residua credibilità hanno, visto che le “misure di ristoro” promesse nei mesi scorsi, e introdotte con il “Decreto Agosto”, convertito in legge il 13 ottobre, non sono ancora arrivate?
Il Paese è una pentola a pressione pronta ad esplodere. Avrebbero dovuto immaginare – Daniele Capezzone, dalle trasmissioni tv in cui è ospite, lo ripete da mesi, fino alla noia – che in autunno i nodi di misure di “ristoro” gravemente insufficienti sarebbero venuti al pettine, e la crisi economica e sociale si sarebbe manifestata in tutta la sua drammaticità.
E per quanto il Palazzo e i media compiacenti possano chiamare in causa criminalità organizzata e fascisti per screditare le proteste, come spiega bene Max Del Papa oggi, sarebbe un grave errore sottovalutare l’esasperazione diffusa – e acuita dalla ormai palese inadempienza delle istituzioni. Sapevamo che il lockdown era una misura “one shot”, che un secondo sarebbe stato insostenibile, ma l’hanno sprecato…
Uno degli effetti dell’uso dei Dpcm, combinato con un sistema mediatico “corrotto”, perché militante,

è anche un processo decisionale deviato e un dibattito politico schiacciato sulle dinamiche interne alla maggioranza. Esautorato il Parlamento, le opposizioni si trovano in un cono d’ombra. Le misure da inserire nei Dpcm sono discusse in riunioni informali tra il premier, alcuni ministri e i capi delegazione dei partiti di maggioranza, poi tra governo e presidenti di regione,

e se i presidenti di regione – TUTTI i presidenti di regione – sono contrari, nessun problema: li si ignora, e si procede oltre:

quindi anticipate e commentate dalla stampa, e infine diventano esecutive senza passare per le aule parlamentari (che vengono “edotte” solo diversi giorni dopo). Le obiezioni di chi è fuori da questo circuito valgono quasi zero.
Da qui derivano, per esempio, le difficoltà del leader della Lega Matteo Salvini nel formulare una linea coerente, che rischia di venire contraddetta nella dialettica tra i governatori leghisti e il governo. E d’altra parte, farebbe il gioco dei suoi avversari se entrasse in conflitto aperto con essi su questa o l’altra misura. Non si parlerebbe d’altro.
In questa situazione di emergenza sanitaria ed economica, e di estrema debolezza del governo Conte, non sorprende che si torni a parlare di governo di unità nazionale – anche se ci sembra che non stiano arrivando segnali in questo senso dagli ambienti della maggioranza o dal Quirinale, e che si tratti più di un wishful thinking di alcuni commentatori e di settori dell’opposizione ansiosi di tornare in gioco.
Ma dopo essere state emarginate per mesi, le opposizioni dovrebbero davvero mettere la faccia nella gestione di un simile disastro? E per fare cosa esattamente?
Non vediamo all’orizzonte un “Dream Team” in grado di fare in 2-3 settimane ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare in 5-6 mesi. La prima misura da adottare, condividendone la responsabilità, sarebbe un nuovo lockdown. L’unità nazionale sarebbe stata auspicabile all’inizio di questa emergenza, o al più tardi alla fine del lockdown della primavera scorsa, fissando una data certa entro cui tornare al voto. Ma oggi, se dovesse giungere un simile invito, sarebbe unicamente perché Pd e 5 Stelle non vogliono essere i soli a intestarsi il secondo lockdown. Hanno fatto un disastro e le opposizioni dovrebbero arrivare in soccorso per spartirsi le colpe? Ricordiamo, tra l’altro, che l’ultima volta, dopo le “larghe intese”, ci siamo ritrovati con un certo movimento prima al 25, poi al 33 per cento…
Basta isteria. Non si può ridurre alla fame metà della popolazione, i partiti di maggioranza e più alti sponsor di questo governo si assumano per intero la responsabilità della totale impreparazione alla seconda ondata, dei decessi e dei fallimenti, e si voti in primavera. Un governo di unità nazionale, oggi, servirebbe solo ad annacquare le responsabilità, non certo per trovare ricette miracolose.
“Quella di far passare gli anti-lockdown per negazionisti è forse una delle truffe intellettuali più miserabili degli ultimi decenni”, ha osservato su Twitter il nostro Enzo Reale. E, ha aggiunto:

“Se sul merito delle misure adottate o da adottare le opinioni possono essere divergenti, è stupefacente come si accetti senza fiatare la loro imposizione al di fuori delle minime garanzie costituzionali, rinunciando in nome dell’emergenza ai principi dello stato di diritto. Ancora più sorprendente se si pensa che questa rinuncia proviene da quella parte dello spettro politico che ha fatto della legalità la sua bandiera contro gli avversari politici negli ultimi tre decenni. Ma evidentemente è una legalità selettiva, come la memoria”.
Federico Punzi, 26 Ott 2020, qui.

Poi chi ha ancora un po’ di tempo ed è interessato ai numeri completi e non taroccati, può magari andare a dare un’occhiata qui.
Ricordiamo, in ogni caso, che il mondo ci guarda e ci ammira, ma proprio tanto tanto tanto

Comunque non è il caso di preoccuparci eccessivamente, dal momento che adesso sappiamo esattamente come si diffonde il contagio

e abbiamo a disposizione un modo sicurissimo per evitarlo

e sappiamo con certezza che prima o poi smetterà di piovere e sorgerà l’arcobaleno

So che c’è poi una domanda, di carattere lessical-giuridico, che vi tormenta, ma io ho trovato la risposta, eccola:

Un’altra ottima notizia è che, alla faccia di quel genio del virologo (VIROLOGO eh, ho detto VIROLOGO!) Fabrizio Pregliasco che raccomanda alle coppie sposate o comunque conviventi l’astinenza o il fai-da-te (separato, mi raccomando, non reciproco!) perché lì è tuttotuttotutto pericolosissimo, anche le variazioni sul tema, anche le posizioni diverse che permettono di non respirarsi in faccia, il pericolo è annidato ovunque, alla facciaccia sua, dicevo, il sesso sicuro esiste anche al tempo del coronavirus

e comunque dobbiamo stare tranquilli, perché sappiamo con certezza che

ANDRÀ TUTTO BENE!

barbara

IL MAGICO MONDO DI MIACUGGINA

Quella che di mestiere fa la psicologa. Che ha alle spalle 15 anni di attacchi di panico. Che adesso per non averli si nutre di ansiolitici e antidepressivi. Che non può sopravvivere se, di fronte a qualunque situazione o persona le si presenti, non si mette in cattedra a sparare giudizi e sentenze. Quella che ama alla follia Andrea Scanzi che pare il fratello scemo di Nanni Moretti

– cioè, voglio dire, ancora più scemo di Nanni Moretti. Quella per la quale esistono due tipi di opinioni, di posizioni, di decisioni, di scelte: le sue e quelle sbagliate. Quella che dopo avere passato un quarto di secolo a scopare come una lupa famelica, un bel giorno riceve l’illuminazione e mi fa “Sai, secondo me il sesso è sopravvalutato”. La cosa mi si è chiarita con la frase successiva: “Fortuna che mio marito (sposato due anni prima) non è un tipo sessuoso, anzi”. Il che potrebbe spiegare alcune cose. Qui un piccolo campionario di sue esternazioni sul covid a partire dall’inizio di agosto, quando avevamo un rapporto tamponi/positivi sotto l’1% e i morti erano una manciata al giorno.

Merda, si sale si saleeeeee e se qualcuno qui sotto scrive colpa dei migranti si auto elimini dai miei contatti

Siamo nella merdaaaaa

Che siamo nella merda lo sapete si… Viva le teste di cazzo, se ne incontro una meglio che si suicidi da sola prima che sia io a colarli nell’acido

Lo amo [De Luca] quando sfancula salvini

Su ditemi che andiamo bene, negazionisti del cazzo

Dove sono i coglioni del… Eh ma stanno facendo terrorismo… Dove sono teste di cazzo

[Qui c’è un leggero errore di prospettiva: siete voi che avete un problema, e anche grosso, non i NoMask, loro (noi) non ne abbiamo neanche mezzo. Quanto ai rapporti tra noi e voi, noi al massimo vi guardiamo con compatimento, anche se siete estremamente pericolosi perché vi fate complici attivi della diffusione e propagazione del terrore, mentre voi non vi accontentate neppure di volerci morti, vorreste annientare anche l’ipotesi della nostra esistenza, vorreste che non fossimo neppure nati. Non voglio scrivere a quale altra categoria storica assomigliate in questa vostra fanatica sete di annientamento totale, per rispetto alle sue vittime, però il vostro spirito è proprio identico a quello.]

Direi che procedo bene, ho dovuto urlare solo a 3 persone senza mascherina, tre ragazzi giovani che si credono super eroi una pure in autogrill che stava bella lì senza, all alzata di voce.. Cosa cazzo non è chiaro in USA LA MASCHERINA .. mi ha guardato male, al suo commento… stai tranquilla… é seguito un… TI LANCIO FUORI A CALCI IN CULO… Magicamente é apparsa la mascherina… Bene così

Quale è la realtà allora? Vediamo di chiederlo ai numeri, i dati non mentono (cit. mia) [In realtà i numeri sono come gli uomini: se li torturi abbastanza puoi fargli dire tutto quello che vuoi (cit. di non ricordo più chi)]. Innanzitutto c’è emergenza? Sì, perchè i casi hanno avuto un impennata appunto esponenziale mostruosa negli ultimi giorni e giustamente [giustamente in che senso?] se continua, la gravità aumenta sempre più.

E ancora e sempre con la famigerata crescita esponenziale, che ogni volta che la sento mi corre la mano… no, non alla pistola: alla bomba atomica. E allora chiariamo ancora una volta:
CRESCITA ARITMETICA: 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8.
CRESCITA GEOMETRICA: 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128.
CRESCITA ESPONENZIALE: primo giorno 2, secondo giorno 4, terzo giorno 16, quarto giorno 256, quinto giorno 65.536, sesto giorno 4.294.967.296, settimo giorno diciotto miliardi e mezzo di miliardi, tre miliardi e mezzo di volte la popolazione terrestre, (mi si informa che ho sbagliato: è l’esponente che cambia, non la base, e quindi la crescita esponenziale è la stessa cosa della crescita geometrica. Devo tuttavia pensare che se si insiste a chiamarla esponenziale anziché geometrica, è perché la parola fa più impressione, e quindi serve a terrorizzare meglio il popolo) vedi un po’ tu cara cugina, catastrofica in ortografia grammatica sintassi punteggiatura equilibrio socialità e anche in matematica. (sì, anche se io ho sbagliato, tu resti sempre una capra lo stesso).

Nel frattempo…

Sul Covid un rischioso esperimento sociale: da Roma a Madrid, la democrazia cuoce a fuoco lento

Documento numero uno.
“Vieteremo le feste private in casa” (Roberto Speranza, ministro della salute)
“E come farete a controllare?” (Fabio Fazio)
“Aumenteremo i controlli, ci saranno segnalazioni” (Roberto Speranza, ministro della salute)

Documento numero due.
“Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone”.
(Noam Chomsky, dal suo “Media e Potere”)

Documento numero tre.
“Sono, con tutta evidenza, esperimenti sociali volti a testare la capacità di sottomissione di un popolo. E vanno tutti a buon fine”.
(Max Del Papa, Atlantico Quotidiano di ieri)

L’articolo potrebbe finire qui. Aggiungo poche considerazioni, a costo di rovinarlo. Detesto le iperboli in politica: non scomoderò mai fascismo e comunismo dove non li vedo, le dittature sono una cosa seria e le parole sono importanti. Nonostante ci sia chi applaude all’idea del vigilante di condominio, la Stasi è morta trent’anni fa in terre sufficientemente lontane, Roma e Madrid non sono Minsk né lo saranno mai (si spera). Tira, però, un’aria pesante nelle nostre stanche democrazie, almeno quelle di cui ho esperienza diretta, un cupio dissolvi in nome e per conto di quei giganteschi comitati di salute pubblica in cui si stanno trasformando i nostri governi.
Sette mesi dopo l’inizio di un’emergenza che “non si poteva prevedere” (così ci fu detto), in Italia e in Spagna i due governi più a sinistra dello spettro politico europeo (quella portoghese è un’esperienza a parte) ne stanno cavalcando un’altra, come se il tempo fosse trascorso in vano, come se la loro stessa esistenza dipendesse da quella del virus che proclamano di voler combattere. Uno stillicidio di misure e messaggi contraddittori, di allarmi e sanzioni a colpi di decreto, di arresti domiciliari “per il nostro bene”, di polemiche politiche con i governi regionali, di sensi di colpa indotti, di stanze del panico, di informazione somministrata come un anestetico o un eccitante (a seconda del bisogno) dai canali di Stato: la strategia del populismo “progressista” di Palazzo Chigi e della Moncloa, a ben guardare, segue da mesi gli stessi schemi consolidati. È la politica dell’avvertimento, della minaccia, una truffa intellettuale.
Temo che non ci si renda conto della trasformazione in atto nel rapporto fra governanti e governati, mentre è in corso un esperimento sociale dai tratti indefiniti e dagli esiti incerti, sapientemente orchestrato in omaggio al sacro principio della difesa da un nemico invisibile, “oggettivo” si direbbe in altri contesti. La sovranità popolare è stata di fatto sospesa in nome della preponderanza di governi ormai senza pesi e contrappesi, che obbediscono soltanto alla loro versione dei fatti priva di contraddittorio. La risposta facile è che si tratti di una situazione provvisoria dovuta all’emergenza e che, una volta cessata, tutto tornerà come prima. Ma chi decide quel che è emergenza e quel che non lo è, se non gli stessi che si arrogano poteri speciali per affrontarla? È dovere dello Stato farsi carico del benessere della collettività, ci viene insegnato fin dalle scuole elementari, dove invece si tace che in una democrazia liberale i limiti del potere sono tutto. Che i governi, gli apparati statali, le amministrazioni tendano ad espandersi appena intravedono gli spazi per farlo, è cosa nota. Che abbiano potuto permetterselo senza praticamente trovare resistenza è una realtà che nemmeno i più devoti apologeti della preminenza del pubblico sul privato, del collettivo sull’individuale, si sarebbero mai sognati. La cittadinanza si guarda inebetita e spesso complice, sballottata tra un’ora d’aria e una sessione di smart working, tra un divieto di cantare e una pacca sulle spalle. Lo Stato ci vuol bene, ci sgrida per renderci responsabili, ci protegge da noi stessi, nel gregge è la salvezza della pecorella smarrita. Le pecorelle oggi indossano tutte la mascherina, anche all’aperto, anche dove non ci sono i lupi. Precauzione, la chiamano alcuni. Dare l’esempio, dicono altri. Sempre più facile che pensare, che fare i test e tracciare i contatti, che isolare i malati e lasciare liberi gli altri.
Sul coronavirus è scomparsa anche l’opposizione politica, avrete notato, rassegnata, schiacciata sulle posizioni ufficiali, qualche protesta in televisione ma in fondo disposta ad accettare le imposizioni in nome del “bene comune”. Poche sono le voci che gridano nel deserto, mentre i governi interpretano l’emergenza come un assegno in bianco, che non richiede discussione politica né giustificazione. Anche la scienza diventa un paravento, i virologi si succedono come semplici pedine di una comunicazione contraffatta, in cui si lancia il messaggio che conviene nel momento che si ritiene opportuno: nemmeno il loro parere ormai è rilevante per chi comanda, ogni decisione è amministrativa. Siamo davanti a un sostanziale svuotamento dell’azione politica in favore di un modello gestionale non soggetto a scrutinio, ma fortemente impregnato di uniformità ideologica. L’etichetta di “negazionista”, affibbiata come uno stigma a chiunque osi presentare obiezioni (non sull’esistenza del virus ma semplicemente sulle misure per affrontarlo), chiude ogni possibile confronto tra chi è dalla parte giusta della storia e il resto dei condannati.

La DDR è lontana, ma sia Italia che Spagna si confermano terreni favorevoli ad esperimenti sociali di stampo paternalista e fondamentalmente coercitivo. Si bolle la rana in pentola aumentando gradualmente la temperatura. Occhio.

Enzo Reale, 14 Ott 2020, qui.

Lorenzo Capellini Mion

In attesa della nuova puntata de Il Decreto vorrei mettere agli atti che oggi solo 7 posti di terapia intensiva su 100 sono occupati da pazienti infettati dal virus di Wuhan.
Ora vediamo come riusciranno a peggiorare la situazione con nuove assurde regole e chiusure dannose sotto ogni profilo che nel contempo disgregheranno definitivamente la società, ci metteranno l’un contro l’altro armati, cancelleranno innumerevoli posti di lavoro e distruggeranno migliaia di piccole imprese.
Avremo una chance solo se non ci faremo definitivamente convincere che i nostri diritti in realtà erano dei permessi, se terremo presente che nessun diritto negato ci verrà riconsegnato senza resistere prima e combattere poi. La storia lo insegna.
E vedremo se la voglia di libertà prevarrà sulla paura perché molto presto sarà il momento di fare delle scelte, lì si vedrà che sangue scorra nelle vene degli italiani.
Per me dev’essere chiaro che spetti ad ognuno di noi il permettere al virus di governare o meno sulle nostre vite. Non a questo o quel governo, specie se composto da ministri che tradiscono la loro cultura invocando l’infamia della delazione foriera di ferite insanabili tra i cittadini, utile solo ai regimi.
Abbiamo il dovere di proteggere i più vulnerabili ma l’obbligo di ricordarci che qualsiasi cosa facciano non sarà per la nostra salute, ma per il loro potere.
Buona serata miei carissimi asintomatici

#enemedia

E poi vi ricordate di questa cosa qui

giusto un paio di giorni fa? Qualcuno ha detto che l’avevano buttata lì per vedere le reazioni e poi, visto che le reazioni ci sono state hanno fatto marcia indietro. Beh, la marcia indietro effettivamente c’è stata, ma non è proprio esattamente così che sono andate le cose.

Così Gabrielli si è opposto ai controlli in casa

Sarebbe stato un documento firmato dal capo della Polizia, Franco Gabrielli, a smontare le richieste anticostituzionali del ministro della Salute Roberto Speranza e del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini di disporre controlli in casa per verificare il rispetto del limite di riunione. A ricostruire il retroscena è un articolo de ‘Il Riformista’ dal titolo ‘Gabrielli il poliziotto che ci ha salvato dalla polizia’.
”La meraviglia di certi paradossi – si legge sul quotidiano -. E’ stata la polizia e il ministero della polizia a evitare che l’Italia diventasse uno stato di polizia, dove uomini in divisa possono entrare a qualunque ora nelle abitazioni private per verificare il numero di quanti siedono intorno a un tavolo o davanti a una tv per vedere una partita della Champions”.
Secondo quanto ricostruisce il quotidiano, ”lunedì scorso il premier Giuseppe Conte è in missione a Taranto. Nel pomeriggio tardi si devono riunire a palazzo Chigi i capi delegazione e poi il governo e le regioni, per definire i passaggi del Dpcm. Atteso per quella sera. Arrivano dunque a Palazzo Chigi, lunedì dopo le 18. Conte è di ritorno dalla Puglia. Ha fretta di tornare perché gli giunge la notizia che i ministri Speranza e Franceschini vogliono fare sul serio. Vogliono veramente inserire nel Dpcm, che è un atto amministrativo e non una legge primaria, una forma di controllo dei party privati, in casa e non solo. Il premier vacilla, sa di andare incontro a un casus belli”.
“Ed ecco – secondo quanto riporta ‘Il Riformista – che coinvolge il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese per avere un parere che chiarisca perché questa forma di controllo non è possibile. Di più: anticostituzionale. Da notare che fino a quel momento Lamorgese, ministro dell’Interno tecnico di un governo politico, non è mai stata coinvolta in nessuna delle riunioni preparatorie del Dpcm fin lì convocate”.
“Il prefetto Lamorgese, già seccata e non da quel giorno per questa ‘dimenticanza’ – spiega il quotidiano – coinvolge a sua volta per un parere tecnico il capo della Polizia, il prefetto Franco Gabrielli. Che produce nel giro di un’oretta un appunto che spazza via ogni dubbio per ‘questioni di ordine giuridico’ e altre di natura pratica. Quest’ultime così sintetizzabili: le forze dell’ordine, tutte, hanno già abbastanza da fare nel contrasto dei reati, la gestione dei flussi migratori e ora anche le norme di contenimento anti-Covid, che non possono essere coinvolte in controlli che ‘potrebbero nascere da meccanismi delatori, rivalità e dissidi di vicinato”.
L’appunto, di circa una pagina e mezzo, si intitola ‘Ipotesi riguardanti gli assembramenti destinati a svolgersi nei luoghi di privato domicilio’, la prova, sottolinea il quotidiano, ”di come quell’ipotesi fosse fino a quel momento sul tavolo”. “Si fa riferimento – si legge nell’appunto secondo quanto riporta il quotidiano – all’ipotesi emersa in queste ore di inserire nel Dpcm previsioni volte a consentire al personale delle forze di polizia di accedere ai luoghi privati e di privato domicilio al fine di verificare l’eventuale esistenza di raduni o assembramenti di persone oltre il limite consentito. Al riguardo si fa presente che la soluzione prospettata non sembra agevolmente praticabile alla luce del’articolo 14 della Costituzione che riconosce l’inviolabilità del privato domicilio”.
“Tra citazioni e sentenze della Corte Costituzionale e rinvii a fonti di legge primaria, il capo della Polizia dimostra come sia impossibile impedire i party privati – scrive il quotidiano – Le eccezioni all’articolo 14 della Carta sono possibili, ‘solo nei casi e nei modi stabiliti dalla legge e nel rispetto delle garanzie’. La restrizione del diritto, ovvero le perquisizioni di privati sono possibili solo se trovano fondamento in fonti primarie (leggi non Dpcm) e autorizzate dalla magistratura. Anche in caso di ‘tutela della salute dell’incolumità pubblica’ vale la riserva assoluta di legge e di giurisdizione. Di certo per andare a vedere cosa succede presso i privati non possono essere usate le norme esistenti, quelle che autorizzano le perquisizioni per la ricerca di armi, esplosivi e latitanti”.
A ben vedere, spiega bene l’appunto secondo quanto riportato da ‘Il Riformista’, ”ci sarebbe un modo per autorizzare questi controlli: il Parlamento dovrebbe dichiarare lo stato di guerra e conferire al governo i poteri necessari per farvi fronte”. E’ una provocazione, ovvio, sottolinea il quotidiano.

15/10/2020, qui.

E dunque sì, le irruzioni in casa tipo Gestapo, tipo Stasi, tipo KGB, tipo Securitate, tipo la DINA, volevano proprio farle davvero, da subito. Poi dateci degli allarmisti paranoici, a noi che continuiamo a predicare nel deserto da sette mesi!

Nel frattempo sono sempre più gli esperti che lanciano l’allarme sui devastanti effetti dei blocchi sulla salute fisica e mentale e sulla società.
E se non possono stritolarci in un modo, lo fanno in un altro.

Ma non preoccupatevi: il nostro meraviglioso governo continua a farci fare sempre nuovi passi avanti

di quattro anni fa

barbara

L’ASSASSINO E I SUOI COMPLICI

Una volta in Cina – così come in Unione Sovietica e in tutto quel paradiso in terra che è il mondo comunista – si usavano le sedute di autocritica, in cui per mostrare la propria buona volontà, il proprio attaccamento al partito e al Suo Sovrano, la propria consapevolezza di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato – anche se ciò che è sbagliato oggi è, orwellianamente, ciò che era giusto ieri, ci si autoaccusava di ogni sorta di nefandezze (dall’essersi distratti per ben sei secondi e mezzo dal lavoro all’avere distolto la mente per due secondi e un quarto dalla bellezza del partito); naturalmente questo riguardava il popolo, ancora e sempre troppo impregnato di spirito borghese, ma non certo i capi. E siccome è bene conservare fedelmente le tradizioni, anche oggi i capi si guardano bene dal fare autocritica. E tanto più se ne guardano quanto più grandi sono i crimini.
risposta Cina
E passiamo ai complici.

Dalla promozione del modello Cina all’esclusione di Taiwan, l’Oms si presta al gioco del regime di Pechino

Le misure di Taipei avrebbero potuto rappresentare un esempio da seguire contro il coronavirus, ma – per ragioni politiche – l’esperienza taiwanese è stata semplicemente ignorata dai vertici dell’OMS, impegnati invece a elogiare pubblicamente le strategie di risposta della Cina comunista

Mentre oltre un terzo della popolazione mondiale è costretto a una quarantena indefinita e un centinaio di Paesi è alle prese con una delle più gravi crisi della storia contemporanea, per Pechino l’emergenza coronavirus è già da qualche settimana un questione principalmente politica. L’offensiva propagandistica cinese svela giorno dopo giorno tutte le sue sfaccettature, dalle campagne di disinformazione a livello globale sulle responsabilità e i meriti del governo, ai numeri dell’epidemia domestica, alle forniture di macchinari e materiale medico camuffate da assistenza umanitaria. In questa strategia volta a promuovere l’influenza del Partito Comunista Cinese al di fuori dei confini nazionali, i gerarchi di Zhongnanhai possono contare su un alleato di prim’ordine, nientemeno che l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata della protezione della salute pubblica nel pianeta.
Che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stesse prestandosi a un gioco poco trasparente era già emerso dalla conferenza stampa tenutasi il 24 febbraio scorso a Pechino, in cui uno dei suoi direttori esecutivi, il canadese Bruce Aylward, aveva esplicitamente lodato le misure adottate dalla Cina, invitando gli altri stati a prendere esempio dai “metodi vecchio stampo” del regime. Più che una valutazione scientifica, una vera e propria adesione ideologica al cosiddetto modello politico cinese che avrebbe trovato un’eco favorevole in Europa nel corso delle settimane successive. Ma Aylward è stato protagonista pochi giorni fa di un episodio ancora più emblematico dell’influenza cinese sull’organizzazione che rappresenta. Nel corso di un’intervista rilasciata a un programma televisivo di Hong Kong, interpellato dalla giornalista sulla possibilità di una riammissione di Taiwan nell’OMS, il canadese si è rifugiato in un imbarazzato silenzio, prima fingendo di non aver sentito la domanda e poi, incalzato, interrompendo la comunicazione via webcam. Richiamato dalla trasmissione, Aylward ha bruscamente congedato l’intervistatrice affermando di “aver già parlato della Cina“. Quest’ultima affermazione è specialmente significativa, in quanto riflette esattamente la politica ufficiale cinese, secondo cui Taiwan altro non è che una “provincia ribelle” appartenente alla Repubblica Popolare. Poche ore dopo l’intervista, curiosamente, il profilo di Aylward è stato rimosso dalla pagina web del comitato esecutivo dell’OMS.
Il caso Taiwan è tornato alla ribalta di recente in seguito ad alcune dichiarazioni del governo di Taipei, secondo cui i funzionari del Ministero della sanità dell’isola informarono l’OMS già a fine dicembre che il virus era trasmissibile tra persone. Nessuno fece caso a quell’avviso né si presero misure profilattiche al riguardo. Solo venti giorni dopo la Cina confermò la possibilità del contagio umano e da quel momento l’informazione fu condivisa con gli altri Paesi. E solo il 30 gennaio, per l’eccessivo riguardo nei confronti delle preoccupazioni cinesi, come ricostruito dal Wall Street Journal, l’OMS si decise a dichiarare l’emergenza sanitaria globale. L’esclusione di Taiwan dagli organismi internazionali è una condizione stringente imposta da Pechino: dal 2016 non può neppure partecipare alla riunione consultiva annuale dell’OMS o agli incontri tecnici tra specialisti e l’accesso a una gran mole di informazioni rilasciate dall’organizzazione le è preclusa. Già nel maggio 2019, il ministro degli esteri taiwanese, Joseph Wu, denunciava che il veto cinese, oltre ad essere moralmente ingiustificato, lasciava il Paese in condizioni di oggettiva inferiorità in materia di prevenzione di eventuali pandemie e, soprattutto, impediva la condivisione delle conoscenze e dell’esperienza degli operatori sanitari dell’isola con la comunità internazionale. Quest’ultimo aspetto si rivela particolarmente drammatico in piena espansione della pandemia originatasi a Wuhan, tenendo conto degli eccellenti risultati ottenuti da Taiwan nel suo contenimento. Grazie a una serie di interventi tempestivi e mirati, il contagio si è limitato a 67 casi e un solo decesso, nonostante la vicinanza geografica con l’epicentro dell’infezione: test a tutti i viaggiatori in entrata, chiusura immediata delle frontiere con la Cina, Hong Kong e Macao, ricerca attiva dei nuovi casi, quarantena dei sospetti, applicazioni informatiche per l’identificazione volontaria dei pazienti. Le misure descritte avrebbero potuto rappresentare un esempio da seguire in contesti simili, soprattutto nella fase iniziale dell’espansione del virus, ma – per ragioni politiche – l’esperienza taiwanese è stata semplicemente ignorata dai vertici dell’OMS, impegnati invece a elogiare pubblicamente le strategie di risposta della Cina comunista. Mentre Taiwan è di fatto oggi una zona libera dal virus, a livello economico e diplomatico continua a soffrire le conseguenze della sua assimilazione alla Cina continentale, dal momento che i suoi casi vengono ancora conteggiati insieme ai dati forniti da Pechino. Cinquanta milioni di persone passano ogni anno per Taiwan, uno dei principali hub di collegamento internazionali, ma l’OMS non comunica formalmente a Taipei informazioni aggiornate su questioni di salute pubblica, dovendo affidarsi le autorità locali alle comunicazioni filtrate dal regime cinese. Solo Stati Uniti, Giappone, Germania e Australia si sono espresse di recente a favore della riconsiderazione della situazione di Taiwan, anche se l’intervento più significativo al riguardo è arrivato dal ministro degli esteri della piccola isola caraibica di Saint Vincent and Grenadines (sic!), Luke Browne, che nel corso dell’ultima Assemblea Mondiale della Salute tenutasi a Ginevra l’anno scorso dichiarò davanti ai rappresentanti di tutti gli stati: “Non c’è nessuna ragione di principio per giustificare l’assenza di Taiwan, l’unico motivo è che il governo di Pechino non ne ammette la presenza“. Semplice, chiaro, e ovviamente destinato a cadere nel vuoto.
Se Pechino non vuole Taiwan, Taiwan per l’Organizzazione Mondiale della Sanità semplicemente non esiste. Il silenzio di Bruce Aylward davanti alla domanda della giornalista di Hong Kong è lo specchio dell’anima corrotta di un ente che, in linea con la tradizione Onu degli ultimi decenni, soccombe alle logiche dei regimi autoritari. Ma da cosa deriva la crescente influenza cinese sul massimo organismo mondiale a protezione della salute pubblica? Anche se come sempre le ragioni economiche hanno il loro peso, in realtà a contare sono in prevalenza fattori politici. Il budget dell’OMS negli ultimi anni dipende soprattutto dai contributi volontari dei suoi membri. Anche se quella degli Stati Uniti resta la quota principale, la Cina ha aumentato il suo apporto del 52 per cento nell’ultimo lustro. Ma il moltiplicatore in termini politici di questa partecipazione deriva dall’asserita percezione della Cina come partner di futuro rispetto a un progressivo disimpegno statunitense. Poco importa se quello che da più parti è indicato come il nuovo soft power cinese è in realtà è un’arma di ricatto decisiva in mano a Pechino. Infatti, se Bruce Aylward è un funzionario che può essere sacrificato all’occorrenza (forse è già successo), la voce della Cina dentro l’OMS è nientemeno che quella del suo direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus. Di nazionalità etiope, Paese con il quale Pechino intrattiene intense relazioni politiche e commerciali tanto da farne un tassello fondamentale della sua penetrazione in Africa, Tedros deve la sua elezione al vertice dell’organizzazione (2017) all’intervento cinese. Primo direttore generale senza background medico, sponsor dell’allora uomo forte dello Zimbabwe Mugabe come “ambasciatore di buona volontà” delle Nazioni Unite, pochi giorni dopo la vittoria sul suo contendente britannico dichiarò ai media statali cinesi che l’OMS avrebbe rispettato senza esitazioni la “One China policy” come principio cardine delle relazioni internazionali del Paese asiatico. Traduzione: Taiwan out.
Tre anni dopo il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il 28 gennaio, in piena epidemia cinese, Tedros incontrava nella capitale Xi Jinping. Alla fine della riunione elogiava il regime comunista per aver “creato un nuovo standard di controllo delle emergenze sanitarie” e i vertici del partito per la loro “trasparenza nella condivisione delle informazioni“. Ricordiamo che l’annuncio ufficiale sull’espansione del coronavirus da parte delle autorità cinesi risaliva solo a due settimane prima, dopo circa due mesi di silenzio a partire dai primi casi accertati. Il 20 febbraio, con l’Italia già presa in pieno e l’Europa in procinto di essere investita dal coronavirus, Tedros affermava che “la Cina ha comprato tempo per il bene del mondo intero” e criticava gli stati che imponevano restrizioni all’entrata di cittadini cinesi. “Abbraccia un cinese” in versione Onu. “Non bisogna politicizzare l’epidemia“, ammoniva mentre faceva politica a favore di una dittatura dove da settimane stavano sparendo le voci scomode che denunciavano insabbiamenti e ritardi. Perfino all’interno dell’OMS la voce dissenziente di John Mackenzie, membro del comitato esecutivo, segnalava che l’azione internazionale avrebbe preso una piega differente se non fosse stato per la “riprovevole opera di occultamento dell’estensione dell’epidemia” da parte della Cina. Ma Tedros da quell’orecchio non ci ha mai sentito troppo bene, tanto che ha atteso fino all’11 marzo, quando ufficialmente Xi Jinping dava per controllata l’emergenza, per dichiarare ufficialmente la pandemia. I suoi padrini non avrebbero consentito un simile sgarbo.
L’immenso costo umano ed economico della diffusione su scala globale del Covid-19 dovrà condurre all’accertamento delle responsabilità del regime che l’ha provocata e allo smascheramento delle connivenze e delle complicità di cui gode sullo scenario internazionale. In gioco non c’è solo il nostro stato di salute fisico ma anche quello delle democrazie liberali, che stanno pagando con migliaia di bare il prezzo della menzogna di stato.
Enzo Reale, 31 Mar 2020, qui.

Ma per fortuna, tra tanti yes-men, c’è anche chi dice no.

Trump all’attacco dell’Oms “Cina-centrica”: sospenderemo i fondi, sapevano ma non hanno avvertito

Su Atlantico Quotidiano, riprendendo una lunga e documentata analisi del Wall Street Journal, avevamo anticipato il tema già da metà febbraio: “Numeri di Pechino inaffidabili, sotto accusa finisce l’Oms”. In questi giorni i ritardi, le omissioni e gli errori dell’Organizzazione mondiale della sanità nella gestione della pandemia da coronavirus, e la sua deferenza verso Pechino, sono diventati motivo di attacchi da parte del governo degli Stati Uniti e di forti critiche anche in altri Paesi occidentali.
L’accusa principale che formulava già allora il WSJ era un ritardo di 7-10 giorni, dietro pressioni cinesi, nel dichiarare l’emergenza sanitaria globale: secondo le testimonianze raccolte dal quotidiano, per aver dato “troppo peso alle preoccupazioni di Pechino che la decisione avrebbe danneggiato la sua economia e l’immagine della sua leadership”. Divisioni all’interno del suo Comitato per le emergenze avrebbero impedito che una decisione fosse assunta già nella riunione del 22 e 23 gennaio, subito dopo l’intervento pubblico di Xi Jinping del 20 gennaio. Proprio il 23, Pechino adottava il blocco delle prime tre città (Wuhan, Huanggang e Ezhou), circa 20 milioni di persone, ma secondo una fonte citata dal WSJ avrebbe fatto “pressioni” sul Comitato perché non dichiarasse l’emergenza globale.
Ed erano i giorni in cui il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus lodava le “straordinarie misure” adottate dal governo cinese per combattere il virus, definendole addirittura un “nuovo standard”, mentre ha invitava gli altri Paesi a non adottare restrizioni dei viaggi.
“Gli esperti di salute pubblica si chiedono se l’Oms non sia stata troppo deferente nei riguardi della Cina nella sua gestione del nuovo virus”, scriveva il WSJ.
Una settimana fa, con un lungo e dettagliato articolo di Enzo Reale siamo tornati sulle responsabilità dell’Oms, che dalla promozione del modello Cina all’esclusione di Taiwan si è prestata al gioco del regime di Pechino.
Ieri il durissimo attacco, prima via Twitter, del presidente americano Trump, che ha minacciato di congelare i fondi Usa all’organizzazione (116 milioni di dollari l’anno, ma nel 2017 i contributi Usa per specifici progetti hanno superato i 400 milioni), accusandola di aver sbagliato veramente tutto e di essere “sino-centrica”:
The WHO really blew it. For some reason, funded largely by the United States, yet very China centric. We will be giving that a good look. Fortunately I rejected their advice on keeping our borders open to China early on. Why did they give us such a faulty recommendation?
Per fortuna, ricorda Trump, “non ho seguito il loro consiglio di tenere aperti i nostri confini alla Cina all’inizio” [farebbero bene a ricordarlo, le scimmiette addestrate che continuano a ripetere che Trump e Johnson non hanno fatto niente contro l’epidemia: loro, a differenza di noi, i propri confini li hanno chiusi subito]. Quindi, una inquietante domanda: “Perché ci hanno dato una raccomandazione così errata?”. Soluzioni che “interferiscono inutilmente con i viaggi e il commercio internazionale”, le aveva bollate il direttore dell’Oms.
Durante la conferenza stampa di ieri sera il presidente Usa ha affondato il colpo: si sono sbagliati su molte cose, sospenderemo i finanziamenti all’Oms.
“Hanno sbagliato la decisione. Hanno mancato di avvertire. Avrebbero potuto avvertire mesi prima. Avrebbe dovuto sapere, e proabilmente sapevano, ma non hanno avvertito… Sospenderemo i soldi spesi per l’Oms”.
“Sembrano essere molto sino-centrici. Ed è un modo cortese di dirlo”.
Per poi precisare, “non sto dicendo che lo faremo, ma considereremo la fine del finanziamento”.
Ancora il 14 gennaio, quando a Pechino erano ben note caratteristiche e virulenza del Covid-19, un tragico tweet sull’account ufficiale dell’Oms: “Indagini preliminari condotte dalle autorità cinesi non hanno trovato prove evidenti di trasmissibilità da persona a persona del nuovo coronavirus identificato a Wuhan” (con bandierina cinese). Peccato che Taiwan avesse avvertito l’Oms della trasmissibilità umana del nuovo virus già il 31 dicembre – ma Taiwan non esiste per l’Oms, in ossequio al principio di “una sola Cina”. E peccato che un primo caso fosse stato confermato il giorno prima, il 13, in Thailandia (difficile che un pipistrello o un pangolino fossero arrivati fin laggiù).
“L’Oms deve una spiegazione al mondo sul perché hanno preso per buone le parole della Cina. Tante sofferenze sono state causate dalla cattiva gestione delle informazioni e dalla mancanza di responsabilità da parte dei cinesi”, ha twittato l’ex ambasciatore alle Nazioni Unite Nikki Haley.
L’Oms, è lecito chiedersi, ha partecipato attivamente al cover-up da parte di Pechino, o ne è stata anch’essa vittima? In nessuno dei due casi ne potrà uscire bene, ma la sensazione è che almeno negli Stati Uniti vogliano vederci chiaro.
Non solo la Casa Bianca, anche il Congresso è sul piede di guerra contro l’Oms. Sia individualmente sia attraverso delle risoluzioni, molti senatori e deputati, in larga parte Repubblicani, chiedono le dimissioni del direttore generale Tedros Ghebreyesus.
Ieri alla Camera dei rappresentanti alcuni deputati repubblicani hanno presentato una risoluzione in cui si chiede al Congresso di tagliare i fondi all’Oms finché il suo direttore generale non si dimetterà e finché non verrà istituita una commissione internazionale per indagare su come l’organizzazione si è comportata con la Cina durante la pandemia. “L’America è il maggior contributore dell’Oms. Non è giusto che i dollari guadagnati con fatica dei contribuenti americani siano usati per propagare le bugie del Partito comunista cinese”, ha tuonato il deputato Guy Reschenthaler.
Il mese scorso, un’altra risoluzione, presentata alla Camera e al Senato, in cui si chiedeva al direttore dell’Oms di ritrattare le sue “dichiarazioni di supporto altamente fuorvianti sulla risposta del governo della Repubblica popolare cinese”.
Il senatore della Florida Rick Scott la scorsa settimana ha proposto una commissione d’inchiesta del Congresso, non internazionale, sul “ruolo dell’Oms nell’aiutare la Cina comunista a coprire le informazioni riguardanti la minaccia del coronavirus“. “Devono essere ritenuti responsabili per il loro ruolo nel promuovere la disinformazione e aiutare la Cina comunista a insabbiare una pandemia globale”, ha dichiarato. “Sappiamo che la Cina comunista sta mentendo su quanti casi e morti hanno, cosa sapevano e quando l’hanno saputo – e l’Oms non si è mai preoccupata di indagare ulteriormente”.
“Il marciume all’Oms in realtà va oltre le effusioni con Pechino, ma questo è un buon punto di partenza”, è la chiosa all’iniziativa del senatore da parte del Wall Street Journal, in un editoriale dal titolo eloquente: “World Health Coronavirus Disinformation”.
Lunedì scorso infatti il quotidiano Usa è tornato ad attaccare l’Oms, accusandola di disinformazione, di aver danneggiato, con i suoi “inchini” a Pechino, la riposta globale alla pandemia, e invitando il Congresso Usa a indagare sulla sua performance contro il coronavirus, ipotizzando che la sua capacità di giudizio sia stata “corrotta dall’influenza politica della Cina”.
Impietosa la ricostruzione del WSJ, la stessa che già avete letto in più articoli su Atlantico, da fonti in gran parte cinesi.
L’inizio dell’epidemia in Cina, a Wuhan, probabilmente a novembre, l’esplosione a dicembre.
Il genoma del nuovo coronavirus sequenziato dai laboratori cinesi entro la fine di dicembre, secondo Caixin Global, ma arrivò l’ordine dall’alto dei funzionari del partito di distruggere i campioni e non pubblicare nulla.
Il 30 dicembre l’allarme del dottor Li Wenliang, per questo arrestato con alcuni suoi colleghi e poi morto ufficialmente di Covid-19.
L’allarme sulla trasmissibilità da persona a persona arrivato il 31 dicembre direttamente all’Oms dalle autorità di Taiwan, ma ancora dopo due settimane lo sciagurato tweet del 14 gennaio, di cui abbiamo parlato poco sopra. Passerà un’altra settimana prima che la trasmissibilità umana venga ufficializzata.
Quindi la riunione del comitato emergenze dell’Oms del 22-23 gennaio, in cui si discute se dichiarare l’emergenza sanitaria globale. Una decisione apparentemente facile, ma non se ne fa niente, per le obiezioni e le pressioni di Pechino.
La dichiarazione arriva il 30, dopo la visita di Ghebreyesus a Pechino e le sue lodi alla risposta cinese: “Bisogna complimentarsi con il governo cinese per le straordinarie misure che ha adottato. Non mi ha lasciato assolutamente alcun dubbio sull’impegno della Cina per la trasparenza”. Comico. In realtà, si erano perse almeno 3-4 settimane preziosissime, durante le quali gli altri Paesi avrebbero potuto iniziare ad adottare le necessarie misure. Secondo uno studio dell’Università di Southampton, i casi nel mondo sarebbero stati ridotti del 95 per cento se la Cina avesse agito per contenere il virus solo tre settimane prima.
Secondo il Wall Street Journal, “gran parte della colpa dei fallimenti dell’Oms ricade sul Dr. Tedros, che è un politico, non un medico”, e di cui il giornale ricorda i trascorsi politici come ministro degli esteri e della salute del governo autocratico etiope, come membro del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè, di ispirazione marxista e socialista, nonché la sua proposta di nominare Mugabe ambasciatore dell’Oms.
Quindi, il WSJ chiede a Washington di riformare l’Oms, contrastando l’influenza cinese, o tagliarle i fondi.
“Di tutte le istituzioni internazionali, l’Oms dovrebbe essere quella meno politicizzata. La sua missione primaria è quella di coordinare gli sforzi internazionali contro le epidemie e fornire oneste linee guida di salute pubblica. Se invece è solamente una politicizzata Linea Maginot contro le pandemie, allora è più che inutile e non dovrebbe ricevere più finanziamenti dagli Stati Uniti”.
Un editoriale che Trump deve aver letto…
Una settimana fa aveva battuto un colpo anche l’intelligence Usa, facendo trapelare il contenuto di un rapporto riservato alla Casa Bianca secondo cui “la Cina ha nascosto la reale dimensione dell’epidemia di coronavirus, sottostimando deliberatamente sia il numero di casi di infezione rilevati che il numero dei decessi”. Senza poter fornire ulteriori dettagli, le fonti governative citate da Bloomberg hanno riferito che le conclusioni nel rapporto definiscono “falsi” i numeri forniti da Pechino.
Secondo i media britannici anche il primo ministro Boris Johnson sta ripensando ai legami tra Regno Unito e Cina alla luce della mancanza di trasparenza di Pechino sul coronavirus e, secondo fonti governative, Michael Gove, cancelliere del Ducato di Lancaster, avrebbe accusato la Cina di non aver condiviso dati accurati circa “la portata, la natura e la infettività” della malattia, anticipando che a Pechino verrà presentato il conto quando la pandemia sarà finita. Non escluso che il governo Johnson possa rivedere la sua decisione di consentire a Huawei di avere un ruolo nello sviluppo della rete 5G britannica.
La pandemia rischia di allontanare anche Cina e Russia (che è stata la prima a sigillare i suoi confini). Durante un meeting del presidente russo Putin con i suoi esperti, riferisce su Twitter Artyom Lukin (grazie a Luigi De Biase per la segnalazione), è emerso che Mosca ha ottenuto il suo primo campione biologico di Covid-19 dall’Australia, il 15 febbraio, non essendo riuscita ad assicurarsene dalla Cina.
Federico Punzi, 8 Apr 2020, qui.

E in quest’altro articolo, di Gian Micalessin, apprendiamo che

Per capire cosa intendeva dire l’inquilino della Casa Bianca bisogna tornare al maggio 2017 quando al Palazzo di Vetro si sceglie il nuovo direttore generale dell’Oms. Su indicazione della Cina 50 paesi africani totalmente allineati a Pechino votano per Tedros Adhanom Ghebreyesus, un ex-ministro della sanità e degli esteri etiope. Oltre a esser un microbiologo anziché un medico come tutti i suoi predecessori, Tedros Adhanom è anche sospettato d’aver insabbiato tre epidemie di colera scoppiate durante il suo mandato.

Se non fosse lo slogan di un famigerato gruppo terroristico, verrebbe voglia di riesumare il vecchio “Pagherete caro, pagherete tutto”. Spero comunque, con o senza slogan, che qualcuno faccia davvero pagare tutto a questi assassini.

PS: Qualche giorno fa un commentatore ha scritto:

Ancora un zic di sinofobia da 4 schèi (soldi) e chiedo la cittadinanza cinese, anche senza mangiare schifezze: o sono vegetariano. Ah, le identiche app le usa Israele.

Visto che qui di “sinofobia” ce n’è uno ziccone bello grosso, immagino che la Gloriosa Repubblica Popolare Cinese da oggi acquisterà uno schiavo in più, ben felice di esserlo, come tutti gli schiavi ideologici.

barbara

SÌ, QUESTO È UN PRESIDENTE

Donald Trump molto meglio di Mattarella: progetta il discorso alla Nazione in risposta al Coronavirus.

Il Presidente Donald Trump ha annunciato questo mercoledì alla Casa Bianca che si rivolgerà alla Nazione in merito alla battaglia in corso contro il Coronavirus.

Trump ha detto che il discorso alla nazione probabilmente avrà luogo alle 21:00. EST alla Casa Bianca, e ha promesso di condividere i dettagli del piano della sua amministrazione per affrontare la diffusione del virus.
Il Presidente e la Casa Bianca hanno lanciato una serie di proposte, secondo i rapporti, tra cui un maggiore avvertimento sui viaggi da e verso l’Europa e la dichiarazione dell’emergenza nazionale, consentendo alla sua Amministrazione di spendere fondi direttamente, al di fuori quindi delle autorizzazioni del Congresso.
Repubblicani e Democratici sono sembrati concordi sull’idea del Presidente di sospendere la payroll tax per aiutare i lavoratori ed i datori di lavoro a sostenere il calo degli affari a seguito di cancellazioni causate dal virus.
Il Presidente ha parlato con i giornalisti dopo aver incontrato rappresentanti di alcune delle principali banche ed istituzioni finanziarie americane, tra cui Bank of America, Blackstone, Citadel, Citi, Goldman Sachs, JPMorgan Chase, Trust Financial, U.S. Bank e Wells Fargo.

“Dobbiamo risolvere un problema che quattro settimane fa, nessuno avrebbe pensato che sarebbe stato un problema”.

Molti banchieri hanno espresso ottimismo sulla disponibilità di capitale finanziario, rilevando che non si è verificata una crisi finanziaria nonostante l’andamento del mercato azionario.

Breitbart.com

Mentre il Presidente americano si rivolgerà alla Nazione tutta, gli italiani, al terzo giorno di “quarantena” in tutto il Paese, ancora attendono che il Presidente della Repubblica dica qualcosa. Ecco perché preferiamo sempre un Presidente eletto dal popolo, che uno eletto da pochi parlamentari e che non deve rendere conto di quello che fa ai suoi cittadini. (qui)

Ma sbaglio o ho letto in giro che “Trump non crede al coronavirus”?
E poi occhio a non berci le balle cinesi.

barbara