Ho ripescato questo post di undici anni e mezzo fa.
A molti di noi probabilmente questo nome non dirà molto ma tutti, sicuramente, ricordiamo molto bene questa foto.
È stato in prigione, per questa foto, e noi non ne abbiamo saputo niente, come di tante cose che accadono in Iran non veniamo a sapere. Ora Ahmed è uscito, e ha raccontato la sua storia a Magazine del Corriere della Sera, che ora vi propongo.
NEL ’99 FU ARRESTATO PER UNA FOTO CHE DIVENNE IL SIMBOLO DELLA RIVOLTA STUDENTESCA AGLI AYATOLLAH. DOPO 8 ANNI DI TORTURE, USCITO DI PRIGIONE
È DIVENTATO FOTOGRAFO «PER RACCONTARE LA MIA TEHERAN». ORA È SCAPPATO IN SEGRETO IN OCCIDENTE. E AL MAGAZINE DICE: «CHIEDO ASILO»
Aveva 21 anni quando è stato arrestato, torturato, processato senza avvocato e condannato. Ha passato otto anni in prigione per una fotografia, un singolo scatto capace di marcare un evento, ma pur sempre una foto. Lo si vede che mostra a braccia tese la maglietta macchiata dal sangue di uno studente ribelle come lui, una specie di sindone pagana. L’Economist gli dedicò la prima pagina, ma il protagonista fu condannato a morte due volte sempre con lo stesso rituale alla Dostoevsky: prima gli mettevano la corda al collo e impiccavano davanti ai suoi occhi altri prigionieri, poi lo bendavano e stringevano il nodo del cappio. All’ultimo momento, però, quella foto lo salvava. Ahmad Batebi è l’icona della rivolta studentesca del ’99 a Teheran. Troppo famoso per sparire nel silenzio del carcere di Evin. L’unico dissidente iraniano assieme al giornalista Akbar Ganji a essere stato citato dai Grande Satana in persona George W. Bush, Batebi ha il physique du rôle della star mediatica: alto, massiccio, con un pizzetto che sa più di moda che di precetto islamico. Quel giorno aveva i lunghi capelli neri fermati sulla fronte da indiano metropolitano. Sembrava un figlio dei fiori, non un germoglio della Rivoluzione khomeinista. In Occidente scattò il riflesso di identificazione.
GIOVENTÙ RUBATA
«Scrivi quel che ti dico, non aver paura di quel che può succedere a me: la cosa meno grave che può farmi questo governo islamico è uccidermi. Hanno rubato la mia giovinezza, ma all’Iran hanno fatto di peggio. Scrivi, per favore, che questa mullahcrazia ha tolto agli iraniani il rispetto e la considerazione del mondo. Sembriamo una nazione di retrogradi, violenti, fondamentalisti». Uscito di prigione da appena otto mesi, l’ex studente è seduto al Caffè del Parco degli Artisti di Teheran. Subito dopo questa intervista non si è presentato alla firma in Questura. È scomparso, probabilmente all’estero. Vuol chiedere asilo politico. Da un giorno all’altro comparirà in qualche capitale occidentale e ricomincerà a denunciare il regime che l’ha incarcerato. Intanto nella sua ultima intervista in Iran, si racconta così al Corriere Magazine.
«Vedi quei due ragazzi? Lei è col chador, lui senza. Eppure sono persone normali. È il regime, manipolando la religione, che li costringe a travestirsi. Voi, dall’estero, non percepite l’Iran che c’è sotto il velo della dittatura: lo scambio di affetti, il rispetto, l’intelligenza delle persone che sfugge al controllo del regime. Le moschee, i chador, le barbe e i turbanti, ciò che vedete voi stranieri, non è quello che vivono gli iraniani. Come ho resistito alle torture? Sapevo che chi mi colpiva non rappresentava il mio popolo. Mi aggrappavo all’idea che un giorno accadesse quel che sta succedendo in questo momento. Che un giornalista chiedesse delle torture e io gli raccontassi dell’amore del popolo. Noi iraniani non siamo nemici, non odiamo Israele, l’America, il resto del mondo non sciita. È solo un regime, come tanti nella storia, che difende se stesso». Batebi è un rivoluzionario istintivo, nazionalista, ribelle oltre il limite della ragionevolezza, perseverante in tutto, fino nel look. Otto anni di carcere duro non sono bastati a convincerlo neppure a tagliarsi i capelli. A osservarlo pare che della cella gli siano rimaste addosso solo le spesse cicatrici delle torture, «a causa del sale messo sulle ferite per tenermi sveglio con il dolore». Invece ha avuto un ictus cerebrale, due ulcere, tre ernie del disco, sviluppato un’insufficienza renale, un tic alla spalla sinistra, insonnia e incubi da curare con dosi massicce di tranquillanti. «Era l’epoca del presidente Khatami. C’era più libertà, più speranza rispetto a oggi con Ahmadinejad. Noi studenti ci stavamo organizzando e le manifestazioni riuscivano sempre meglio. Ma a un certo punto la Sicurezza Nazionale ha scavalcato Khatami e ha cominciato ad arrestarci uno per uno, smantellando il Movimento. Fecero dai 4 ai 7mila arresti in un solo anno».
Si ferma, guarda tra i viottoli del parco, oltre la balaustra del Caffè degli Artisti. «Per me, la scusa fu una foto che in nessun altro Paese al mondo sarebbe stata un reato. Stavamo discutendo dentro l’università su come evitare la trappola di chi voleva far credere che gli studenti fossero solo dei fracassoni. A un tratto la polizia spara al cancello. Io ero nel servizio di pronto soccorso del Movimento e corro fuori. Mi metto dietro il muro di cinta aspettando di raccogliere i feriti. Un colpo di rimbalzo colpisce il ragazzo che è con me. Siccome il proiettile era già schiacciato e rallentato, non entra in profondità. Ricordo di averglielo tolto dal braccio con le unghie. Per pulire il sangue uso la maglietta che avevo sotto la camicia. Poi vedo altri studenti andare verso il cancello. Grido di fermarsi perché la polizia sta sparando. Quelli non mi sentono e per farmi capire alzo la maglietta insanguinata».
L’AUTOGOL DI “300”
II messaggio di pericolo arriva in tutto il mondo. Non ci fosse stato il fotografo Jamshid Bayrami, non sarebbe successo. «Nei miei otto anni di carcere Jamshid ha smesso di fotografare per il senso di colpa. Da quando sono uscito, però, siamo diventati amici. Lui non ha responsabilità. Jamshid cercava di mostrare quanto noi studenti fossimo sotto pressione. Lavoravamo nella stessa direzione. Anch’io, uscito di prigione, ho cominciato a fotografare. Voglio mostrare i millenni di civiltà, la cultura che sopravvive in questo Paese a dispetto del fondamentalismo sciita che vorrebbe cancellare tutto. Voi in Occidente non potete sapere. Persino il film americano 300 ha fatto il loro gioco: mostra i Persiani come barbari violenti, mentre la verità è che Ciro il Grande ha scritto la prima Dichiarazione dei diritti dell’Uomo 539 anni prima di Cristo. Noi iraniani siamo ostaggi di questo regime religioso. Dentro o fuori della mia patria continuerò a combatterlo».
Andrea Nicastro
Stupisce e commuove la forza di questo ragazzo di neanche trent’anni che carcere, tortura e condanna a morte non sono riusciti a piegare (e lo conosco, il macabro gioco dei macellai iraniani di fingere di giustiziare coloro che non possono giustiziare, lo conosco bene). Stupisce e commuove la bellezza, esteriore e interiore, di questa splendida persona, la sua pulizia morale, il suo rigore etico, il suo straordinario coraggio.
Voglio, con l’occasione, ricordare l’amica “lilit”, tornata in Iran dopo anni di esilio per “tentare di fare qualcosa di più utile” e della quale da troppo tempo mancano notizie. E voglio ricordare il martirio di Zahra Kazemi, anch’esso nella prigione di Evin, di cui fra pochi giorni ricorre il quinto anniversario.
Successivamente ho contattato Andrea Nicastro, autore dell’articolo, per chiedergli se avesse notizie certe, ossia se la sparizione di Ahmad Batebi significasse che era fuggito e si era messo in salvo, e lui mi ha assicurato di avere notizie certe che era effettivamente così.
Ne riparliamo adesso perché l’abbiamo visto ricomparire in occasione dei recenti avvenimenti con questo twit e apprendiamo che, da giornalista e fotografo, non ha mai smesso di lottare per la liberazione dell’Iran dalle grinfie diaboliche delle forze del male. E a lui e a tutti i coraggiosi giovani iraniani che rischiano quotidianamente la vita per combattere per ciò che da noi tanto viene disprezzato, il più caldo augurio di poter vedere finalmente la luce.
barbara