Le vere donne violate di cui Rula non parlerà mai
di Lorenza Formicola
Succede che Sanremo finisce e che gli abiti sbrilluccicanti, che devono fare scena e rima con le parole da mettere al posto giusto perché nessuno deve sentirsi offeso, ritornano negli armadi. E succede che la protagonista del monologo che la critica ha giudicato da Oscar, Rula Jebreal, finisce di nuovo in prima pagina. Perché si può diventare l’eroina del giusto, del vero, del bello e del puro, per poi un attimo dopo prendere in giro sull’aspetto fisico il maschio bianco, il presidente Trump. Non le sue idee, non le sue parole, ma la sua esteriorità.
La Jebreal con una foto pubblicata su Twitter vorrebbe umiliare il presidente Usa e sbugiardare i capelli incollati alla testa e il colorito sistemato con il trucco. Fermo restando che la foto postata dalla Jebreal non sarebbe neanche l’originale, viene da notare subito due cose: che non c’è niente di più odioso che cercare di screditare qualcuno criticando il suo aspetto fisico e la contraddizione di un gesto che, se avesse avuto come protagonista il trucco e i capelli di una signora, sarebbe diventato la prova della “violenza sulle donne”. Già quella violenza tanto stigmatizzata e che ha commosso il mondo intero – giurano i titoli di giornale -, ma resta avvolta da un bel velo di patinata ipocrisia. Lasciamo perdere, infatti, chi bullizza l’aspetto fisico di Trump o di chi per esso. E, per una volta, invece di parlare di tutti, e quindi di nessuno, andiamo in fondo alla verità dell’argomento.
Chi sa o si ricorda di Rotherham? La cittadina inglese dove per anni almeno 1400 ragazze minorenni sono state aggredite sessualmente, molestate o violentate da gang di maschi islamici.
Per sedici anni i fatti sono stati taciuti da istituzioni negligenti e timorose di essere accusate di “razzismo” o “islamofobia”. Dagli assistenti sociali alla polizia fino ai giudici nessuno ha voluto sfiorare un argomento che avrebbe voluto dire denunciare il barcone del multiculturalismo.
Mohammed Shafiq, a capo di una organizzazione giovanile musulmana, la Ramadhan Foundation, confiderà al Daily Mail che “gli asiatici non tendono ad andare con ragazze delle loro comunità, perché qualcuno potrebbe venire a bussare alla loro porta. Non vogliono padri o fratelli, o leader delle comunità che si scaglino contro di loro”.
Nel 2015, un anno dopo che lo scandalo scoppiasse, la British Muslim Youth in un messaggio su internet ancora ordinava ai giovani musulmani di boicottare le indagini delle forze dell’ordine, magari facendo scoppiare qualche bella rivolta contro gli “islamofobi”. Eppure nessun discorso contro la violenza sulle donne ha mai osato denunciare fatti simili. Che poi non sono accaduti solo a Rotherham, ma anche a Oxford, e poi Bristol, Derby, Rochdale, Telford, Peterborough, Keighley, Halifax, Banbury, Aylesbury, Leeds, Burnley, Blackpool, Middlesbrough, Dewsbury, Carlisle… Sono più di 15 le città di una delle patrie per eccellenza del “multikulti”, il Regno Unito, in cui musulmani di origine pakistana e afghana andavano a caccia di bambine bianche.
“Per gli abusi sessuali si sono serviti di coltelli, mannaie, mazze da baseball, giocattoli sessuali… Gli abusi erano accompagnati da comportamenti umilianti e degradanti – quanta delicatezza e parsimonia di giudizio! ndr – come mordere, graffiare, urinare, picchiare e ustionare le ragazzine. Le violenze sessuali sono state compiute spesso da gruppi di uomini e, a volte, la tortura è andata avanti per giorni e giorni. […] I luoghi in cui sono state effettuate le violenze spesso erano case private di Oxford. Gli uomini che pagavano per violentare le ragazze non erano sempre di Oxford. Molti venivano, appositamente, anche da Bradford, Leeds, Londra e Slough. Spesso previo appuntamento”, si leggerà in un estratto del rapporto della procura inglese alla fine di uno dei tanti processi degli ultimi anni. Tanti altri sono ancora in corso. E chissà perché nessuno ne scrive.
“Tutte le donne bianche sono buone solo a una cosa. Per gli uomini come me sono da abusare e utilizzare come spazzatura. Nient’altro”, è un altro degli imputati, uno della gang islamica, a parlare.
Ed è meglio non approfondire i numeri, perché quelli lì sono davvero agghiaccianti.
La stessa Svezia che i media hanno continuato a difendere dagli “attacchi insensati” di Donald Trump; la Svezia dell’Ikea che ci ricorda ogni giorno che, a conti fatti, vale tutto, l’importante è sentirsi se stessi; la Svezia che ancora qualcuno osa portare a modello di integrazione e oasi di pace. Quella Svezia lì, come il Regno Unito, ha visto perpetrare abusi sessuali di massa da immigrati islamici nell’occasione di due affollatissimi festival musicali nazionali.
E sempre a proposito di violenza sulle donne, quanti monologhi sono stati fatti dopo il capodanno di Colonia del 2016? E sulle misure adottate per gli anni successivi? Sarebbe stato bello ascoltare, poi, monologhi sulla solidarietà femminile quando la deputata laburista Sarah Champion è stata costretta alle dimissioni. Perché dopo anni di denunce aveva osato scrivere un editoriale in cui denunciava le bande di pakistani che, a zonzo per il Paese, violentano le ragazzine bianche. Considerazioni troppo disdicevoli per la sinistra inglese. E cosa dire ancora delle oltre mille ragazze cristiane e indù che, ogni anno, vengono rapite, violentate, convertite forzatamente all’islam e costrette a sposare un musulmano molto più grande. Una barbarie che si compie con la complicità delle autorità. Solo qualche giorno fa l’Alta Corte del Sindh ha deciso che il matrimonio di una 14 enne cristiana con un musulmano – malgrado rapimento, violenza e tutto il resto – è da ritenersi valido.
Il Pakistan può continuare tranquillamente a perseguitare i cristiani, a favorire il rapimento e lo stupro delle ragazze cristiane, a uccidere chi chiede di non essere discriminato, tanto nessuno farà mai un monologo o una denuncia come si deve da nessun palco con una certa eco. E nessuno racconterà delle torturatrici della polizia religiosa istituita dall’Isis a Raqqa. Dove l’organizzazione terroristica aveva istituito una vera gestapo al femminile.
Donne che torturano altre donne e una sola la parola d’ordine: rapire, colpire, torturare e uccidere le infedeli, le donne crociate o semplicemente senza velo. La violenza sulle donne è una cosa seria, ma di quella vera e diffusa nessuno ne parlerà mai, perché troppo brutale per i discorsi che devono piacere a tutti quelli che piacciono. Troppo complessa per l’evanescente ideologia di cui è imbevuta quella approvata dal pensiero unico. (qui)
E non è ancora tutto. Anzi, questo è ancora il meno
RULA JEBREAL HA RACCONTATO UNA MAREA DI BALLE SULLA SUA VITA? NEL 2011 DESCRIVEVA SUO PADRE COME UN EROE, MA PER FARE LA FENOMENA A SANREMO LO HA DESCRITTO COME UN MOSTRO
di Gianluca Baldini (tratto dal web)
Rula Jebreal sul palco di Sanremo ha raccontato di sua madre, morta suicida dopo anni di soprusi subiti dal padre.
Bene, in questa intervista recuperata dal webarchive (CLICCA QUI PER IL LINK) raccontava una storia profondamente diversa, dipingendo il padre come un santo che aveva subito le follie di una madre alcolizzata e promiscua e che aveva cercato in ogni modo di salvarla nonostante le sofferenze arrecate e le corna.
Il discorso di Rula è stato scritto da Selvaggia Lucarelli (evidentemente Rula non era in grado di scriverlo da sola), ma l’ha letto lei, avallando quella versione ritoccata.
Raccontando che il padre era uno stupratore e la madre una vittima.
Quale sia la verità lo sa solo lei, ma questo interessante aneddoto mette in evidenza l’ipocrisia, la falsità e l’opportunismo di questa donna, che infanga la memoria dei suoi cari per fare spettacolo.
Quando ho pubblicato la foto della Jebreal con Weinstein
qualcuno tra i miei contatti si era risentito.
Così ho dovuto spiegare che lei è una cara amica di Weinstein, che fu produttore del suo film e amico intimo dell’ex di Rula, nonché regista del medesimo film Julian Schnabel.
A casa di Schnabel si tenevano i festini in cui Weinstein incontrava le sue vittime (questo sostengono un certo numero di accusatrici) e in quella casa Rula ci ha vissuto per anni.
Sarà per questo che nel pieno dello scandalo #metoo si è tenuta a debita distanza dal dibattito social.
C’è altro da aggiungere? (qui)
No, in effetti. Al primo momento qualcosa pensavo di aggiungere, ma mi rendo conto che non ci sono aggettivi adeguati a qualificare questo essere che non solo mi rifiuto di chiamare donna, ma che ho anche qualche difficoltà a considerare umano.
barbara