Quest’ultima cosa non la metto in chiaro, perché già il fermo immagine iniziale non credo sia per tutti. C’è un video, che NON ho guardato, accompagnato da questa descrizione:
These are Russian paratroopers lying on the ground, they were ambushed while retreating on March the 30th. So they were held captive, strapped and then the Ukrainians cut their throats, that is why you can hear that horrendous rattle. After that Ukrainian thugs were mocking helpless prisoners of war listening to them gasping for air through cut open throats and only after that killed them off with a gun.
Lo guardi chi se la sente. Quanto a me, concludo con la domanda che le persone più ragionevoli si sono poste: è davvero credibile, pensabile, che un esercito in ritirata – ritirata, non la rotta di Caporetto – e che è sotto la lente d’ingrandimento del mondo intero, si lasci dietro centinaia di cadaveri massacrati per farsi accusare di crimini di guerra e costringere – guarda caso… – la NATO a intervenire direttamente?
Cittadina greca evacuata da marioupol " i militanti ucraini ci impedivano di raggiungere i corridoi umanitari sicuri poi abbiamo incontrato i militanti russi e ci hanno portati in salvo " pic.twitter.com/akOOORzanF
E Marcello Foa sempre sullo stesso tema sette anni fa
Alessandro Orsini su un po’ di cose che non sappiamo
e che per avere dato queste informazioni è stato epurato dalla sua università e cancellato da Wikipedia,
oltre a essere stato sommerso di contumelie su tutti i social, nei quali gli è stato imputato quale grave elemento a carico anche il suo parlare pacato e a voce bassa – cosa effettivamente molto rara di questi tempi.
La figura di merda della nostra informazione
Qualche considerazione realistica
UCRAINA: OGNI GIORNO CRESCE IL PREZZO DELLA PACE
La guerra scatenata dalla Russia è terribile, siamo d’ accordo. Invadere un paese sovrano è la più grave violazione del diritto internazionale, anche quando si accampano giustificazioni più o meno plausibili come il diritto all’ autodifesa e quello all’ “ingerenza umanitaria”. Invitiamo i Russi a farsi un’ esame di coscienza e, già che ci siamo, facciamolo pure noi: ci siamo indignati altrettanto quando i “nostri” hanno invaso Yugoslavia, Afganistan, Iraq e Libia e bombardato alla chetichella un’ altra manciata di paesi, creando un mondo in cui conta solo la forza e dando a Putin una lezione che quello, da studente sveglio e voglioso di apprendere qual è, si è diligentemente annotata? Ad ogni buon conto, quando saremo stanchi di far prediche agli altri e magari anche a noi stessi, potremo fermiamoci a riflettere. Gli slanci emotivi portano poco lontano: se non vogliamo che la nostra aspirazione alla pace resti una petizione di principio o, peggio, venga intesa come appoggio a iniziative che provocherebbero in maniera quasi automatica una disastrosa estensione del conflitto (vedasi alla voce no fly zone), occorre sforzarsi e tentare una lettura approfondita e razionale. Una delle questioni più urgenti da definire (e tuttavia più trascurate) è quella degli obiettivi di guerra russi. Eppure determinare cosa voglia il “nemico” è il punto di partenza indispensabile per ogni trattativa e per verificare se vi siano spazi per un compromesso. Riavvolgiamo, dunque, la pellicola degli eventi fino allo scorso 15 dicembre, quando la Russia ha presentato le proprie richieste agli Stati Uniti sotto forma di bozza di trattato. La parte riguardante l’ Ucraina prevedeva la neutralità e (implicitamente) la smilitarizzazione del paese. Come noto le richieste furono respinte in omaggio all’ “irrinunciabile” principio NATO delle “porte aperte”. A pensarci ora, a soli tre mesi di distanza, viene un po’ da mangiarsi le mani, vero? Difendere il diritto della NATO ad espandersi all’ infinito valeva davvero tutto questo? In ogni caso abbiamo detto di no: e quella porta negoziale è ormai chiusa per sempre. Secondo passaggio: il riconoscimento delle repubbliche di Donetsk e Lugansk il 21 febbraio e l’ inizio delle operazioni militari (tre giorni dopo). La Russia ha immediatamente enunciato le proprie quattro richieste: riconoscimento dell’ annessione (ricongiunzione, dicono loro) della Crimea (un fatto compiuto da ormai 8 anni) e dell’ indipendenza di Donetsk e Lugansk, tanto per cominciare. E poi epurazione dei nazionalisti a Kiev, impegno formale alla neutralità del paese. Queste richieste sono state ripetute più volte: da Putin in persona, in occasione di un colloquio con Macron il 28 febbraio e di uno con Scholtz il 4 marzo, dalla delegazione russa alle trattative bilaterali che si tengono in Bielorussia (1 marzo), e dal ministro degli esteri Lavrov (il 2 marzo). Abbiamo subito risposto di no anche a queste proposte (con una punta di indignazione), o meglio lo ha fatto, su nostra imbeccata, il governo Ucraino. In particolare Zelensky ha ribadito che la posizione negoziale di Kiev è il ripristino dei confini del 1991 (quindi non solo con il Donbass, ma anche con la Crimea). Una pretesa un po’ ambiziosa, provenendo da un tizio che vive in un bunker. Tuttavia i Russi, messi in difficoltà da una resistenza risoluta e dall’ allungarsi delle linee di rifornimento, sembrano segnare il passo, e quella base negoziale su quattro punti potrebbe essere ancora valida (il ministero degli esteri russo l’ richiamata ancora il 17 marzo), nonostante, soprattutto nei primi giorni, il controllo di Mosca si sia esteso penetrando di cento, duecento chilometri in territorio ucraino. Siamo però ad un passaggio cruciale. E’ evidente che, per costringere gli Ucraini ad accettare i “quattro punti” Putin dovrà andare ancora avanti. In che direzione? Qualcosa si scorge fra le righe delle dichiarazioni, nelle direttrici di avanzata delle truppe di Mosca e nella gestione dei territori occupati. Un piano che diviene più concreto ogni giorno di conflitto che passa e che prevede, di fatto, la cancellazione dell’ Ucraina dalle mappe o almeno un suo drastico ridimensionamento. Non è un mistero che Putin sia convinto l’ Ucraina non sia un vero stato, ma un Frankenstein creato dagli esperimenti politici di pazzi scienziati bolscevichi. Ne parlò per la prima volta il 25 gennaio 2016: “i confini (interni dell’ URSS n.d.A.) furono determinati in modo completamente arbitrario e non sempre ragionevole. Ad esempio, il Donbass fu inserito nell’ Ucraina. Con il pretesto di aumentare la percentuale del proletariato in Ucraina, per contare su un maggiore sostegno sociale. Un’ assurdità”. Concetto sviluppato il 21 giugno 2020 quando il Presidente disse come avrebbe regolato lui il diritto di separazione previsto dalla costituzione dell’ URSS: “Se una repubblica, entrando a far parte dell’URSS, avesse ricevuto un’enorme quantità di terre russe, tradizionali territori storici russi, e poi avesse deciso di lasciare questa Unione, avrebbe dovuto andarsene con quello con cui è entrata. E non portarsi via i regali del popolo russo!”. E ancora, nel saggio pubblicato il 12 luglio 2021, e nel discorso della guerra, il 21 febbraio scorso nel quale, dopo aver precisato che l’ Ucraina è una costruzione politica del tutto artificiale, ha minacciato: “Volete la decomunistizzazione? Bene, ci va bene. Ma senza fermarsi a metà strada. Siamo pronti a mostrarvi cosa significa la vera decomunistizzazione per l’Ucraina.”. In pratica una citazione da Taras Bulba di Gogol “la vita: come te l’ ho data, così te la tolgo”. Con Russia 24 pronta a mostrare la “mappa” dei regali da restituire: il Donbass, certo, ma anche Kharkov e tutta la costa del Mar Nero fino al confine con la Moldavia. Il canale Telegram Rezident vanta entrature nell’ amministrazione ucraina: più probabilmente è uno strumento di propaganda russa. Sia come sia è interessante leggere come Rezident ha descritto la quarta tornata di incontri negoziali fra Russi e Ucraini. I Russi avrebbero detto, in sintesi: accettate le nostre prime richieste e la chiudiamo qui. Se no procediamo, e ci prendiamo tutto il sud del vostro paese. Ecco cosa succederà se Zelensky, istigato dagli alleati occidentali, si ostinerà a non sedersi al tavolo delle trattative. La musica è già cambiata a Melitopol, la prima grande città ucraina occupata e “vetrina” da presentare al mondo: in un primo momento (il 24 febbraio) al sindaco è stato consentito mandare un messaggio alla popolazione davanti alla bandiera ucraina, mentre poi (12 marzo) sia il sindaco che la bandiera sono stati sostituiti: ora a capo della città c’è Galina Danilchenko, dell’ opposizione russofona, mentre gli edifici pubblici espongono il tricolore russo, che nel frattempo è comparso anche sui palazzi dell’ amministrazione provinciale di Kherson, il primo capoluogo caduto in mano alle truppe di Mosca. L’ appetito, come si dice, vien mangiando, e alla lunga, per i Russi, potrebbe diventare difficile restituire, in aprile o maggio, i territori occupati (pagando un alto prezzo di sangue) per forzare l’ accettazione delle richieste di marzo. E’ una spirale di rilanci: non si vuole lasciare a Putin la Crimea? Si prende Donetsk. Non gli si concede Donetsk? Eccolo a Mariupol. Non gli si vuole cedere Mariupol? Sbarco ad Odessa. Non vi basta ancora? Attacco a Kiev. In ogni richiesta respinta c’è la base di un nuovo rilancio ed una nuova, cruenta, situazione di fatto che poi rischia di cristallizzarsi in una nuova pretesa negoziale. Alla fine di questa spirale si sono solo due possibili esiti. O la Russia, spostato il baricentro delle proprie relazioni in Asia, si troverà a gestire l’ occupazione impossibile di una enorme distesa di macerie abitata da una gente impoverita e forse per sempre nemica mentre, oltre ad un confine tracciato dai crateri e da montagne di cadaveri, un’ Europa occidentale invasa da milioni di profughi e fiaccata dalla crisi economica, visceralmente ostile, verrà aggiogata alla Nato con un laccio secolare. Oppure (ed è quello in cui sperano i sostenitori della linea dura), il baratro dell’ Ucraina finirà per inghiottire anche il vicino: la Russia salterà per aria sfiancata dallo sforzo e collasserà. Una prospettiva che in teoria può anche attrarci, ma che in pratica significherebbe undici fusi orari pieni di materie prime indispensabili, disseminati di armi nucleari e abitati da 200 gruppi etnici, sprofondati nel caos. Non c’è dubbio che convenga a tutti (o meglio: a tutti gli abitanti dell’ emisfero orientale), fermare questo vortice ora, facendo un bagno di realismo. Solo a prezzo di montagne di cadaveri Donetsk Lugansk e Crimea possono tornare Ucraina. Solo allo stesso prezzo Odessa e Kiev possono tornare Russia. Se ne prenda atto. Si spinga Zelensky all’ accordo ed alla troppe volte differita resa dei conti con gli estremisti interni, si inchiodi ora Putin alle sue prime, in fin dei conti ragionevoli, pretese. Si faccia dell’ Ucraina uno spazio disarmato in cui la Russia e gli altri paesi europei possano esercitarsi, se non alla cooperazione, almeno alla convivenza. Se nelle stanze dei bottoni europee c’è qualcuno che vuole davvero la pace, ignori le masse irretite dalla propaganda di guerra, e batta un colpo. Le cose possono andare assai peggio e non c’è più tempo per gli indugi. Marco Bordoni, qui.
E infine uno dei commenti più intelligenti usciti negli ultimi tempi
questa società finirà nel condannare un gazzella che cerca di scappare dalla presa mortale di un coccodrillo?
E infatti chi di noi non ha visto nella savana branchi di coccodrilli lanciati al galoppo all’inseguimento delle povere gazzelle? (E con questo livello di intelligenza e di informazione – e stendiamo un velo pietoso sulla conoscenza dell’italiano – come stupirci delle bestialità che sparano a velocità superiore a quella della creatura del buon Michail Timofeevič?)
Chiudo con la più sobria – e forse la più intensa – dichiarazione d’amore della storia del cinema
Chissà, forse anche fra i civili imprigionati per settimane come scudi umani dagli eroici ucraini nel teatro di Mariupol e altrove, saranno nati embrioni di storie d’amore destinati a svanire nel vento.
Il salvataggio di Zhara, “soldato Jane” afgana. Nonostante Di Maio
Zhara, la soldatessa afgana che aveva combattuto al fianco degli italiani, dopo la ritirata è riuscita a salvarsi, grazie all’impegno dei due giornalisti Biloslavo e Carnieletto, di un’associazione cattolica e di un deputato della Lega. Non grazie a Di Maio e ai suoi “corridoi umanitari”.
Il “soldato Jane”, così l’avevano ribattezza i due giornalisti italiani Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto. Un po’ per mantenerne l’anonimato, un po’ per celebrare uno dei pochi e coraggiosi simboli di quanti non si sono piegati ai talebani. Zhara, il suo vero nome. Il resto lo omettiamo per ragioni di sicurezza. Una storia incredibile quanto eccezionale, ed è quella “eccezione” che l’ha portata a fare forse il passo più importante della sua vita e ad essere salva in Italia.
Zhara era un soldato donna dell’esercito a Herat. E come donna aveva avuto un ruolo particolare proprio come rappresentante di genere lì e nell’esercito. Per anni ha collaborato con le truppe italiane. Quando i Talebanihanno preso il potere a Kabul è finita presto nella loro black list. A Kabul, quest’estate, era riuscita ad intercettare il giornalista italiano Biloslavo, inviato nel Paese degli aquiloni. È da quel momento che inizia una storia a lieto fine. “La nostra situazione è disperata, se voi italiani non riuscirete a farci uscire dal Paese finirà male: ci taglieranno la testa”, aveva detto a Biloslavo. Lei, simbolo della collaborazione tra il popolo afgano e le missioni internazionali di pace, emblema dei vent’anni di contrasto ai Talebani, da giorni si stava nascondendo con il marito e i fratelli, pure loro militari. Ma soprattutto con i due figli piccoli di 9 anni e 8 mesi. Le era già stata bruciata la casa.
Fortunatamente quell’appello non cade nel vuoto. Il primo passo che Zhara e la famiglia riescono a fare è quello di superare il confine. Anche qui, il merito va ai giornalisti italiani. Garantiscono loro, con l’ambasciata italiana a Islamabad. Le autorità la fanno passare. “Siamo in Pakistan. Ma ci sentiamo al sicuro solo in Italia”, è il messaggio che arriva il 27 settembre a Biloslavo. L’iter per il visto necessita di un invito di una Ong che si occupi dell’accoglienza. Secondo il racconto dei due giornalisti, Biloslavo e Carnieletto, grandi e famose organizzazioni umanitarie si sono defilate. Ad aprire le braccia c’è un’associazione cattolica del veronese, guidata da un sacerdote. Missione compiuta.
Ma solo grazie ad una minuscola associazione di volontariato cattolico, un paio di politici, due giornalisti e l’ambasciata di Islamabad. “Del governo non c’è traccia. I corridoi umanitari di cui Di Maio ha imbottito i suoi proclami? Non li abbiamo riconosciuti. Le vie istituzionali del ministero degli Affari Esteri? Se ci fossero state, questa signora e la sua famiglia non avrebbero dovuto trovare vie un po’ raffazzonate. Alle parole del nostro Ministro degli Esteri non è seguito alcun impegno. Anzi. Davanti ad una crisi pericolosa sotto tanti punti di vista, abbiamo dovuto persino sentir parlare di un fantomatico dialogo con i talebani”, racconta alla Nuova Bussola Quotidiana il deputato leghista Vito Comencini, uno dei protagonisti di questa storia.
Da Herat a Verona, poco più di 5 mila chilometri in linea d’aria. È la strada che separa vita e morte. E che ha portato ad un lieto fine. Herat per più di 15 anni è stata la principale base italiana nel Paese, ora tutto è ancora così come l’hanno lasciato i militari italiani a inizio giugno. Tant’è che i Talebani hanno chiosato: “Avete solo sprecato un mucchio di soldi”. Perché non solo la base è abbandonata, ma non tutti gli ex assistenti afgani sono riusciti a mettersi in salvo con le loro famiglie. E cos’è successo dopo la caduta della provincia che per 18 anni è stata sotto il controllo dell’Italia è una storia di caos, ritardi e viaggi disperati.
Però pochi giorni fa il soldato Jane, è atterrato a Milano Malpensa. Sono andati a recuperarla, a proprie spese, con un pulmino, il deputato leghista Comencini, il consigliere comunale Andrea Bacciga. Accolta, poi, dal sindaco Federico Sboarina. È il Comune veronese che ha messo a disposizione un appartamento per la quarantena obbligatoria, poi ci penserà l’associazione cattolica ad occuparsi di loro. A commuovere tutti sono, però, soprattutto, gli sguardi felici di quei bambini il cui destino è cambiato per sempre.
Ma Zhara non è l’unica ad essere stata abbandonata da Di Maio. Sebbene per settimane abbiamo sentito ripetere la storia dei corridoi umanitari, “i meglio organizzati ed efficienti al mondo”. Secondo Biloslavo i corridoi sono inesistenti: continuano a lasciare indietro almeno 250 interpreti e collaboratori. Il calcolo è approssimativo. Quegli stessi uomini e donne che in questi vent’anni di guerra hanno collaborato con gli italiani. Qualcuno è rimasto sotto il regime dei Talebani, altri sono salvi. Hanno venduto elettrodomestici, beni vari e le case e sono partiti da Herat per Kabul a metà agosto. All’aeroporto hanno dovuto aspettare a lungo la “linea della morte”. Tanti hanno perso mogli e figli. Altri ce l’hanno fatta, ma pochi sono quelli che hanno potuto superare la folla. Secondo alcune testimonianze, c’è anche chi ce l’aveva fatta, ma è stato ignorato dalle forze Italiane.
Dal 26 agosto – dopo l’attentato dello Stato islamico all‘aeroporto di Kabul – tante speranze di libertà sono evaporate. Gli interpreti hanno ripiegato in una vita di anonimato e vivono nel terrore di essere identificati come interpreti italiani. Ogni giorno che passa è un giorno in più in cui rischiano che i Talebani gli taglino la gola. Zhara, suo marito e suoi figli, invece, ce l’hanno fatta. Sono in buone mani, salvi. In Italia. Lorenza Formicola, qui.
Abbiamo cominciato col siamo prontissimi e la potenza di fuoco e la reclusione del coglione 1 e siamo approdati al coprifuoco in un territorio con bar ristoranti pizzerie cinema teatri discoteche palestre piscine scuole di teatro musica danza, ossia tutti i luoghi in cui la gente potrebbe andare di sera, rigorosamente chiusi, da parte del coglione 2. Ma per fortuna ci salva quello bravo in inglese e geografia. E le grandi ONG che salvano la gente in pericolo, tipo quella della stradina, per dire. O gli attori famosi, sempre in pista quando c’è da salvare qualcuno.
E adesso i migranti, in gran parte illegali, si ribellano e minacciano di morte i marittimi italiani del rimorchiatore che li ha soccorsi, se non vengono portati verso le nostre coste
A tal punto che deve intervenire la Diciotti della Guardia costiera con un elicottero della Marina militare in appoggio. Nonostante fosse arrivata anche la motovedetta libica Ras Jadir, che voleva riportare indietro tutti i migranti. Il risultato è che 67 persone (58 uomini, 3 donne e 6 minori) verranno sbarcati in Italia dopo aver scatenato una giornata di scontro politico nel governo fra il Viminale e il ministero dei Trasporti, che ha la competenza per la Guardia costiera. Solo uno dei migranti, di nazionalità yemenita, scappa dalla guerra, che travolge il suo Paese. Gli altri arrivati da Bangladesh, Nepal, Ghana, Pakistan, Palestina, Algeria, Marocco, Egitto, Ciad, la stessa Libia e Sudan difficilmente potranno ottenere asilo nel nostro Paese.
L’ennesimo episodio ambiguo sul fronte dell’immigrazione via barconi dalla Libia, che fa il gioco dei trafficanti. Vos Thalassa è un rimorchiatore d’altura battente bandiera italiana con 12 connazionali di equipaggio compreso il capitano. La nave ha un contratto per le piattaforme petrolifere Total a una cinquantina di miglia dalla Libia. Domenica i marittimi italiani prestano soccorso a un barcone in legno che rischia di affondare. E si caricano a bordo i 67 migranti avvisando la Guardia costiera libica e quella italiana.
Da Tripoli fanno salpare la motovedetta Ras Jadir per andare a prendere i migranti e riportarli indietro. Il rimorchiatore italiano fa rotta verso le coste libiche. Il comandante scrive: «Buonasera, alle 22 it la nave è partita per il punto d’incontro con la motovedetta libica». Però «alle 23 qualcuno dei migranti in possesso di telefoni e Gps ha accertato che la nave dirigeva verso Sud» e non a Nord in direzione dell’Italia. Sembra che un «naufrago» avesse anche una bussola. «È iniziato così uno stato di agitazione – si legge nell’allarmante messaggio – I migranti in gran numero dirigevano verso il marinaio di guardia chiedendo spiegazioni in modo molto agitato e chiedendo di poter parlare con qualche ufficiale o comandate». Il marittimo italiano «impaurito e accerchiato contattava il ponte via Vhf». Dalla plancia interviene il vice del comandante, ma «i migranti hanno accerchiato il primo ufficiale chiedendo spiegazioni e manifestando un forte disappunto, spintonando lo stesso e minacciandolo…». Nel sobillare l’ammutinamento si distinguono un ghanese e un sudanese, che aizzano gli altri. Alla fine gli italiani cedono: «Per tranquillizzare la situazione abbiamo dovuto affermare che verrà una motovedetta italiana» si legge nei messaggi.
I libici raggiungono il rimorchiatore a notte fonda. L’ammiraglio Ayoub Qassem, portavoce della Guardia costiera conferma: «Volevamo accompagnarli verso la costa, ma non c’è stato nulla da fare: le persone a bordo hanno continuato a protestare e a minacciare l’equipaggio, costringendo il rimorchiatore a dirigersi verso Nord».
Lunedì la società armatrice protesta per «non aver ricevuto ancora assistenza» 24 ore dopo il soccorso. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, chiarisce subito che i porti sono chiusi: «Nelle acque di ricerca e soccorso libiche intervengono i libici. Le navi delle Ong sono finalmente lontane dagli scafisti. Ora sto lavorando perché anche le altre navi, private o militari, non aiutino i trafficanti a guadagnare altri soldi». Però di fronte alla «situazione di grave pericolo per la sicurezza della nave e del suo equipaggio» italiano la Guardia costiera è costretta a intervenire con la nave Diciotti che trasborda i migranti. Per tutto il giorno si alza la tensione politica fra Salvini e Toninelli. Alla fine la Diciotti attraccherà oggi in Italia, i migranti verranno sbarcati, ma il ministro dei Trasporti garantisce che «i responsabili delle minacce di morte all’equipaggio della Vos Thalassa saranno fermati e arrestati». (qui)
Ricapitolando: decine di persone, bambini compresi, si imbarcano – o vengono imbarcati dai negrieri libici al modico prezzo di qualche migliaio di euro a testa – per attraversare il Mediterraneo su un barcone che a stento riuscirebbe ad attraversare il Po. Dopo pochi chilometri, casualmente, non si sa come mai, vedi un po’ le cose strane che succedono nella vita, il barcone sta rischiando di affondare. Di solito questo succede quando c’è una falla: evidentemente c’era da prima e loro, ahiahiahi ragazzacci distratti, non se n’erano accorti. O si è aperta da sola: si sa che le falle nelle barche sono famose nel mondo per la pessima abitudine di aprirsi da sole, come quando sei lì che non stai facendo niente e improvvisamente pafff, ti salta fuori un foruncolo sul naso, così, completamente da solo. Vabbè, stanno affondando; la nave più vicina prontamente li soccorre – come è giusto – e contemporaneamente avvisa l’autorità competente per quel tratto di mare, ossia la guardia costiera libica – come è altrettanto giusto – che va loro incontro per andarli a prendere e completare il salvataggio. Haha! Credevate voi di poterli fregare quei poveracci che non hanno niente di niente oltre agli stracci che hanno addosso, che fuggono dalla miseria, dalla disperazione, dalla morte per fame, credevate, eh? E invece vi hanno fregato loro! Tirano fuori telefoni, bussole, GPS e si accorgono che non li state portando in Italia! Ma voi veramente credevate che avessero bucato la barca – ooops, pardon! Che si fossero disgraziatamente trovati su una barca che rischiava di affondare – per essere salvati dall’annegamento? O GRULLI! Ma quando mai! E niente, costringono con la violenza – riooops, ripardon, convincono con argomenti persuasivi – l’equipaggio a cambiare rotta e portarli in Italia. A questo punto salvinimmerda figlio di satana si rifiuta di cedere al ricatto e come da copione si levano gli alti lai dei soliti buoni contro il tentato genocidio dei poveri migranti che fuggono da guerra fame persecuzioni eccetera eccetera. Difficilmente potranno ottenere asilo nel nostro paese, dice. Infatti non lo otterranno. E se ne andranno in giro per l’Italia senza asilo, come tutti gli altri et nunc et semper et in saecula saeculorum, amen.
Aggiungo un paio di cose che ho trovato in giro, che mi sembrano adeguate.
E poi c’è questo qui, che ha trovato il modo più giusto di esprimere il suo odio antisalviniano e il suo ecumenico amore, antifascista e antirazzista, per le vittime della salvinistica furia: barbara