Per festeggiare la grande vittoria della tregua (sì, siamo onesti: questa tregua è oggettivamente una vittoria per Hamas e una tragedia per Israele) sparano in aria e fanno due morti e quarantacinque feriti: non c’è niente da fare, se non ammazzano qualcuno gli manca la terra sotto i piedi. Poi per simpatia festeggiano anche in un campo profughi in Libano e fanno un morto anche lì. Bene, tre pericoli in meno nella prossima guerra (qui)
barbara
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IL DRAMMA DIMENTICATO DEI SOPRAVVISSUTI
Un vecchio articolo per ricordare ciò a cui non si pensa mai.
A pagina 10 di La Stampa del 2002-08-02, Fiamma Nirenstein firma un articolo dal titolo «Il dramma dimenticato dei sopravvissuti»
STORIE DI DESTINI SPEZZATI DALLA FEROCIA DEL TERRORISMO
Il dramma dimenticato dei sopravvissuti
I corpi straziati, devono vincere lo choc del ritorno alla vita
GERUSALEMME Ilona Sportova, 15 anni, ha appeso sopra il letto un ritratto di se stessa prima dell’attacco terrorista del giugno 2001 a Tel Aviv. La sua stanza di ospedale si trova nel Centro di Riabilitazione Lowenstein: voleva fare l’indossatrice, e si vede dalla foto. Ma il fatto di essere alta ha fatto sì che la sua testa si trovasse più in alto di quella della sua amica colpita in pieno, uccisa. Ilona ha ora una parte della testa distrutta, e i chiodi lanciati dalla bomba del terrorista suicida infitti in ciò che ne resta. Adesso addetti alla riabilitazione le insegnano a camminare e a parlare: ha imparato trenta parole. Capisce però quasi tutto, e con una mano riesce a dipingere durante la classe di arte, dove ha completato le macchie di una giraffa che aveva cominciato prima dell’esplosione. I dottori non avrebbero mai pensato che sopravvivesse, e ritengono che stia recuperando bene. Condivide la stanza con Maya Damari, di 17 anni, cui, mentre mangiava nella pizzeria di Karmei Shomron, un ragazzo con i capelli ossigenati disse, fissandola: «Addio, a non più rivederci» e si fece saltare per aria. La sua amica venne assassinata; lei adesso ha un lungo chiodo nel cervello, e la parte destra del corpo paralizzata. Suo padre Avraham, 46 anni, è molto fiero dei progressi della figlia, che dopo essere uscita da un coma di 11 giorni ha ripreso a lottare per la vita. Ma Maya vive nel terrore dell’amputazione e nella vergogna delle evidenti ferite: rifiuta di farsi portare alla spiaggia, e dice che vorrebbe morire, perché ha solo 17 anni, e non se la sente di restare così tutta la vita. Anche nell’attentato di mercoledì all’università, oltre ai sette morti, ci sono un centinaio di feriti. Oltre ai quasi seicento morti che fanno i titoli, pesa su Israele un esercito di più di 4000 feriti (un millesimo della popolazione), accompagnati da decine di migliaia di familiari la cui vita è cambiata del tutto; da schiere di dottori, psicologi, infermieri, volontari.
Israele è tutta una ferita: le strade, le scuole, le case. Il dottor Avi Rivkind, capelli grigi, nemmeno cinquant’anni, spiega che le ferite da terrore sono grandi e spaventevoli, e grosso modo di due tipi: quelle da lacerazioni che amputano o distruggono arti, e quelle da colpo la cui forza rompe le ossa. Poi ci sono quelle nuove, da pezzi di metallo immessi con l’esplosivo nelle cinture o nelle borse dei terroristi. «Noci» d’acciaio, come dicono qui, e chiodi di ogni dimensione.
Spesso il terrorista inserisce nella bomba anche qualche veleno che renda più micidiale la sua azione, e che faccia sì che l’emorragia sia molto rapida. I dottori israeliani stanno ormai perfezionando tecniche nuove che già trasmettono ad altri medici: il 15 agosto un gruppo di dottori di New York verrà a imparare al Soroka Medical Center a Beersheba, che ha operato 180 mila interventi di emergenza solo nel 2001. In ogni ospedale si prendono continuamente decisioni fatali. Quando la quindicenne Adi Huya fu portata, dopo l’esplosione (duecento feriti) di via Ben Yehuda a Gerusalemme lo scorso dicembre, ambedue le sue gambe erano praticamente staccate. La mamma corse all’Hadassa con la prospettiva dell´amputazione immediata. Invece Rivkind fece una rapida valutazione: si poteva usare un medicinale che costa 10 mila dollari allo Stato, e tentare di riattaccare gli arti. Mali piange ricordando le parole del dottore alla bambina: «Adesso stai tranquilla, balleremo insieme al tuo matrimonio». Dopo otto mesi, Adi compie i primi esitanti passi. Nel caso di Ronit Elchani, 38 anni, madre di quattro bambini, che si trovava tre settimane or sono sull’autobus numero 18, i dottori hanno dovuto invece arrendersi di fronte al fatto che i pezzi di metallo infitti nel suo corpo e nel cervello sono in punti troppo pericolosi. Il neurochirurgo Ricardo Segal ha deciso che non si può toccare niente. Ronit non ricorda niente, passa le giornate al centro di riabilitazione. Difficilmente sarà ancora una mamma normale. A volte, quella che sembra una riabilitazione di successo, in realtà lenisce appena sofferenze permanenti: Motti Mizrahi quattro mesi fa è stato ferito al caffè Moment, a Gerusalemme. Le «noci» e i chiodi gli hanno sfasciato il petto e la nuca, e qualcosa gli ha staccato quasi del tutto una mano: quattro mesi dopo, muove le dita dell’arto riattaccato. Ma piange e mugola mentre l’infermiere lo costringe a usare un braccio in cui si scorgono nove buchi della grandezza di una moneta. La sua vita è cambiata per sempre, cerca di tenere in piedi il suo lavoro di ingegnere di software, ma la concentrazione non è più quella, i suoi interlocutori non hanno più lo stesso rapporto con lui. A lui, come a tutti, i chiodi provocano dolori terribili. La sua squadra di calcio locale, dove giocava da centrattacco, è piombata dal secondo al quinto posto. In questi casi, la famiglia diventa una società di mutuo soccorso. Madri, padri, fratelli, mogli e fidanzati piombano in una vita mai immaginata. Paulina Valis e Emma Kuleshevsky, due liceali, più di un anno fa si misero i vestiti belli e andarono alla discoteca Dolphinarium, sulla spiaggia di Tel Aviv, dove 22 ragazzi furono uccisi e ci furono più di 100 feriti. Emma ha due chiodi nella testa e uno nell’addome, Paulina ha tanti pezzi di ferro dentro tutto il corpo. Un tempo era una danzatrice, ora sta imparando a camminare. Ci sono anche tanti bambini con il viso bruciato, le mani inutilizzabili, la vista per sempre rovinata; e vecchi, divenuti tremanti e totalmente dipendenti; e matti, che seguitano a sentire il rombo dello scoppio, e si chiudono in casa. Il tutto mentre si creano organizzazioni governative e locali, scambi scientifici, gruppi di aiuto reciproco: per vivere.
Che uno dice ambè meno male sono solo feriti, che culo che hanno avuto. Pensi a uno squarcio come quello che mi sono fatta io alla gamba in cucina, resta una cicatrice bruttissima, anche deturpante se vogliamo, se tocchi fa male e anche quando cambia il tempo, ma insomma non è la fine del mondo. Pensi a qualche osso rotto, che con un po’ di pazienza si riaggiusta. Leggi due morti e sedici feriti e dici ambè menomale, poteva andare peggio. E invece no, peggio di così, per tanti di loro, non poteva andare davvero.
barbara
RINGRAZI ISRAELE? SEI UN TRADITORE
Un infame, un razzista, indegno di stare fra le persone civili! Questa più o meno la reazione, a una manifestazione contro Assad svoltasi a Londra, a un giovane iracheno presentatosi con una bandierina israeliana e un cartello che diceva: “Un grande grazie a Israele per le cure ai siriani feriti”.
Se siete deboli di stomaco, prima di guardare il video prendetevi un po’ di Maalox.
barbara
SIA IL DISONORE CHE LA GUERRA
Bernard-Henri Lévy :
” Aiutare Assad non avvicina la pace. Il prezzo (pesante) d’un accordo “
CORRIERE della SERA 19-09-2013
Come ho già avuto occasione di dire, non sono favorevole a un intervento armato in Siria oggi. Ne consegue che non condivido completamente quanto afferma in questo articolo Bernard-Henri Lévy. Ritengo tuttavia che ci siano diversi spunti interessanti che lo rendono meritevole di attenzione. Inserirò in corsivo nel testo alcune annotazioni.
Vorremmo credere che l’accordo russo-americano di sabato sulla Siria costituisca davvero il «passo avanti» di cui ci si riempie la bocca quasi ovunque.
E preghiamo affinché la fermezza della Francia — l’unica a dimostrarla! — sia una volta ancora proficua e finisca per trascinare la comunità internazionale.
Ma per il momento, che bilancio!
Non parlo del documento dell’accordo, al cui proposito gli esperti hanno subito osservato che era:
1) inapplicabile (come si può, in un Paese in guerra, raggruppare e poi distruggere mille tonnellate di armi chimiche disseminate su tutto il territorio?);
2) incontrollabile (sarebbe necessario, secondo le stime più ragionevoli, un numero venti volte maggiore d’ispettori rispetto a quelli mobilitati dalle Nazioni Unite l’estate scorsa, la maggior parte dei quali rimasero chiusi in albergo o furono portati in giro dal regime);
3) non finanziabile (gli Stati Uniti hanno investito fra gli otto e i dieci miliardi di dollari per distruggere le proprie armi chimiche e, vent’anni dopo, il lavoro non è finito);
4) sottoposto a un calendario (la «metà del 2014») che, oltre a non significare tecnicamente nulla, suona come una farsa in un Paese dove da due anni e mezzo vengono uccisi, con armi convenzionali, centinaia di civili al giorno;
5) equivalente a un gioco di destrezza il cui principale effetto sarà, scaricando il problema sugli ispettori, d’«esternalizzare» la tragedia e di tornare, con la coscienza perfettamente tranquilla, a dormire il sonno dell’Ingiusto (pensiamo, a prescindere dai morti, a quegli imprenditori mascalzoni che, all’alba della crisi finanziaria degli anni Duemila, isolavano i loro attivi tossici nelle filiali fantasma dove non li si vedeva più, ma da dove continuavano a emettere le loro radiazioni malefiche)…
Parlo invece di Bashar Al Assad che, come per incanto, passa dallo status di criminale di guerra e contro l’umanità (Ban Ki-moon dixit) a quello d’interlocutore inevitabile, addirittura corretto e di cui, scommetto, non si tarderà a riconoscere lo spirito di cooperazione e di responsabilità [e queste, con più o meno tutti i peggiori terroristi e assassini, sono giravolte a cui purtroppo siamo ben abituati].
Parlo di Putin che compie l’impresa — facendo intanto dimenticare i propri crimini in Georgia, in Cecenia, in Russia — di presentarsi come uomo di pace con la stessa disinvoltura con cui si presentava, l’estate scorsa e le precedenti, come l’atleta superman che stronca le tigri, le balene o i lucci giganti [e magari aggiungiamo, giusto per completare il ritratto del personaggio, che quando il presidente israeliano Katsav è stato condannato per violenza sessuale alquanto plurima, ha commentato ammirato: “Lui sì che è un vero uomo!” – senza ovviamente dimenticare questo].
Parlo dell’America esitante, timorosa, che abbiamo visto — nell’incredibile sequenza in cui entrarono in contraddizione il saggio e forte discorso di John Kerry [anche se io, a dire la verità, la mano sul fuoco sulla saggezza di uno che si sveglia dopo centomila morti, non so se ci metterei la mano sul fuoco] e quello, stranamente indeciso, di Barack Obama — assumere successivamente e quasi simultaneamente tutte le posizioni geopolitiche disponibili;
parlo dell’America che si fa debole senza ragione [sempre ammesso che sia vero, che lo fa senza ragione] e che lo stesso Putin, con la sua scandalosa lezione di morale democratica pubblicata sulle colonne del New York Times, si è concesso il lusso di andare a umiliare a domicilio.
Parlo della Corea del Nord o dell’Iran dove si avranno buone ragioni di pensare, ormai, che la parola dell’Occidente, le sue messe in guardia, le promesse fatte ai suoi alleati, non valgono niente: sarà falso?
Imprudente? [Oddio, a voler essere appena appena un pelino pignoli, all’Iran è da più di dieci anni che vengono intimati ultimatum a raffica – ULTIMATUM ALL’IRAN -: davvero possiamo immaginarci che possa cominciare adesso a pensare che le parole dell’Occidente valgano meno di zero?]
E gli stessi che avranno concesso ad Assad il permesso di uccidere s’irriteranno, quando saranno gli ayatollah a varcare la soglia del nucleare? Forse.
Ma il solo fatto che si possa pensarlo, il fatto che un qualsiasi islamista fanatico o un qualsiasi dittatore folle credano di poter godere, d’ora in poi, di un’impunità stile Damasco, costituisce nelle relazioni internazionali una fonte di malinteso, quindi d’instabilità, incomparabile con quello che sarebbe stato il colpo d’avvertimento militare programmato, poi abbandonato, dal Pentagono e dalla Francia [anche il più scalcinato maestrino supplente alla prima nomina sa che non c’è niente di più micidiale di una minaccia di punizione a cui non segue una punizione: evidentemente abbiamo a che fare con gente dalla competenza inferiore a quella di uno scalcinato maestrino supplente alla prima nomina].
Infine penso, nella stessa Siria, ai civili che ancora non sono stati uccisi, né messi in fuga dai bombardamenti e che si trovano più che mai stretti in una morsa: da un lato, l’esercito governativo, appoggiato dai suoi consiglieri russi, dai suoi ausiliari Hezbollah e dai suoi Guardiani della rivoluzione giunti da Teheran; dall’altro, i gruppi jihadisti che inevitabilmente addurranno a pretesto la dimissione dell’Occidente e si presenteranno, più che mai, con tutte le conseguenze che si possono immaginare, come l’unico scudo per un popolo allo stremo.
Nel vile sollievo che si percepisce quasi dappertutto all’idea che, qualunque siano le conseguenze, «si allontani la prospettiva dell’intervento armato», c’è un segnale che può solo far venire in mente odiosi ricordi.
Poiché la Storia ha più immaginazione degli uomini, supponiamo che Assad, inebriato da questa incredibile dilazione, commetta un nuovo «massacro di troppo»; o che un tragico contatore superi un altro record (150 mila morti? 200 mila?), improvvisamente ritenuto insopportabile dall’opinione pubblica che ormai decide sulla pace e sulla guerra; o che le ispezioni prendano una svolta drammatica [per esempio questa] di cui non si osa formulare lo scenario ma che obbligherebbe, stavolta, a una risposta e a un intervento militare.
Allora ci si ricorderà, fatte le debite proporzioni, di queste celebri e funeste parole:
«Per evitare la guerra, abbiamo scelto il disonore; in fin dei conti, avremo sia il disonore sia la guerra». [Infatti anche in Siria, come nella seconda guerra mondiale, l’intervento armato sarebbe stato da effettuare subito, alle prime notizie dei bambini rapiti torturati castrati e assassinati dal regime: sarebbe stato (quasi) pulito, rapido, avrebbe risparmiato quella mostruosa quantità di morti e mutilati e profughi e devastazioni che abbiamo quotidianamente davanti agli occhi. Ma quando fra la guerra e il disonore si sceglie il disonore, l’unico possibile risultato è quello di avere entrambi. E nella forma peggiore]. [E spacciare la propria vigliaccheria per amore per la pace è la peggiore delle ipocrisie]
E adesso andate a guardarvi questo
barbara
Piccola aggiunta dell’ultima ora: e, come sempre, mentre a Roma si discute Sagunto cade. Se poi oltre a commuovervi volete anche fare qualcosa di concreto, cliccate qui.