Sino alla fine della Seconda Guerra Mondiale il direttore d’orchestra italiano Bernardino Molinari fu direttore artistico dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma (già Orchestra dell’Augusteo); Molinari aderì al regime fascista e Roma non lo dimenticò tanto che il 9 e 12 luglio 1944, in occasione di due concerti (Roma era già stata liberata), fu fischiato e contestato dal pubblico costringendolo a interrompere le esecuzioni e infine a dimettersi dall’Orchestra. Ciò non impedì al celebre direttore d’orchestra di esibirsi negli anni successivi come guest conductor presso numerose orchestre europee e statunitensi; nel 1945 e 1947 raggiunse la Palestina Mandataria Britannica (futuro Stato d’Israele) e diresse rispettivamente il concerto per violino e orchestra del compositore ebreo austriaco Erich Wolfgang Korngold (costretto a emigrare negli USA nel 1934) e la prima assoluta del poema sinfonico Exodus per baritono e orchestra del compositore ebreo tedesco Josef Tal (anch’egli costretto a emigrare in Palestina Mandataria nel 1934). Molinari arrangiò per orchestra l’Hatikvah che di lì a poco diverrà inno ufficiale dello Stato ebraico; il suo arrangiamento riscontrò grande apprezzamento da parte di Leonard Bernstein – il quale diresse la Philarmonic Orchestra durante la guerra arabo-israeliana del maggio/giugno 1948 – ed è l’arrangiamento tuttora utilizzato dalle maggiori orchestre dello Stato d’Israele. Il 29 aprile 1945 le truppe statunitensi entrarono nel Lager di Dachau, il primo militare a varcarne i cancelli fu Robert Bernard Sherman; cantautore, pianista, ebreo eroe di guerra reduce da uno scontro a fuoco con truppe tedesche in ritirata (ferito a un ginocchio, camminava con la stampella). I giochi della Storia non sono mai lineari e men che meno scontati; soprattutto se a condurre i giochi sono la musica e i musicisti che la creano ed eseguono. Alla vigilia del Capodanno 1942, durante una breve tregua della battaglia di Stalingrado, il violinista e compositore ebreo sovietico Mikhail Emmanuilovich Goldstein partecipava come soldato dell’Armata Rossa a una festa all’aperto organizzata dai commissari sovietici; Goldstein imbracciò il violino e cominciò a sfornare dal suo repertorio opere di autori russi che si diffusero per tutta l’area circostante grazie agli altoparlanti. A un certo punto Goldstein attaccò una Sonata di J.S. Bach sebbene le disposizioni sovietiche in materia proibissero ai musicisti al fronte di eseguire musica tedesca e quella di Bach in effetti lo era; ma chi avrebbe osato fermare il violino di Goldstein? Al termine dell’esecuzione, dal fronte tedesco arrivò tramite altoparlante la richiesta di cessate il fuoco e, al violinista, di continuare a suonare Bach; Goldstein non si fece pregare. Perché la musica – soltanto essa – è capace di fermare le guerre; dal 1939 al 1945 ogni processo creativo – artistico, poetico, musicale, narrativo – maturato in cattività o sul campo di battaglia, in deportazione o in trincea, poneva faticosamente le basi per un futuro riscatto del genere umano, una pace condivisa, un progresso civile propedeutico – non conseguente – al benessere economico. Come scrisse a Theresienstadt la 13enne poetessa ebrea ceca Eva Pickovà, morta nel dicembre 1943 a Auschwitz: “Il mondo è nostro e lo vogliamo migliore/Vogliamo far qualcosa/È vietato morire”. Bemotàm zivu lanu et hachaim; con la loro morte ci hanno comandato di vivere. È noto come la Torà esordisca nel libro Genesi con la Bet di Bereshit che in realtà è la seconda lettera dell’alfabeto ebraico; bisogna aspettare il capitolo 20 del libro Esodo per trovare la prima lettera Alef di Anochì con la quale la Voce divina si presenta nel primo dei Comandamenti. Il dopo precede sempre il prima su ogni livello di esistenza; materiale, mentale, spirituale. Credo fortemente che il futuro ci riserverà esattamente questo: l’inizio della musica e delle idee che accompagneranno il mondo e l’Umanità a venire.
È noto che il Terzo Reich, nella sua propaganda antisemita di discriminazione e persecuzione della popolazione ebraica d’Europa, abbia utilizzato numeri, date e simboli pertinenti l’ebraismo per denigrarne cultura, storia, tradizione. La Kristallnacht, la famigerata Notte dei Cristalli durante la quale migliaia di ebrei tedeschi furono arrestati e deportati in Campi di lavori forzati (vennero distrutte le vetrine dei loro negozi, incendiate sinagoghe, uccise 91 persone) cadde la notte del 9 novembre 1938 ossia il 9 del penultimo mese dell’anno civile, data non affatto casuale perché il 9 di Av ossia il 9 del penultimo mese del calendario ebraico (Tisha beAv) cade il ricordo delle peggiori tragedie accadute al popolo ebraico (distruzione del primo e secondo Tempio, Beitar rasa al suolo, la caduta di Masada, cacciata degli ebrei dalla Spagna); le camere a gas del Campo di Treblinka erano dodici, come le tribù d’Israele e appositamente Kurt Franz, comandante tedesco del Campo, chiamava quelle camere “lo stato ebraico”, alludendo all’unico posto che secondo lui spettava al popolo israelita. Nei Campi aperti dal Reich nella Polonia occupata, in spregio alla tradizione ebraica e “ispirandosi” a immagini oleografiche dell’antico popolo d’Israele che attraversa il deserto, alcuni ufficiali erano usi durante le adunate per gli appelli indossare strane kippoth, mantello, impugnare un bastone e così conciati dirigere il “coro” ebraico di deportati che doveva improvvisare canti in lingua yiddish; in tal modo nascono a Sobibor Wie lustig ist da unser Leben di Shaul Flajszhakier e Moses, Moses; ma al di là del della perversione comportamentale delle SS, l’antisemitismo del Reich non era emotivo ma “scientifico” e pianificato, Adolf Eichmann (responsabile dell’uccisione di migliaia di ebrei ungheresi, impiccato nel 1962 a Ramla, Israele) conosceva l’aramaico e l’ebraico (si recò persino nella Palestina Mandataria per vivere in un kibbutz e familiarizzare con la vita ebraica), grazie a ciò riuscì a studiare il Talmud e snidare ebrei e loro provenienza durante le retate al solo sentirne accento e idioma. E le 613 mitzvoth, i precetti della Torah scritta e orale che costituiscono l’ossatura stessa dell’ebraismo? Sicuramente non sarebbero mai sfuggite al Reich che trovò comunque il modo di “utilizzare” il numero più universale dell’ebraismo per distruggerlo simbolicamente, mortificarlo, trasformare la vita che emana dalle mitzvot in morte. Questo e altro mi racconta Jack Garfein, ruteno di nascita e oggi cittadino statunitense, celebre direttore teatrale e cinematografico nonché tra i più grandi docenti di recitazione cinematografica (insegna a Parigi, Londra, Budapest, New York e Los Angeles), a lungo sposato con la celebre attrice Carrol Baker e che in qualità di regista ha diretto divi del cinema e della commedia americana come Ben Gazzara, Artur Miller e nel 2012 è stato premiato con la Masque d’Or. Jack fu deportato con la madre, il padre e la sorella ad Auschwitz Birkenau; aveva soltanto 13 anni ma dinanzi al famigerato dottor Josef Mengele dichiarò di averne 16 per non correre il rischio di finire immediatamente alla gasazione come la maggior parte dei ragazzi. Nel settembre 1943 il Reich elaborò il Project Riese, nome in codice di un progetto di costruzione del quartier generale del Führer e di complessi militari e industriali sotterranei collegati da strade, rete ferroviaria, approvvigionamento idrico, elettricità e linee telefoniche sotto la catena montuosa del Góry Sowie nella Bassa Slesia (oggi in Polonia), nel novembre 1943 vennero aperti Campi di lavoro coatto e la rete di questi Campi costituì lo Arbeitslager Riese; prigionieri di guerra sovietici, internati militari italiani e prigionieri civili ungheresi, polacchi, ruteni, greci, rumeni, cecoslovacchi, olandesi, belgi, tedeschi principalmente ebrei provenienti da Auschwitz per un totale di circa 13.000 lavoratori forzati vennero impiegati nel Project Riese, le vittime di malnutrizione, esaurimento, infortuni mortali e crudele trattamento da parte delle guardie tedesche furono circa 5.000. Märzbachtal (oggi Marcowy Potok, Polonia), aperto nell’ottobre 1944, era uno dei sub–Campi dello Arbeitslager Riese, ivi erano alloggiati 1.200 ebrei prevalentemente ungheresi e polacchi dei quali circa la metà al di sotto dei 16 anni tra i quali Jack Garfein (allora il suo nome era Jakob), alloggiato con centinaia di giovani ebrei impiegati al lavoro coatto; verso la fine del 1944 un suo coetaneo ebreo ortodosso polacco (le guardie tedesche separarono i cosiddetti ebrei religiosi da quelli cosiddetti sionisti) creò il canto in lingua yiddish Zi is mein herz; dopo poche settimane 613 ragazzi del Campo furono fatti salire dalle guardie tedesche su autocarri con il pretesto che sarebbero stati trasferiti in Gran Bretagna nell’ambito di uno scambio di prigionieri. Ma i ragazzi ebrei erano abilissimi a contarsi, avrebbero avuto il presagio di ciò che da lì a poco sarebbe accaduto e, ad ogni buon conto, perché mai le autorità britanniche avrebbero voluto esattamente 613 ebrei per uno scambio di prigionieri, tante quante le mitzvot? Opportunamente, le guardie tedesche cancellarono un ragazzo dalla conta e chiusero il numero a 612. Tuttavia, durante il carico degli autocarri i ragazzi risultarono 615 anziché 612, pertanto le guardie tedesche ordinarono a tre “volontari” di scendere; Garfein prima indugiò poi alzò la mano e scese con altri due suoi compagni di prigionia. La realtà fu tragica; i 612 ragazzi furono condotti a Birkenau e vennero gasati compreso il ragazzo autore del canto, la storiella dello scambio di prigionieri era una farsa per non provocare disordini e ribellioni; Garfein si salvò perché era il 613esimo, tutta la sua famiglia morì ad Auschwitz. Agli inizi del 1945 Garfein e altri prigionieri vennero condotti a Bergen–Belsen dove vennero liberati dalle truppe britanniche nell’aprile del medesimo anno; dopo la Guerra, rimasto orfano e su una sedia a rotelle, venne trasferito a Malmö (Svezia) grazie a un visto temporaneo. In pochi mesi riacquistò l’uso delle gambe, nel 1946 si trasferì negli U.S.A., iniziò a studiare inglese e nel 1947 il Jewish Appeal United gli assegnò una borsa di studio per studiare recitazione e regia con Lee Strasberg e Erwin Piscator. Garfein divenne una leggenda del cinema ma doveva liberare la melodia di quel polacco, farla planare sulla carta; per questo alcuni giorni fa, mentre era a Trani per lavoro, mi contattò chiedendomi di incontrarci e io lo invitai presso i giardini del Castello di Barletta. Seduti dinanzi al Castello e con il sottoscritto armato di penna e fogli pentagrammati, Jack ha liberato la sua anima, la melodia gli è sgorgata con le parole nella tipica lingua yiddish, all’inizio con qualche problema di intonazione poi sempre più sicuro sino a quando l’abbiamo cantata insieme; la musica era finalmente stata liberata dal Lager. Quando mi ha raccontato dei 612 ragazzi condotti con l’inganno alla gasazione e di come lui si sia salvato, istintivamente gli dissi: “Jack, sei tu la 613ma mitzvà!” e tra ebrei ci siamo capiti subito: Jack era “l’ultimo dei precetti”, doveva vivere e raccontare un giorno la sua storia e gli anni non hanno mai cancellato quella melodia che da Los Angeles via Parigi è venuta a liberarsi sul litorale pugliese della città di Eraclio. Il canto Zi is mein herz che Garfein ha ricordato a Barletta entrerà nei 10 volumi del Thesaurus Musicae Concentrationariae che pubblicherò nel 2015; il 7 novembre presso il Consiglio d’Europa farò ascoltare la canzone ricordata da Jack, perché tutti sappiano che c’è ancora tanta musica che dobbiamo liberare dai Lager e che non una sola melodia, non un solo frammento di musica, non una sonata per violino creata nei Lager andrà perduta, non finché ci sarà qualcuno armato di penna e carta pentagrammata e qualcuno come Jack il ruteno che ha dato mani e piedi all’ultima mitzvah e dinanzi al castello di Barletta si è messo a cantare l’ultimo canto yiddish degli ebrei d’Europa.
Oggi è il 9 novembre 2013, settantacinquesimo anniversario della Notte dei Cristalli. Credo che la pubblicazione di questa storia meravigliosa, questa storia di amore e di arte e di speranza e di VITA sia il modo migliore per celebrarlo.
Difficilmente si riesce a pensare ad un progetto più commovente: per vent’anni il pianista italiano Francesco Lotoro ha raccolto 4000 spartiti dimenticati, scritti nei ghetti e nei campi di concentramento da ebrei uccisi durante la Shoah. Li registra e li conserva per i posteri. Ora il musicista – convertitosi all’ebraismo durante il lavoro – chiede una cosa sola allo Stato d’Israele: aiutatemi a conservare l’opera della mia vita
di Menachem Gantz
Si tratta di uno dei progetti più splendidi e commoventi che si possano immaginare nel mondo della musica. Il lavoro del pianista Francesco Lotoro fa rabbrividire, provoca dolore e suscita la riflessione. Tuttavia, porta con sé anche molto ottimismo. Da quasi vent’anni raccoglie e studia ogni pezzo d’informazione, ogni nota e ogni suono nelle opere scritte da musicisti – per lo più ebrei – durante la Seconda Guerra Mondiale, spesso molto vicino alla loro morte. Ha raccolto oltre 4000 spartiti di opere classiche, brani d’opera lirica e pezzi jazz scritti da prigionieri nei campi nazisti.
La maggior parte dei compositori è morta nella Shoah e, settant’anni dopo, Lotoro sta dando nuova vita alle loro opere. Se Lotoro non avesse dedicato la vita alla ricerca di queste opere straordinarie, probabilmente non sarebbero mai state scoperte. Grazie al suo meticoloso lavoro, le opere vengono anche pubblicate. Dal 1996, Lotoro – pianista e musicologo di formazione – ha trovato migliaia di opere perdute, le ha completate e le ha anche registrate in dischi prodotti da lui, che ravvivano i suoni dimenticati.
La contraddizione intrinseca all’opera di Lotoro è chiara: la musica è un processo in cui l’artista è chiamato a trovare l’armonia perfetta al fine di presentarla poi al pubblico. Come’è possibile, quindi, che proprio nei momenti più bui dell’umanità, le vittime siano riuscite a trovare quell’armonia e comporre opere musicali così particolari, pur sapendo che la morte era vicina? Lotoro continua tuttora a cercare una risposta.
“Noi, oggi, troviamo difficile capirlo. Cerchiamo di spiegarlo da esseri liberi, senza realmente aver vissuto una tragedia simile”, spiega Lotoro, 48 anni, in un’intervista speciale a Yediot Aharonot, “Ma si sa che, quando si è vicini alla morte, a volte le forze umane raddoppiano. Molte tra le vittime comprendevano chiaramente che non avrebbero lasciato nulla ai posteri: né case, né danaro, e che, di fatto, nulla della loro esistenza sarebbe rimasto in questo mondo – tranne la musica. Non sono riusciti nemmeno a scrivere un testamento, perché non hanno veramente detto addio alla vita. Il loro testamento è espresso in capolavori”.
Un’ulteriore spiegazione che Lotoro dà alla creatività è proprio il divieto di continuare a comporre imposto dai nazisti ai musicisti nei campi e nei ghetti. “Quando ad un essere umano si porta via la libertà, si toglie la libertà di esprimersi, va a finire che la cerca a tutti i costi”, spiega Lotoro. “Il divieto rende l’essere umano più coraggioso. Prendiamo ad esempio il prigioniero politico ceco Rudolf Karl, che era discepolo del grande maestro Antonin Dvořák. Karl fu arrestato dai nazisti e compose un’intera opera lirica in cinque atti, scritta sulla carta igienica poco prima di essere ucciso ad Auschwitz nel marzo 1945”.
Dopo una ventina d’anni di lavoro, il progetto di Lotoro sta suscitando molta eco in Europa, soprattutto grazie al giornalista francese Thomas Saintourens, che ha pubblicato recentemente il libro “Il Maestro: la ricerca della musica nei campi”. Il libro descrive una ricerca, durata tre anni, fatta sul lavoro di Lotoro, ed è stato accolto con molto interesse dal pubblico. Lotoro, per parte sua, spiega che la sua passione per le opere perdute è nata nei primi anni Novanta, inizialmente per un interesse puramente musicale. Ha sentito parlare per la prima volta dei musicisti ebrei del campo di Theresienstadt durante le lezioni del noto musicologo israeliano Prof. David Bloch, morto nel 2010. “I nazisti volevano presentare un’illusione [di normalità] e hanno addirittura incoraggiato i musicisti a Theresienstadt a comporre e suonare, sotto stretta censura”, racconta Lotoro. “Mi sono recato a Praga, ma lì ho capito che il mio viaggio era solo al suo inizio. Ho continuato verso i campi di sterminio, Auschwitz, i musei, le biblioteche, i conservatori e le università. Risulta che certe opere sono state portate in salvo anche da parenti. Ho indagato presso i superstiti, coloro che sono sopravvissuti ai campi e hanno trasmesso le opere”. Secondo Lotoro, negli anni Novanta riusciva a raggiungere dei superstiti vivi. Oggi si tratta di figli e nipoti che gli trasmettono scritti e note.
Da allora ha trovato non meno di 4000 opere scritte durante la Seconda Guerra Mondiale. “La ricerca è iniziata raccogliendo 407 opere di musicisti ebrei sterminati”, ricostruisce Lotoro. “Man mano che andavo avanti, ho cominciato a capire che si trattava di un patrimonio musicale incredibile, molto più grande. Fino al 2000 circa raccoglievo solo composizioni di ebrei, ma poi ho compreso che noi, da ebrei, non ricordiamo solo le ingiustizie subite da noi. Mediante la memoria delle persecuzioni e della Shoah, ricordiamo ingiustizie e tragedie di profondo significato umano. Perciò, ho iniziato a cercare anche opere di non ebrei”.
Questa impegnativa attività ha influito anche sulla vita personale di Lotoro, che vive nella cittadina di Barletta, nel sud d’Italia. Nel corso del suo lavoro, egli ha scoperto le radici ebraiche della sua famiglia ed il fatto che facesse parte della comunità di marrani provenienti dalla Spagna. Nel 2004 ha deciso di convertirsi all’ebraismo. “Col tempo, sono divenuto una fonte di nozioni, in una materia che non riesco più ad arginare. Mi sento in dovere, come uomo e come ebreo, di continuare a dedicare la mia vita a questo argomento”.
La pesante responsabilità che si è accollato trova espressione nell’aspetto del piccolo studio in cui lavora. Semplicemente affoga nel materiale, senza poterlo affrontare. “Qui ci sono migliaia di lettere, di negativi di fotografie, di foto, di interviste e di testimonianze che non ho la capacità di raccogliere come si dovrebbe” – non si vergogna di confessare. “Sarebbe doveroso mettere questi documenti su un computer, creare un archivio ordinato. Purtroppo, non ho i mezzi economici per farlo. Non ho neppure un’equipe di aiutanti o di assistenti. Di giorno studio pianoforte ed insegno, e le notti le dedico alla ricerca ed all’archiviazione”.
Se dipendesse da lui, trasferirebbe ad un ente o ad un’autorità israeliana tutti i tesori che ha raccolto nei lunghi anni di lavoro. “Queste opere non appartengono a me. Appartengono in primo luogo all’umanità ed al popolo ebraico. Se tutti questi dotati musicisti non fossero stati sterminati, molto probabilmente la cultura umana ed il mondo musicale del XX secolo si sarebbero sviluppati in modo diverso”.
Sono poche le sue aspettative da una qualche organizzazione o da persone private in Israele.
“In Israele mi è stato dato tanto appoggio personale, soprattutto da parte di amici e di musicisti che mi hanno sempre incoraggiato a continuare a raccogliere informazioni, ma mai da un ente ufficiale. Vorrei che il mio archivio facesse l’aliyà in Israele. Ma, se non si troverà chi prenderà a cuore questo patrimonio, forse lo donerò al Comune, qui in Italia, perché ospiti in un sito apposito gli scritti che ho trovato”.
Malgrado siano passati quasi 70 anni dalla fine della Guerra, l’opera di Lotoro continua ininterrottamente. “Io inseguo collezionisti che conservano spartiti rari, che possono costare dai 60 ai 400 euro. Tento di procurarmi finanziamenti per viaggi in Polonia, per spedizioni postali, ma non ci riesco. Credo che continuare questa ricerca debba essere considerato come un comando divino”. Il grosso timore di Francesco è che il lento ritmo del suo lavoro possa tenerlo lontano da altre opere che non ha ancora conosciuto.
“Le opere che ho raccolto indicano che, in quegli anni, la musica si sviluppava su due canali” – racconta Lotoro, riassumendo il frutto della sua ricerca – “C’era la musica che veniva scritta apertamente nel ‘mondo libero’, e che i nazisti ed i loro collaboratori incoraggiavano ed apprezzavano. E c’era la musica clandestina, scritta da carcerati: Victor Ullmann, Pavel Haas, Gideon Klein, Hans Krasa – tutti compositori pionieri di un linguaggio musicale molto avanzato. Malgrado fossero distaccati dallo sviluppo della musica ‘libera’, hanno composto delle opere uniche, sorprendenti, toccanti. Hanno perfino scritto esplicitamente, come risulta dalle affermazioni di Victor Ullmann: ‘non siamo rimasti seduti a piangere sulle sponde dei fiumi della Babilonia. Non ci siamo chiusi nel lutto, abbiamo cantato, abbiamo vissuto!’. Questo era il loro messaggio. Pur avendo perso la vita nella camere a gas ad Auschwitz, Ullmann non vedeva il futuro del popolo ebraico come quello di un popolo in estinzione, bensì un popolo che sarebbe sopravvissuto, malgrado l’orribile tragedia della quale era testimone”.
Lotoro precisa che l’inseguimento della musica è per lui prioritario rispetto alla storia personale dei compositori, ma ammette che le due cose siano inseparabili. “Ciò che mi ha sempre guidato, il mio vero interesse, è la musica. E’ chiaro che sia doveroso capire dove è stata scritta ed in quali circostanze. Forse questa musica non è sostanzialmente diversa da quella di Chopin o di Beethoven, ma, contrariamente alle loro opere, se ne devono comprendere le circostanze, il prezzo che i compositori hanno dovuto pagare per comporre la loro musica”.
Francesco non riesce a scegliere l’opera più importante tra quelle che ha scoperto, ma una gli è rimasta particolarmente impressa. “Ho trovato nell’archivio del settimanale italiano L’Espresso una canzone d’amore resa nota nell’aprile del 1960 e scritta da un ebreo sconosciuto. Nella canzone, egli descriveva il suo amore per Celeste Stella Di Porto, una giovane ebrea, e la vendetta che pretendeva per chi lo aveva scoperto e portato al suo arresto a Roma, prima di essere mandato ad Auschwitz”. Nonostante le parole siano rimaste, la musica non è stata conservata e non è mai stata trovata. “Per anni, passavo per le vie del ghetto ebraico a Roma e cercavo ebrei sopravvissuti alla Shoah, chiedendo loro se conoscevano questa canzone. Una volta ho perfino trovato un’anziana signora che aveva acconsentito a cantarmela, ma poi si è pentita. Finché un giorno, il mio amico Cesare Sonnino mi ha chiamato da Roma per dirmi che sua madre, Ester, ricordava benissimo la musica della canzone. Me l’ha passata al telefono e lei me l’ha cantata tutta per ben quattro volte, senza avere davanti il testo. Non posso descrivere quanto grande è stata la mia commozione!”. (Ufficio Stampa dell’ambasciata d’Italia a Tel Aviv)
Sono sempre stata convinta che ci sono persone che si scelgono una missione, e missioni che si scelgono una persona: Francesco Lotoro direi proprio che è stato scelto, e non ha potuto fare altro che rispondere, come Abramo, hinnenì, eccomi (e i miei più vivi complimenti alla missione, che davvero non avrebbe potuto scegliere una persona migliore e più adatta).