DE BARBARA

Il titolo non è mio, bensì del magistrale autore di questo magistrale commento finito in spam, personaggio bandito da tutti i blog decenti (gli amici di Topgonzo sanno di chi parlo). Naturalmente non gli darò la soddisfazione di scrivere il suo nome – nome d’arte, ovviamente (a proposito, carissimo, le fai ancora le truffe online col nome di Joaquim?) – però il pezzo voglio farvelo leggere, perché merita sinceramente tutta la vostra attenzione.

De Barbara de Ilblogdibarbara ovverossia “La sindrome della “femmina cazzuta”, ovverossia “Della femmina affetta da invidia del pene, che considera il maschio, che ha il pene, superiore a lei, e, conseguentemente, si atteggia a maschio, proponendosi come “cazzuta”
Il maschio sano della specie Homo Sapiens Sapiens è dotato di pene (popolarmente noto come “cazzo”, “minchia” et ceteras et similia [si noti la profonda cultura latina di quel “ceteras”]), considera assolutamente naturale avere il pene, considera altrettanto naturale che la femmina abbia la vagina ( (popolarmente nota come “fregna”, “fica” et ceteras et similia), e non considera nè il maschio superiore alla femmina, nè la femmina superiore al maschio. [a quanto pare il Nostro si è evoluto, dato che in precedenti occasioni ha ripetutamente affermato che l’unico scopo della vita della femmina è quello di farsi montare dal maschio per concepire il figlio del maschio e partorire il figlio del maschio, per cui sono assolutamente ridicole le quarantenni che si truccano e si mettono in ghingheri, dal momento che il loro tempo è finito e non devono più attirare il maschio per farsi montare]
La femmina sana della specie Homo Sapiens Sapiens è naturalmente dotata di vagina ( (popolarmente nota come “fregna”, “fica” et ceteras et similia), considera assolutamente naturale avere la vagina, considera altrettanto naturale che il maschio abbia il pene (popolarmente noto come “cazzo”, “minchia” et ceteras et similia), e non considera nè la femmina superiore al maschio. nè il maschio superiore alla femmina.
La femmina affetta da “invidia del pene” (vedi nota sotto) considera invece il fatto di non avere il pene come una mancanza, quindi considera il maschio, che ha il pene, come superiore a lei,
e, conseguentemente, lo prende come modello di riferimento da imitare, e si atteggia a “cazzuta”, cioè a “dotata di pene” per compensare il suo sentimento di inferiroità nei confronti del maschio,
un sentimento di inferiorità, che in realtà, naturalmente, non ha alcun motivo di essere, e, come detto nella premessa, di fatto non esiste nella femmina sana della specie Homo Sapiens Sapiens, che è naturalmente dotata di vagina ( (popolarmente nota come “fregna”, “fica” et ceteras et similia), considera assolutamente naturale avere la vagina, considera altrettanto naturale che il maschio abbia il pene (popolarmente noto come “cazzo”, “minchia” et ceteras et similia), e non considera nè la femmina superiore al maschio. nè il maschio superiore alla femmina.

INVIDIA DEL PENE

Sigmund Freud suggerì il concetto di invidia del pene per la prima volta nel 1908, nel saggio “Sulle teorie sessuali dei bambini”
ed in seguito lo ha incluso estensivamente nella seconda edizione dei “Tre saggi sulla teoria sessuale”, così come in diverse altre opere (in particolare “Introduzione al narcisismo”).
Secondo Freud, l’invidia del pene nasce come fantasia della bambina, che nel corso del suo sviluppo viene a conoscenza della differenza sessuale anatomica tra uomo e donna.
Secondo la teoria pulsionale di Freud, ciò accade durante la fase fallica intorno ai 3-5 anni di età. In questa fase il pene diventa l’organo di principale interesse per entrambi i sessi.
Questo diventa il catalizzatore di una serie di eventi chiave dello sviluppo psicosessuale.
Questi eventi, sono noti come complesso di Edipo per i bambini e complesso di Elettra per le bambine.
La bambina si rende conto che non ha un pene e sviluppa la fantasia inconscia che ciò è dovuto al fatto di essere stata castrata.
Come difesa contro questa fantasia, che va di pari passo con il sentimento di inferiorità, la bambina sviluppa l’invidia del pene dell’uomo.

Continua su: https://it.wikipedia.org/wiki/Invidia_del_pene

Come detto in altre occasioni, solo uno psicopatico col cervello spappolato dalla cocaina poteva inventarsi che noi invidiamo il pisello, quando tutti sanno che in realtà è il maschio ad avere un’invidia nera della passera. E se ha il cervello bacato uno che inventa una simile “teoria”, quanto bacato deve essere quello che se la beve? Comunque, oltre a questa chicca, desidero farvi dono anche di alcune sue perle depositate in passato (con un sentito grazie a chi le ha pazientemente raccolte).

“C’ho na famiglia e quindi c’ho da fare.”

“La mia vita e la mia famiglia sono la mia ragione di vita.”

“MI NONNO, FASCISTA DELA PRIMA ORA, DI QUELLI REPUBBLICANI ED ANTILERICALI A LI PRETIO JE MENAVA COR MANGANELLO”

“Sai come se chiama chi rispetta le regole quando le regole non sono uguali per tutti figliuolo?Se chiama COGLIONE”.

“Ascolti quanta pregnanza ed esaustività in questo detto abruzzese: L’OMM A DA PUZZA E LA FEMMENA HA DA PUZZA DELL’OMM SUE !!  L‘uomo deve puzzare e la femmina deve puzzare del suo uomo. La maestosità del maschio, che impregna il territorio col suo odore. E la femmina che lo segue,totalmente posseduta, al punto di essere totalmente impregnata del suo odore”

Si, sei un’idiota. Talmente idiot da dire “troll” a me, convinto che io ci creda e/o che qualcuno ci creda..”

“Te dico solo questo..Nun poi fa na cosa a me e rimane sulla Terra.Nun ce sta più spazio pe te sul pianeta..
Aspettate qualunque cosa in qualunque monento della giornata..Per il resto della vita. Guardate intorno quanno esci d casa..Anzi fa na cosa..Nun usci’ proprio..I tempi sono cattivi.. ”

“Ma perchè fai sempre confusione piccolo ebreo?  Perchè dilapridi tutte queste parole per costruire scenari visionari e mistificatori della realtà? Sei datato, anacronistico, obsoleto e psicotico piccolo ebreo..Smettila di alzare polvere..Te la diraderemo ogni volta..Senza pietà per te ed il tuo bisogno di allopntanare la realtà..”

“Il trucco è stato l’invenzione del femminismo, una visione della vita assolutamente coerente e funzionale alla società della produzione e del consumo, che afferma che la vera gratificazione della femmina avviene attraverso il lavoro ed il guadagno, e non attraverso il compimento della sua funzione naturale, quella di far crescere la vita nel suo corpo e far nascere la vita dal suo corpo. La deriva finale, inevitabile e necessaria, di questo tragitto che mette il denaro davanti alla vita, è l’ esaltazione della degenerazione della femmina al ruolo di prostituta.”

Vero che adesso vi sentite meglio?

barbara

MAMME

La mamma di L.
A quel tempo non c’era LA scuola media; c’erano LE scuole medie: la media vera e propria, col latino, con cui poi si andava alle superiori; la commerciale, con stenografia, dattilografia e computisteria, con cui si andava a far l’impiegata, e l’avviamento professionale. L. avrebbe voluto fare la media, ma sua madre l’ha iscritta alla commerciale. Non per problemi economici, va detto, anzi, finanziariamente era messa molto meglio di me. Finita la scuola, a quattordici anni ancora da compiere, le ha immediatamente trovato un impiego in un ufficio, e a ogni fine mese andava a riscuotere lo stipendio. Lei, la madre. L’anno dopo L. si è fatta prestare 15.000 lire dal nonno, si è iscritta alla scuola serale di ragioneria, due anni in uno. Mattina in ufficio, pomeriggio in ufficio, sera a scuola e notte a fare i compiti e studiare. A quindici anni. A fine anno ha vinto la pagella d’argento, come seconda migliore allieva della scuola, con un premio di 25.000 lire, con le quali ha pagato il debito fatto l’anno prima col nonno. La madre le ha sequestrato le restanti 10.000 lire e ha proibito al proprio padre di farle altri prestiti, così L. non ha potuto proseguire nello studio. Ha lasciato passare alcuni anni, in modo che la madre pensasse che si fosse messa l’anima in pace, e quando ha cominciato a lasciarle una piccola parte dello stipendio si è di nuovo iscritta a una scuola serale, un corso triennale, giusto per poter avere un titolino di studio il più presto possibile e poi, con successive integrazioni, è arrivata ad iscriversi all’università: mattina al lavoro, pomeriggio al lavoro, sera a scuola, notte a studiare, domenica a sentire gli improperi della madre per indurla a lasciare lo studio. Avevamo quasi trent’anni, lei sposata da tempo, fuori casa, ormai prossima alla laurea, che quando tornavo dai miei per le vacanze di Natale o di Pasqua mi fermava per strada per dirmi: «Tu sei sua amica, a te ti ascolta: diglielo tu che lasci perdere con quella stupida università».
Naturalmente non si è mai accorta che il suo amante, quando L. aveva dieci anni, le infilava le mani nelle mutande.

La mamma di I.
«Cattiva. Davvero, Lei non può neanche immaginarselo quanto era cattiva. Due anni, aveva, ed era di una cattiveria da non credere. E le ho provate tutte, sa, l’ho picchiata, lei non si immagina neanche quanto, anche col bastone, talmente forte che una volta il bastone si è perfino rotto: niente. Non si immagina neanche quante notti le ho fatto passare in cantina, chiusa a chiave, al buio: niente. Due anni, aveva, ed era talmente cattiva che non si riusciva a piegarla né col bastone, né con le notti in cantina».
Nessun medico è mai riuscito a capire perché I., già fin da piccolissima, soffrisse di mal di testa talmente violenti da provocarle quasi le convulsioni.

La mamma di E.
E. strizza spesso gli occhi, come quelli che hanno un tic, ma E. non ha un tic: strizza gli occhi a causa di un piccolo nervo del cervello lesionato da una bastonata di suo padre. Spesso, da bambino, era nero di lividi dalla testa ai piedi. Quando aveva undici anni suo padre ha cominciato a violentarlo, e ha continuato per dieci anni, quando poi finalmente è crepato. La mamma di E. non si è mai accorta di niente.

La mamma di M.
Era da un pezzo che aveva dei sospetti, così un pomeriggio è uscita dicendo che sarebbe restata fuori tutto il pomeriggio. Mezz’ora dopo è rientrata, è andata in camera e ha trovato conferma ai suoi sospetti: padre e figlia a letto assieme. Era una donna decisa, la mamma di M. con le idee sempre ben chiare su che cosa si deve fare, anche nelle situazioni difficili. E lo ha fatto, immediatamente, senza la minima esitazione: ha buttato fuori di casa la figlia, e si è tenuta il caro marito.

Eccetera.

Aggiungo una riflessione postata nell’altro blog una dozzina d’anni fa.

COMPLESSO DI EDIPO: NE VOGLIAMO PARLARE?

Secondo la teoria messa a punto da un povero signore col cervello spappolato dalla cocaina (se qualcuno avesse ancora dei dubbi, da qui può ricavare la prova definitiva di quanto faccia male) consisterebbe nel desiderio – più o meno inconscio – del bambino di far fuori il papà e scoparsi la mamma. L’archetipo di questo impulso si riscontrerebbe nel mito di Edipo che, ci viene spiegato, ha appunto ucciso il padre per poi accoppiarsi con la propria madre. Ma siamo davvero sicuri che le cose siano andate proprio così? Proviamo ad esaminare con una qualche attenzione il mito di Edipo, così come ci viene tramandato. Innanzitutto è opportuno ricordare che quello di essere ucciso dal figlio con contorno di corna postume non è, per Laio, un tragico destino, bensì una punizione: in tempo di gioventù aveva infatti rapito e violentato il figlio di Pelope, suo amico e ospite. Ricordiamo che nella cultura greca la pedofilia, poetico nome che significa “amore per i bambini” era cosa normalmente accettata e praticata; ricordiamo che questo “amore per i bambini” non si estrinsecava confezionandogli la calza della befana, o portandoli al cinema, o regalandogli la play station: i greci manifestavano il loro amore per i bambini inculandoseli. Quindi Laio, innamorato del figlio del suo amico e ospite, per averlo non avrebbe dovuto fare altro che chiederlo, e lo avrebbe sicuramente avuto senza la minima difficoltà. Ma lui ha scelto di rapirlo e violentarlo, infrangendo così le regole sociali, i doveri di ospitalità, il legame dell’amicizia. Quindi la maledizione che viene scagliata su di lui è la giusta punizione per il suo crimine. Punizione alla quale cerca in tutti i modi di sfuggire: quando gli nasce il figlio, Edipo, gli perfora entrambe le caviglie con un gancio, gli lega i piedi con una corda e lo espone sul monte Citerone affinché muoia di freddo e fame. E qui, come si suol dire, la domanda sorge spontanea: chi vuole uccidere chi? E tutto questo, non dimentichiamolo, avviene con la complicità – passiva secondo alcuni autori, attiva secondo altri – della moglie Giocasta, madre di Edipo. Salvato dal pastore che aveva il compito di esporlo, Edipo cresce, e un giorno, fatalmente, incontra il padre Laio nel crocicchio di Delfo. E Laio aggredisce Edipo. Per motivi banali, per giunta. Semplicemente per il gusto, che ha accompagnato tutta intera la sua vita, di aggredire e usare la violenza. E per la seconda volta tenta di ucciderlo. Ed Edipo, per legittima difesa, è costretto ad uccidere il padre, di cui, beninteso, ignora l’identità. E infine l’ultimo atto della tragedia: l’incontro con la madre Giocasta e l’accoppiamento con lei. Edipo, cui era stato persino vietato di indagare sulla propria nascita, non ha alcun elemento per sospettare l’identità della donna, ma lei? Lei che conosceva le profezie? Lei che conosceva i fatti? Davvero lei era così completamente all’oscuro dell’identità del suo compagno di letto? E dunque, chi vuole scopare chi? In conclusione, nel mito di Edipo abbiamo un figlio che i genitori tentano di assassinare alla nascita, che il padre tenta una seconda volta di uccidere, con cui la madre, pur avendo molti buoni motivi per sospettarne l’identità, si accoppia senza esitazioni: siamo davvero sicuri che sia Edipo il cattivo? Siamo davvero sicuri che sia lui il colpevole? Siamo davvero sicuri che sia il figlio a odiare i genitori e non, come quotidianamente accade nella nostra vita reale e come la cronaca non manca di ricordarci, l’esatto contrario?

barbara

IL DRAGO COME REALTÀ

Ossia che cosa rappresenta il drago, quale realtà, quale vissuto è stato trasfuso in questa immagine fiabesca. E nella strega, nella fata, nell’orco, nell’eroe… E quali reazioni biochimiche vengono innescate dai racconti che contengono tali figure. (E, a proposito, ci siamo mai chiesti come mai Cenerentola possa essere riconosciuta unicamente dalle dimensioni del piede?) Con qualche incursione nella storia, nella psicologia, nella medicina. E con un accenno, che non fa mai male, al cosiddetto complesso di Edipo, delirante invenzione di un medico psicopatico col cervello spappolato dalla cocaina, cui le pazienti tentavano di raccontare gli atroci abusi sessuali subiti in famiglia e lui si immaginava che tali racconti nascondessero il desiderio inconscio di farsi scopare dal paparino.
E con un messaggio personale di Silvana De Mari agli Orchi.

Ho un messaggio personale per gli Orchi.
Ho un messaggio personale per gli Orchi e per tutte le nutrite cerchie che sempre li circondano e li sostengono.
Ho un messaggio personale per tutti quei feroci individui che osano minacciare la nostra libertà di pensiero.
Non vi illudete.
Noi siamo gli Uomini Liberi.
Quando il buio ci circonderà noi avremo con noi i nostri eroi. Noi ci racconteremo le storie di Ulisse, Re Artù, Orlando, le storie di Gandalf, Aragorn, e non avremo paura.
O forse ne avremo, perché noi non siamo grandi eroi, siamo tizi qualsiasi come Frodo e Sam, ma andremo avanti lo stesso.
Come loro pieni di paura metteremo un passo dopo l’altro o non ci fermeremo.
Noi amiamo la vita.
«Viva la muerte!» urlavano i falangisti.
«Noi amiamo la morte » hanno scritto gli attentatori di Madrid, e hanno avuto ragione: la vita di coloro che vivono senza libertà è talmente ignobile e miserabile, che è per loro inevitabile amare la morte.
Noi che amiamo la vita abbiamo paura, e proprio perché abbiamo paura, perché amiamo la vita combatteremo quelli che non hanno paura perché amano la morte.
Non vi illudete. Noi siamo il Popolo degli Uomini Liberi.
Anche se ha tremato di paura, il Cavaliere Solitario non si arrende mai.
Orchi, avete perso.

E speriamo che abbia ragione.

Silvana De Mari, Il drago come realtà, Salani

barbara