barbara
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QUANDO AVEVO DUE ANNI
ero solita dire “Ho le gambe di Betty Grable”, l’attrice soprannominata “le gambe”,
che naturalmente non sapevo chi fosse. Però, in effetti…
Non badate ai colori bizzarri, dovuti alla scarsa qualità nonché all’antichità della carta, che la scansione ha reso ancora più bizzarri.
barbara
AGGIORNAMENTO (per la serie “esibizionismo a manetta”)
Qui avevo 51 anni. La faccia l’ho tagliata perché ero appena risalita da un lunghissimo bagno ed è assolutamente inguardabile. La pancia mi sono come al solito dimenticata di tirarla dentro. La forza di gravità fa, giustamente, il suo mestiere di forza di gravità. Però le gambe direi che reggono decisamente bene. Sono rimasta così ancora per un anno, poi ho smesso di fumare ed è arrivata la catastrofe. Adesso ho le gambe deturpate dalle cicatrici, le ginocchia deformate dai bitorzoli provocati dall’incidente, e le cosce sfasciate dall’età, ma mi piaccio un sacco lo stesso. Per le ginocchia e le gambe avevo per un momento pensato di ridurre tutto quel macello col laser ma poi ho deciso che no: anche un’esperienza devastante come quella dell’incidente fa parte della vita che ho vissuto, e i suoi segni me li tengo. E poi comunque le mie gambe sono bellissime lo stesso, tiè.
CHE POI IL 27 GENNAIO
È stato anche il terzo anniversario del mio incidente, quello con le ginocchia tumefatte e i cavallucci marini e che no, non poteva andare peggio.
A tre anni di distanza posso provare a fare il punto della situazione.
Le gambe sono pesantemente disastrate, ci sono zone necrotizzate e vari punti che solo a sfiorarli quasi svengo dal dolore. Le ginocchia sono e restano distrutte. Seguendo il consiglio del marito della mia fisioterapista di Brunico, quando a un anno e mezzo dall’incidente la sensibilità ha cominciato a diminuire leggermente (e io ho smesso di dover girare in minigonna ogni volta che cambiava il tempo perché lo sfioramento del tessuto mi provocava un dolore insopportabile) ho preso a spazzolare con uno spazzolino di tasso spalmato di gel morbido le cicatrici cordoniformi grosse un dito, che nel giro di un anno si sono via via appiattite, pur restando dolentissime e notevolmente deturpanti. Contemporaneamente ho lungamente massaggiato le ginocchia con l’olio, e la pelle rattrappita dalla fitta ragnatela di cicatrici sottili si è, nel giro di un mezzo anno, ammorbidita e distesa abbastanza da permettermi almeno di accucciarmi, visto che di inginocchiarmi non se ne parla proprio, neanche su un cuscino.
La cartilagine del naso frantumata e rattoppata alla meno peggio, continua ad essere un problema: un mese fa, per dire, l’estetista nell’affrontare con forse eccessiva energia un punto nero, me l’ha rotta in due punti, scatenandomi un urlo belluino, e tuttora scrocchia e fa un male cane (male ha sempre continuato a farmene, comunque).
I tremendi problemi neurologici che si erano presentati subito dopo l’incidente, sono sostanzialmente risolti, ma mi è rimasta una certa difficoltà a concentrarmi intensamente su qualcosa per più di una decina di minuti (ma anche di concentrarmi blandamente per tempi lunghi), sono diventata ancora più ipersensibile ai rumori di quanto già non fossi prima, e in particolare ho problemi col telefono, perché la voce che mi entra direttamente nell’orecchio mi disturba notevolmente e dopo un po’ mi fa entrare in uno stato semiconfusionale.
Ho dovuto subire, tre mesi e mezzo dopo l’incidente, un intervento ginecologico a causa dell’ematoma – che aveva lasciato coaguli che ad un certo punto avevano cominciato a infettarsi provocando un ascesso – che l’atterraggio di faccia sull’asfalto dopo il volo di parecchi metri mi aveva causato, e del quale al momento non mi ero accorta.
Dall’assicurazione del mio investitore, come risarcimento danni, a fronte di spese documentate (e naturalmente ce ne sono sempre altre non documentabili) per oltre 3600 euro, con almeno un mese di sostanziale invalidità, molte settimane di dolori disumani, mesi di dolori solo vagamente umani, danni permanenti eccetera, ho ricevuto in tutto 6000 euro. Che se sapevo così quasi quasi non mi facevo neanche investire.
Poi, quando stavo cominciando a riprendermi, è iniziata tutta la serie di guai che in parte (in minuscola parte: questo dopotutto è un blog, mica il muro del pianto) conoscete anche voi. In compenso ho avuto la ventura, da quando mi sono trasferita qui, di incontrare ben quattro medici meravigliosi (equamente distribuiti: due uomini e due donne – e pazienza se in questo modo violo le norme delle teorie gender) per cui almeno qualche conforto ce l’ho.
E dunque – considerando poi che quell’incidente potrei anche non essere qui a raccontarlo – rallegriamoci con un buon bicchiere di vino: bicchiere che, come possiamo chiaramente capire dal suono degli strumenti, si va rapidamente moltiplicando. D’altra parte, sempre meglio un bicchiere in più che uno in meno, soprattutto se consideriamo che brave persone come Hitler e Beria non bevevano, non fumavano ed erano vegetariane.
barbara
UN ALTRO PO’ DI ROBE
L’appello. È stato durante il volo di andata, e mi ha fatto stare davvero male. Lo hanno ripetuto tre volte, due l’assistente di volo e la terza il comandante: se fra i passeggeri c’è un cardiologo, o almeno un medico qualsiasi, si rechi urgentemente in cabina. Io ero nelle prime file, l’ingresso alla cabina di pilotaggio stava davanti ai miei occhi, e non ho visto arrivare nessuno. Mancavano cinque ore all’arrivo, ed eravamo in mezzo all’oceano, vale a dire senza alcuna possibilità di effettuare uno scalo di emergenza.
La passeggiata. La penultima sera, dopo il tramonto, quando ormai era quasi buio, mi sono avviata lungo la battigia (si chiama battigia) per una lunga lunga lunga passeggiata nell’aria calda, coi piedi carezzati dalle onde che andavano a spegnersi sulla spiaggia, e il profumo di salso e il canto della marea e della risacca.
Quando sono tornata indietro era praticamente notte, e qui devo tornare un momento indietro. Per tutto il giorno due ragazzi avevano infaticabilmente lavorato a scavare una grande buca. Si erano perfino portati dietro il grande ombrello in dotazione a ogni camera per poter continuare a lavorare anche nelle ore più calde; io ogni tanto li guardavo e mi dicevo: quando viene buio, o se la marea la copre, va a finire che qualcuno ci casca dentro. E adesso vi faccio la domanda da trecentomila miliardi di dollari: indovinate chi è che ci è finito dentro. Sì, bravi, esatto. Fino quasi alla vita ero dentro, e non ho le gambe corte, ma proprio proprio per niente. E poi arrampicarmi fuori, strofinando sulla sabbia le mie povere ginocchia martoriate e le gambe malconce. Vabbè, ma non era di questo che volevo parlare, bensì della borsa da spiaggia con tutte le mie cose che non c’era più. Ho ripercorso avanti e indietro tutto quel pezzo di spiaggia per quattro volte, scrutando attentamente ogni lettino, ma la borsa proprio non c’era. Dentro c’era il vestito, e pazienza, potevo anche rientrare in bikini, ma nella tasca del vestito c’era la tessera-chiave, e un’ultrasessantenne che attraversa l’albergo e si presenta alla reception in microbikini per spiegare tutta la storia e chiederne un duplicato non è che faccia tanto un bel guardare. In spiaggia sto come mi pare e chi non gradisce lo spettacolo cambi canale, ma se vado in giro io ad esibirmi il discorso cambia un po’. E poi c’erano le creme, e pazienza. E poi c’erano gli occhiali da sole e quelli da vista, e lì pazienza mica tanto. E poi c’era il kindle (sì, mi è stato regalato un kindle. E chi dice che non è la stessa cosa che girare le pagine di un libro ha perfettamente ragione, ma in viaggio è una mano santa: io ho letto dieci libri con un peso totale di 165 grammi più 40 del cavo per ricaricarlo. Se mi fossero capitati dieci giorni di pioggia tutti di fila e fossi rimasta in camera a leggere altri dieci libri, c’erano, senza aumentare il peso di un grammo). Non ero veramente preoccupata, a dire la verità: ero quasi sicura che l’avesse presa qualcuno del personale, pensando che fosse stata dimenticata; il problema era scoprire dove fosse stata portata, e trovare qualcuno a cui chiederlo, visto che in giro non c’era più nessuno. Poi ho visto due tizi tra le palme e li ho chiamati e ho spiegato la cosa, quelli hanno parlottato un momento tra di loro, dopodiché uno dei due si è diretto a un lettino sopra il quale, ben nascosta sotto un asciugamano, c’era la mia borsa. Dopo una breve ricerca abbiamo ritrovato anche gli zoccoli (gran bella cosa sapere le lingue, anyway). La sera dopo, comunque, l’ultima, la passeggiata seminotturna l’ho fatta con la borsa in spalla.
Le gambe. Naturalmente sapevo benissimo che mi facevano un male bestia, ma fino a quel momento non mi ero resa conto fino a che punto. Il primo segno è arrivato quando sono entrata in acqua, e le onde che mi colpivano i polpacci mi provocavano un discreto dolore. Poi un’onda più forte mi ha fatto perdere l’equilibrio e sono caduta, toccando con l’esterno della gamba destra il fondo sabbioso. Toccando, non sbattendo. Sono quasi svenuta per il dolore. (Il fatto è che ho sempre convintamente sostenuto di non avere mai perso i sensi. Ora, per avere l’esterno della gamba destra in quelle condizioni, ci devo avere preso un urto tremendo, e questo è il punto: io non ricordo urti a destra. L’auto mi ha raggiunta a sinistra, perché ero ancora nella prima metà della strada, e da lì veniva, e poi sono caduta sull’asfalto in avanti. Quando è arrivato questo colpo da destra, evidentemente, io non c’ero).
Il mango. Immensamente amato quando stavo in Somalia, e del quale ho sofferto quasi trent’anni di astinenza. È vero che arriva anche in Europa, e per due volte avevo ceduto alla tentazione di prenderne uno importato, una volta in Germania e una qui, ma è stato come (mi rivolgo ai miei lettori maschi) aspettarsi un incontro con B.B. (quella di mezzo secolo fa) e trovarsi nel letto una bambola gonfiabile a forma di L.L. Finalmente sono tornata a mangiarlo, raccolto maturo e portato in tavola in tempi brevissimi. Se esiste un paradiso, deve avere sicuramente il sapore del mango.
NUNTIO VOBIS GAUDIUM MAGNUM
E cioè che il mio ginocchio sinistro, dopo 18 giorni, ha finalmente smesso di sanguinare. Il destro ancora no, ma insomma non si può avere tutto dalla vita. Le gambe, nel frattempo, sono arrivate ad avere più colori di una foresta in autunno, e se non fosse che sono le mie, e che per lavarmi asciugarmi e vestirmi le devo toccare, il che ogni volta mi fa cacciare una discreta dose di strilli, sarebbe anche divertente. Poi grazie all’ortopedico strafigo ho finalmente scoperto perché il naso solo a guardarlo mi fa urlare: perché nel corso del mio incontro con l’asfalto si è rotta la cartilagine. Smanettando un po’ nei punti in cui faceva un po’ meno male, sono riuscita a mandare un paio di pezzi a incastrarsi nel punto giusto, ma mi rimangono ancora un po’ di bitorzoli dolorosissimi (ed è abbastanza impressionante toccarmi il naso e sentire crac crac). E restano i problemi neurologici, e per la visita devo ancora aspettare più di due settimane, ma insomma, si sopravvivrà anche a questo, spero. In compenso ieri per la prima volta mi sono arrischiata a uscire senza bastone. Certo, resto ancora parecchio impedita, e per consolarmi della mia scarsa possibilità di movimento, mi consolo guardando muoversi gli altri.
barbara