UN CUMULO DI MACERIE

Vi ricordate Jenin? Sì, quella di quella spaventosa strage con migliaia di morti. Ma oltre che quella della strage, era anche la città che i perfidi giud sionisti, quelli che come tutti sanno sono peggio dei nazisti, avevano ridotto a un cumulo di macerie, e giornali e televisioni ve l’hanno fatto sapere, ve l’hanno mostrato, affinché tutti foste testimoni degli orrendissimi crimini perpetrati dai nazisionisti nipotini di Hitler:

La realtà però era questa,

e chi vi faceva vedere il ritaglino mentiva sapendo di mentire; le pecore ci hanno creduto e hanno a loro volta diffuso la menzogna, i cervelli funzionanti si sono fatti qualche domanda, hanno cercato la verità, e l’hanno trovata, e poi diffusa, tra vagonate di insulti e minacce di morte (sì, ho ricevuto anche quelle) della controparte ma non preoccupatevi: ho le spalle robuste, e di esserini come voi posso reggerne centurie e legioni.

Cumuli di macerie, dicevo. Adesso ce ne raccontano altri, di cumuli di macerie, che potrebbero anche essere veri, intendiamoci, ma io, anche se “quelli dalla parte giusta” lo definiscono immorale e osceno, le domande continuo a porle, e le verità preconfezionate ad uso e consumo del padrone di turno, le rispedisco al mittente. Ai cumuli di macerie – soprattutto dopo le montagne di menzogne già smascherate – ci crederò quando ne avrò le prove, le quali NON consistono in un paio di inquadrature.

Musica molto diversa da altre parti del mondo

E che quella messa in atto dagli Stati Uniti sia stata una provocazione finalizzata e scatenare la reazione russa, gli Stati Uniti l’hanno sempre saputo. Ve l’ho già mostrato, ma ora ve lo rimostro da un’altra angolazione

Questo è per chi continua a negare che siano nazisti

E questo è uno che ci ha vissuto in mezzo

Questo invece è uno splendido articolo di Andrea Nicastro.

Battaglione Azov, chi è Denis Projipenko, comandante della resistenza di Mariupol, nemico numero uno di Mosca

Tra i fondatori del battaglione «nazista» dell’Ucraina di cui Putin vuole disfarsi, ex capo degli ultras della Dinamo Kiev, ma ora le tracce del suo passato sono state cancellate da Internet. E 14 mila soldati e decine di missili sono pronti per lui

Sull’edizione russa di Wikipedia, il nome Denis Projipenko è messo in cima alla lista dei comandanti del battaglione Azov. Il più alto in grado. Il nemico numero uno di Mosca, l’uomo che personifica sul campo quell’Ucraina «nazista» da cui Putin vuole liberarla. Sui siti di Kiev, invece, nulla. Projipenko non c’è. Scomparso, la memoria digitale cancellata. Pulizia totale di tutto quanto lo riguardava. Fosse per Internet, l’ufficiale in capo della resistenza militare a Mariupol sarebbe un uomo senza passato, senza gloria, ma anche senza i sospetti di simpatie neonaziste che oggi nuocerebbero alla causa ucraina. Uno e novanta, biondo, naso sottile e occhi azzurri, il maggiore Denis Projipenko è uno dei fondatori del Battaglione Azov.

Addestrato come un incursore, bello come un attore, da anni è in prima linea contro i filorussi del Donbass e oggi, adesso, in questi minuti, è in trappola a Mariupol. Accerchiato senza possibilità di rinforzi. Bombardato dal cielo e dal mare. Braccato dai droni e dalle orecchie elettroniche. Basta una sua comunicazione, un avvistamento, una soffiata per potergli indirizzare contro un missile. Mosca sa come fare. Ci riuscì durante l’assedio di Grozny, in Cecenia, negli anni ’90 contro il presidente indipendentista Dudaev. E allora le tecnologie erano molto più arretrate.
A Mariupol 14-15mila militari russi stanno riversando una marea di esplosivi sulla città per eliminare lui e i suoi uomini. Decine di missili sono pronti a disintegrarlo, migliaia di soldati a reclamare la taglia che il presidente ceceno Ramzan Kadyrov, intimo del leader del Cremlino Putin, ha messo sulla sua testa. Vivo o morto. Mezzo milione di dollari. Ciò che sta succedendo ai soldati che difendono Mariupol e al loro comandante Projipenko, ha lo spessore tragico delle grandi battaglie che cambiano il corso della storia e ispirano forti sentimenti. Anche se, nel frattempo, i protagonisti sono tutti morti. I 960 zeloti di Masada. I 300 spartani alle Termopili. Gli affamati di Stalingrado. Tutti sacrifici, vittoriosi o perdenti non è così importante per la storia, capaci però di segnare la consacrazione di un’identità non più negoziabile. Per il maggiore Projipenko, il riferimento più diretto è un altro, inciso persino in un bassorilievo dell’abbazia di Saint-Germain-des-Prés a Parigi. E’ la battaglia combattuta a metà del 1600 dai liberi cosacchi della steppa di Zaparozhzhie contro l’esercito lituano-polacco di re Giovanni II Casimiro. Ortodossi contro cattolici. Un impero dell’ovest contro le steppe dell’est. La battaglia di Berestenchko è, probabilmente, il più grande scontro terrestre di un secolo per nulla pacifico. I cosacchi di Crimea e del bacino del fiume Dnipro non volevano sottomettersi. Persero, ma 400 anni dopo, Denis Projipenko continua ad ispirarsi alla loro lotta per giustificare la sua.
È, probabilmente pronto a diventare il nuovo eroe nazionale ucraino. E le sue simpatie politiche, verranno strumentalizzate o meno a seconda di chi si impossesserà della sanguinosa leggenda. Ex capo degli ultrà della Dinamo Kiev, con la guerra del Donbass, Projipenko accorse volontario nel 2014 alla difesa del Paese. Da allora è diventato un soldato professionista, si è addestrato, ha imparato a combattere battaglie vere, non contro i lacrimogeni degli stadi. I russi dicono che abbia avuto istruttori stranieri, dai Delta Force alla Legione Straniera.
Il nucleo dei primi volontari del 2014 si struttura con il passare dei mesi. Riceve armi. Entra a far parte della Guardia Nazionale nell’autunno del 2014 ed è a quel punto che si libera di alcuni elementi di estrema destra. Da allora, in teoria, dovrebbe seguire le regole dell’esercito nazionale per cui l’apologia del nazismo è vietata. Il clima dentro il battaglione diventato brigata resta quello della sua iconografia, il simbolo così simile alla runa nazista, le t-shirt nere, le teste rasate, il saluto con il pugno al petto. Tutto molto militarista, machista e super nazionalista e forse oltre. (Corriere della Sera, grazie a Erasmo)

Non possono mancare, in onore ai nazisti ucraini, i nazisti di casa nostra, che si danno da fare, nel loro piccolo per non restare troppo indietro in fatto di infamia.

Aggiungo questa foto spettacolare di Bucha, che può dare la misura della “tragedia” in atto: sei fotografi intenti a fotografare un gatto (ma dico io!)

e due cose dedicate a chi ha un condizionatore: questa è una

e questa è l’altra

E già che ci siamo beccatevi anche questo

No, dico, ma ve lo immaginate Mattarella?

barbara

PICCOLO AGGIORNAMENTO SUL DISCORSO DELLE RAZZE ECCETERA

Perché è una di quelle cose che se uno non le vede coi suoi occhi non ci crede neanche morto. Dunque succede che un amico condivide il post su FB (insieme a tanti altri che non conosco e che ringrazio per l’apprezzamento). Il primo commento è di un tale che in teoria dovrebbe saper leggere, visto che di mestiere fa l’editore, e scrive:

Chi difende la puttanata detta da Fontana è oltre ogni decenza. D’altronde non c’è peggior sordo di chi non vuol capire. Sono abbastanza bravo anche io a dimostrare qualsiasi scemenza utilizzando ragionamenti e nozioni sparse. Ma il buon senso non dovrebbe mancare dal dialogo. Vuoi, volete un gruppo dirigente che si richiama alla difesa della razza? Accomodatevi. Poi però non lamentatevi.

L’amico condividente, piuttosto perplesso per l’assurdità e assoluta incongruenza di questo commento, lo invita a rileggere, e lui risponde:

riletto. Direi che è peggio di quanto avevo letto la prima volta. Facendo un grande minestrone di tutto si arriva a qualsiasi conclusione. Qui le cose sono semplicissime:
1) il candidato al posto politico più importante d’Italia dichiara in una radio del suo movimento, che si presenta fiancheggiatore dei movimenti europei ANTISEMITI, e italiani FASCISTI, che si dovrebbe difendere “la razza bianca”.
Un concetto uguale a quello che, introdotto in Italia nel 1938, porto alla Shoah.
Posso dire che non mi va?

Sempre più perplesso l’amico chiede: “E che c’entra questo fatto con l’esistenza o meno delle razze umane?” Risposta:

Che mi frega a me di questo? Gli scienziati dicono che la suddivisione per razze umane non esiste… questione di patrimonio genetico comune.
Poi se a te piace così io non mi scandalizzo se dici che sono di razza bianca… avendo però sangue Rumeno sono anche di razza Rom???

Cioè, questo pianta un bordello dell’altro mondo sulla “difesa della puttanata detta da Fontana”, che a quanto pare ha trovato nel mio post, e quando l’interlocutore tenta di riportarlo all’effettivo tema del mio post non trova di meglio che rispondere: “Che mi frega a me di questo?” – e stendiamo un velo pietoso sulla penosa ignoranza della differenza fra rumeni, cittadini di uno stato europeo, e rom, popolazione nomade di quasi sicura origine indiana, ipotesi che sembrerebbe confermata dalla presenza del cromosoma Y tipo H-M82 presente nel 47,5% dei rom (to’, guarda, una differenza genetica…), una parte dei quali risiede in Romania rappresentando il 2,5% della popolazione. Quanto al fatto che bianchi neri gialli eccetera condividono lo stesso patrimonio genetico, io chiedo: un dalmata un sanbernardo un pastore tedesco hanno patrimoni genetici diversi? Se la risposta è negativa – dato che i negazionisti della razza giocano tutto sulla differenziazione genetica – questo significa che le razze canine non esistono? Che dire poi di quel 90% di geni che condividiamo con il gatto? E se, d’altra parte, consideriamo che abbiamo il 50% di geni in comune con la banana, che cosa ne dobbiamo dedurre? Che siamo terzi o al massimo quarti cugini? Certo che con tutte quelle teste di banana che vediamo in circolazione, effettivamente…

barbara

IO (11/8)

Concedetemi una botta di protagonismo

E per cominciare in modo logico la botta di protagonismo, parto con la sala delle botti alla cantina del Golan,
botti-golan
naturalmente sempre col foulard sulle spalle per via del freddo polare che tocca patire in qualunque spazio interno da queste parti.
Poi c’è questa ai piedi del monte Sodoma,
monte-sodoma
di cui ancora non vi ho parlato, ma ve ne parlerò, perché c’è un bel po’ di cose da dire e di immagini da vedere (in realtà ne ho già parlato in altra occasione, ma su tutt’altro aspetto).
E come quelli ballavano sul Titanic che affondava, qui vedete l’incosciente che sorride sull’orlo dell’abisso, sopra Maktesh Gadol,
maktesh-gadol-2
mentre sul fondo, precedentemente, si era comodamente adagiata all’ombra.
maktesh-gadol-1
Qui sono su uno dei sentieri che collegano le varie cave a campana
cave-campana
– e anche la gonna giustamente a campana – vicino a quello che avevo indicato come un cappero e invece poi sono stata severamente bacchettata sulle dita perché col cappero che era un cappero.
E qui a Wadi Kelt,
wadi-kelt
nello spazio in cui i turisti si fermano per ricevere spiegazioni dalle guide, scattare foto, e resistere eroicamente ai tampinamenti dei venditori arabi che ad ogni auto o autobus che si ferma si precipitano fulmineamente sui malcapitati assediandoli con ogni sorta di cianfrusaglie da vendere e seguendoli poi accanitamente in ogni spostamento.
Per le foto di Gerusalemme occorre qualche spiegazione preliminare. La città vecchia – chi la conosce lo sa bene – è sostanzialmente fatta di scale. Per spostarsi lì dentro bisogna fare scale, tante scale, centinaia e centinaia di gradini, credi di avere finito e c’è un’altra rampa, pensi che sia l’ultima e invece no, non finisce mai. A parte il fatto che fare scale mi era stato severamente vietato dal fisiatra, c’era l’immane fatica del muoversi in quel modo per ore da parte di una persona reduce da tre mesi di quasi immobilità più tre settimane di mobilità estremamente ridotta. Questa è la ragione della mia faccia sfinita, pressoché catatonica, qui presso uno degli infiniti banchi della città vecchia,
jerush-1
e qui coi due poliziotti che impediscono il passaggio a uno degli ingressi al Monte del Tempio
jerush-2
– ah no, scusate, alla spianata delle moschee, quella che è islamica fin dalla creazione del mondo e sulla quale il profeta musulmano Issa a dodici anni disputava con gli imam nella moschea, stupendoli con la propria sapienza, mentre più avanti ne avrebbe cacciato cambiavalute e venditori di colombe che avevano la deplorevole abitudine di condurre i propri affari dentro la moschea. Quella. Poi poco dopo è intervenuto il cuore a informarmi che ero arrivata al limite e dovevo fermarmi immediatamente. Per fortuna i segnali di allarme li so riconoscere, e a quelli obbedisco – a prescrizioni e divieti dei medici non sempre, soprattutto se titolari di un culo brutto, ma a quelli del mio corpo sì – e mi sono fermata all’istante. Ho avuto la fortuna che proprio nel punto in cui mi sono fermata c’era un muretto basso, e mi ci sono stesa. Ho avuto l’altra fortuna che nel gruppo c’era un medico, che ha provveduto a mettermi uno zaino sotto la testa e due sotto le gambe, e dopo un po’ mi sono ripresa.
Poi c’è questa al ristorante armeno, la sera dell’arrivo a Gerusalemme,
io-e-gatto
che a qualcuno sicuramente piacerà.
E infine, per concludere, i soliti due (attenti a quei),
mar-morto
in cui lei come al solito ha dimenticato di tirare dentro la pancia, a differenza di lui che non se ne dimentica mai.

barbara

FINGENDO DI DIVAGARE UN PO‘

KLEINE FABEL

„Ach“, sagte die Maus, „die Welt wird enger mit jedem Tag. Zuerst war sie so breit, daß ich Angst hatte, ich lief weiter und war glücklich, daß ich endlich rechts und links in der Ferne Mauern sah, aber diese langen Mauern eilen so schnell aufeinander zu, daß ich schon im letzten Zimmer bin, und dort im Winkel steht die Falle, in die ich laufe.“ – „Du mußt nur die Laufrichtung ändern“, sagte die Katze und fraß sie. Franz Kafka

 

FAVOLETTA

“Oh,” disse il topo, “il mondo diventa ogni giorno più stretto. All’inizio era così vasto che avevo paura, sono corso avanti e sono stato felice di vedere finalmente in lontananza pareti a destra e a sinistra, ma questi lunghi muri corrono così veloci l’uno verso l’altro, che sono già nell’ultima stanza e lì nell’angolo c’è la trappola in cui cadrò” – “Devi solo cambiare direzione”, disse il gatto e lo mangiò. Traduzione mia

barbara

LE MIE AVVENTURE IN TERRA D’ISRAELE

E la prima che devo citare è quella con la matematica. Il mio amore per la matematica risale alla prima infanzia e devo dire che è stato, per fortuna, un amore discretamente ricambiato. E dunque succede che alla prima delle nostre uscite serali si prende chi una cosa e chi un’altra e poi alla fine si chiede il conto, sul quale va calcolata la mancia del 10% e, per non complicarci la vita coi calcoli individuali, si divide in parti uguali tra i presenti. Uno tira fuori la calcolatrice, fa il conto e dice: “25 shekel”. Io immediatamente dico no, vengono solo 3 shekel di mancia, dobbiamo metterne 27. Rifà il conto, viene di nuovo 25, io insisto, qualcuno dice che però forse effettivamente ho ragione io, e alla fine anche la calcolatrice ammette che è così. Le volte successive è stato deciso che era meglio lasciar fare i conti a me, ma ugualmente qualcuno, non fidandosi troppo, prendeva la calcolatrice, e mentre quello stava digitando il totale io davo il risultato – e dopo che al totale aveva aggiunto il dieci per cento e poi diviso per il numero di presenti, si confermava che il mio calcolo era esatto. E queste sono soddisfazioni, lasciatemelo dire.

La scalata. Prima vi mostro la foto nuda
scalata 1
poi quella con la freccia che indica il punto di passaggio.
scalata 2
Nella prima parte ci sono quei gradini scavati nella roccia che rendono la salita abbastanza agevole, ma nella parte più in alto ci sono solo i massi, e ancora peggiore è la parte che non si vede, mentre migliora un po’ nella discesa
scalata 3
Considerando che questo viaggio è stato la mia prima uscita “tosta” dopo l’incidente di gennaio e con vari segni dell’incidente ancora presenti in tutto il corpo, direi che non mi posso lamentare delle mie prestazioni.

Poi c’è stata la traversata del mar Rosso. Sono stata un po’ meno brava di Mosè, e non sono riuscita a farlo aprire del tutto, come potete vedere,
mar Rosso
ma insomma alla fine sono riuscita comunque ad approdare.

E concludo con gli incontri ravvicinati di un tipo che è meglio non prendersi troppa confidenza perché potrebbe anche andare a finire non troppo bene.
gatto
barbara

IL GATTO DAGLI OCCHI D’ORO

Gli occhi di Leila si riempiono di nuovo di lacrime, ma questa volta sono lacrime diverse da prima.
Alza gli occhi: dall’altra parte della finestra ci sono i tetti e lì vede il gatto che si è trascinato la sua fame e le sue ossa fino a una chiazza di sole tra i camini e la grondaia.
La fame del gatto è un’urgenza intollerabile.
Un’urgenza assoluta. Irrimandabile.
Ogni secondo che passa strazia le viscere del gatto. Ogni secondo che passa potrebbe essere l’ultimo. Leila si infila il panino nella tasca dei jeans e chiede di uscire.
A fare che? La pipì? E non poteva farla durante l’intervallo? Come sarebbe si è dimenticata. Questa è la prima media, mica l’asilo.
Il grosso vantaggio di essersi già fatti la fama dell’oca è la libertà di manovra.
Leila abbandona la classe seguita da un uragano di risate, come una pop star inseguita dagli applausi, che, questa volta, le lasciano addosso una via di mezzo tra una granitica indifferenza e un vago compiacimento.
I giri tra i corridoi al mattino permettono ora al suo senso di orientamento di sbrogliarsela. Deve solo salire le scale fino al piano superiore, di lì uscire sulla terrazza e, appigliandosi alle inferriate esterne dei finestroni sul corridoio dovrebbe riuscire ad arrivare fino alla grondaia.
I corridoi sono deserti. La bidella è nell’atrio attaccata al telefono (per fare il pollo alla diavola… se metti metà acqua e metà olio, la cipolla non brucia…). La porta della segreteria è aperta, ma anche la segretaria è al telefono e non alza gli occhi (per lo zabaione due uova intere, due tuorli e cento grammi di zucchero vanigliato…).
La portafinestra del terrazzo scricchiola orrendamente ma, tra lo zabaione della segretaria e il pollo alla diavola della bidella, la cosa passa inosservata.
Il sole inonda il terrazzo. Le fronde degli ippocastani riempiono la visuale.
Leila si arrampica: le inferriate sono talmente comode che sembrano una scala a pioli.
Ora Leila è al di sopra delle fronde degli ippocastani e si gira un attimo a guardare. La città se ne sta sotto il sole, prima dell’orizzonte c’è il mare e tra la città e il mare, dentro l’ansa del fiume, scintillano gli acquitrini. La brezza le scompiglia i capelli.
I gabbiani volano sulle discariche. Più in là le saline brillano nella luce dell’ultima estate.
Leila finisce la sua arrampicata. Sull’ultimo passaggio si appoggia alla grondaia e si tira su. Il gatto è lì. I suoi occhi d’oro scintillano come gli acquitrini sotto il sole.
Leila tira fuori il suo panino e lo mette davanti al gatto. Il gatto la guarda a lungo, poi si stiracchia, si avvicina pigramente al panino e comincia a mangiare il salame dell’imbottitura, lentamente, come assaporandolo. Poi sbocconcella anche un po’ di pane. Forse era veramente una fame abissale o forse il pane e salame ai gatti gli fa particolarmente bene. Comunque il gatto sembra essersi ripreso alla grande: guarda ancora Leila e poi schizza via, scompare tra i comignoli, veloce e lieve come il re degli elfi.
Un urlo squarcia la brezza.
«C’è una SUL TETTOOOOOO!»
Il pollo alla diavola deve essere cotto e lo zabaione se lo devono anche essere mangiato.
L’urlo risuona e si espande come le campane che chiamavano a raccolta quando arrivavano i saraceni, ma l’immagine del gatto che corre con tutta la sua grazia tra i comignoli continua a illuminare Leila da dentro, come una luce.
Dovrebbe preoccuparsi di quanto si arrabbierà la sua mamma, ma la preoccupazione non riesce a scalfire la sua allegria.
E poi, parliamoci chiaro, il suo non è il tipo di madre che sgrida troppo per questioni scolastiche.
«Ah, davvero? Sei anche salita sui tetti? E ti hanno dato tre in condotta? E di comprare il latte te lo sei ricordato?»
Leila dà un’ultima occhiata allo scintillio del fiume, tra la città e gli acquitrini, e respira ancora un attimo la brezza leggera.
Poi scende.

I professori sono usciti dalle classi seguiti dagli allievi. Non manca niente e nessuno: dalle Adidas della professoressa di ginnastica (scienze motorie) agli spigoli della professoressa di italiano.
La professoressa di italiano ha gli spigoli che tremano e non riesce nemmeno a parlare. La professoressa di ginnastica (scienze motorie) ha le Adidas che stanno ferme, ma lo stesso il fiato non riesce a tirarlo fuori. Quello che recupera la voce per primo è un tizio in giacca e cravatta, che Leila deduce dover essere il preside. Il preside la riconduce alla sua classe e finalmente le domanda perché diavolo è salita là sopra.
Leila non ha voglia di nominare il gatto.
«Per guardare la città dall’alto» risponde serenamente.
Risatine di sfondo.
Leila ascolta le risatine. Non c’è nessun dubbio. È un altro tipo di risatina.
Leila si rende immediatamente conto di avere cambiato categoria. È passata dal genere ‘straccione-incapace-decisamente scemo’ al ‘trasgressivo-ribelle-un po’ matto’, che è anni luce al di sopra del precedente.
«Nessuno degli allievi è mai salito sui tetti» insiste il preside.
«Dovrebbero. Lì sopra è bellissimo» spiega Leila con un tono di voce tra il timido e l’allegro.
Risate franche, ma questa volta, di nuovo, sono per lei e non su di lei.
Leila si accorge che tutto l’insieme del suo comportamento, dalla denuncia di un padre originario di Marte e di una madre dedita alla vermicultura, può essere reinterpretato e, in effetti, è reinterpretato alla luce del nuovo genere: trasgressivo un po’ folle. È salita di grado.
Il preside fa la faccia di uno che ha appena incontrato il mostro di Frankenstein, e a Leila fa un po’ pena. Ma non può mollare. Continua a parlare. Ripete che lassù è bellissimo. Parla dell’ansa del fiume, delle paludi, dei camminamenti tra i canneti fino ai nidi delle oche selvatiche, che dal tetto della scuola si vedono. Parla di come si fa a scovarli, come si fa a non dargli fastidio quando le uova stanno per schiudersi.
C’è un silenzio affascinato, Leila parla dei due campi zingari e del campo profughi (tutti frequentano la Santorre di Santarosa), dei bambini rumeni che sono arrivati insieme ai bambini albanesi, dopo i russi e prima dei senegalesi. Parla dei bambini africani: vengono da pezzi diversi dell’Africa, qualcuno è un deserto, qualcuno una savana, qualcuno giallo, qualcuno verde, ma tutti disperati. La sua migliore amica si chiama Maryam e arriva dall’Etiopia che è il Paese degli altopiani, dove nasce il Nilo. Il regno del Leone di Giuda. Leila tira fuori dalla tasca dei jeans sdruciti la monetina etiope con sopra la testa del leone che Maryam le ha regalato in seconda elementare come portafortuna e che lei porta sempre in tasca. Maryam non farà le medie, anche se andare a scuola le piaceva, perché è la prima femmina della sua famiglia che ha imparato a leggere e forse hanno paura che esagerare le faccia male; quindi la tengono a casa, però loro due sono d’accordo che Leila le racconterà tutto quello che sente a scuola, perciò sarà come se un po’ facesse le medie anche lei. Dice anche questo.
Il preside si riprende. Interrompe Leila bruscamente ma con una certa cortesia, minaccia punizioni esemplari, ma nel frattempo non ne attua nessuna. Ma in futuro guai a chi si azzarda anche solo a uscire sulla terrazza senza permesso. Tra l’altro la bidella che stava facendo? Mica al telefono come sempre a parlare di cucina? E la segretaria? Non è passata davanti al suo ufficio quella ragazzina per…
Leila raggiunge il suo banco e si siede.
Fiamma si volta e le fa un radioso sorriso.

Ecco, c’è lei, Leila (sì, come la principessa di Guerre Stellari), la ragazzina troppo grassa troppo malvestita troppo diversa troppo tutto. E Maryam, l’amica etiope. E bambini ricchi e bambini poveri e bambini viziati e bambini tristi e mamme rifatte e mamme troppo presenti e mamme troppo assenti ed emarginazione e integrazione e amicizia e antipatie e mutilazioni genitali e paura e coraggio e poi lui, certo, il gatto dagli occhi d’oro, e guai se mancasse!

Silvana De Mari, Il gatto dagli occhi d’oro, Fanucci

barbara