E VIVA IL COMUNISMO E LA LIBERTÀ

Ritengo opportuno far precedere questo articolo da un inno appropriato.

Hasta i rifugiati del socialismo siempre!

Non sbarcano a Lampedusa, sono 9 milioni di venezuelani in fuga dal regime che ha realizzato l’uguaglianza: tutti poveri. Dai 5 Stelle ai Nobel, tutti compañeros alla “Mecca dei ciarlatani”

Le Nazioni Unite hanno avvertito che entro la fine del prossimo anno ci saranno 8,9 milioni di rifugiati venezuelani in tutta l’America Latina. Un esodo che supera di gran lunga quello siriano con 6,8 milioni di profughi. Ma se la Siria è finita così a causa di una guerra civile, il Venezuela ha fatto tutto da solo. Ha abbracciato il socialismo castrista, come racconta il Wall Street Journal.
Ma se per i migranti siriani e africani le tv, i giornali e le agenzie umanitarie sono tutte lì, alla frontiera polacca, nelle spiagge di Lesbo e nel porto di Lampedusa, per il grande esodo dei migranti venezuelani non c’è quasi nessuno.
“Nella prima metà del 2019, il Venezuela ha iniziato a soffrire di carenza di benzina” racconta il Journal. “La nazione aveva le più grandi riserve di petrolio del mondo. Eppure i conducenti si trovano ad aspettare giorni e giorni in fila davanti alle stazioni di servizio, ricordando la vecchia barzelletta su come se i comunisti si fossero impossessati del Sahara, la sabbia sarebbe finita. Allo stesso tempo, navi cisterna partivano dai terminal venezuelani pieni di petrolio dirigendosi… verso Cuba. Questa immagine racconta la storia fondamentale del disastro del Venezuela. I bisogni di Cuba vengono prima di tutto. Sempre”.
I dati sono spaventosi: “Il 95 per cento dei venezuelani è povero. Più di 3 venezuelani su 4 vivono in condizioni di estrema povertà e insicurezza alimentare. A 3 dollari al mese, il salario minimo legale non dà da mangiare a una persona per un giorno, figuriamoci a una famiglia per un mese. La metà della popolazione in età lavorativa ha abbandonato la forza lavoro. Il Pil pro capite è crollato a livelli che non si vedevano dagli anni ’50. La scarsità d’acqua è endemica in tutte le città. I blackout sono comuni. Le biciclette sono diventate il mezzo di trasporto preferito da coloro che possono permettersele. Il sistema sanitario è crollato, portando i tassi di mortalità infantile a livelli mai visti da una generazione. Malattie come la difterite e la malaria, che erano state debellate decenni fa, sono tornate. L’unico aspetto positivo? I tassi di omicidi sono diminuiti perché le munizioni scarseggiano”.
Un venezuelano in media ha perso 11 chili di peso…Il Venezuela è un luogo ideale per girare il sequel di “Hunger Games”. I giochi della fame. Nei giorni scorsi funzionari dell’Onu nello spiegare la gravità contrazione economica in Afghanistan hanno detto che “lo abbiamo visto soltanto in Venezuela”.
Perché curarsene? In fondo il Venezuela non siede forse nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu, anche se ha gli stipendi più bassi al mondo e l’inflazione più alta del pianeta?
Perché i 9 milioni fuggono da un regime incensato dai pundit di sinistra in tutto il mondo, dagli attori di Hollywood, dalle ong e da tanti, troppi funzionari delle Nazioni Unite. Donne che combattono per un pezzo di burro, madri che non riescono a trovare il latte, bambini che frugano nella spazzatura, scaffali vuoti nelle farmacie, ospedali senza barelle e antibiotici, medici che operano alla luce di un telefonino, donne che partoriscono fuori dagli ospedali. Sul New York Times, Bret Stephens si è domandato dove siano i progressisti sul Venezuela. “Ogni generazione di attivisti abbraccia una causa di politica estera: porre fine all’apartheid in Sudafrica; fermare la pulizia etnica nei Balcani; salvare il Darfur dalla fame e dal genocidio. E poi c’è la causa perenne – e perennemente indegna – della ‘liberazione’ della Palestina, per la quale non c’è mai carenza di creduloni fanatici”. Del Venezuela nessuno parla. “Le sue vittime stanno lottando per la democrazia, per i diritti umani, per la capacità di nutrire i loro figli”.
“Chiunque in Venezuela sarebbe felice di frugare nei cestini americani: i rifiuti sarebbero considerati gourmet”, scrive Business Insider. Caracas era la Mecca della sinistra europea, latinoamericana e americana.
Lo avevano cantato come un paradiso, ma era “una fiesta infernale”, secondo la definizione della New York Review of Books. Il settimanale francese Le Point ha definito il Venezuela “il cimitero dei ciarlatani”. Ancora quattro anni fa, il Manifesto si permetteva di pubblicare un articolo a firma di François Houtart in cui si elogiava un regime “fedele all’emancipazione del popolo”.
In Europa di ammiratori quel regime orrendo ne ha sempre trovati tanti: in Francia, il capo del terzo partito, Jean-Luc Mélenchon; in Inghilterra, il leader del Labour, Jeremy Corbyn; in Italia il primo partito, i Cinque Stelle; in Spagna, Podemos. E si sapeva già tutto, del famoso miracolo venezuelano.
Lo scrittore britannico Tariq Ali proclamava che il Venezuela era il paese più democratico dell’America Latina. Alfred De Zayas, esperto dell’Onu per la “promozione di un ordine democratico ed equo”, ha visitato il Venezuela per valutare il suo stato sociale ed economico. Tornando a Ginevra, De Zayas ha detto di non ritenere che ci fosse una crisi umanitaria. “Sono d’accordo con la Fao che la cosiddetta crisi umanitaria non esiste in Venezuela” ha detto De Zayas. Il premio Nobel per la Letteratura José Saramago ha elogiato il chavismo. Adolfo Perez Esquivel, il pacifista argentino Nobel per la Pace, definì Chàvez “un visionario”. Harold Pinter, un altro Nobel per la Letteratura, appose la sua firma a un manifesto in cui si difendeva il regime. Anche Black Lives Matter è vicino al dittatore venezuelano Maduro. “Attualmente in Venezuela, un tale sollievo trovarsi in un luogo in cui c’è un discorso politico intelligente”, scrisse Opal Tometi, fondatrice di Black Lives Matter.
Dalla Gran Bretagna, la campagna di solidarietà con il Venezuela, con sede a Wolverhampton, inviava in missione i membri del sindacato.  Naomi Klein, l’autrice di No Logo, ha elogiato il Venezuela come un luogo in cui “i cittadini hanno rinnovato la loro fede nel potere della democrazia”, dichiarando che il paese era stato reso immune agli choc del libero mercato grazie al “socialismo del XXI secolo”.  Gianni Vattimo si vantava di partecipare alla “Prima settimana internazionale di filosofia del Venezuela”. Mentre i venezuelani cercavano cibo nei rifiuti, il governo Maduro veniva premiato dalla Fao per aver “raggiunto l’obiettivo del millennio delle Nazioni Unite di dimezzare la malnutrizione”. “Il Venezuela può essere considerato uno dei paesi, come il Brasile e la Cina, che ha contribuito alla cooperazione”, ha osservato Laurent Thomas, direttore della Fao per la cooperazione. 
Il premio Oscar Jamie Foxx si è presentato sorridente al palazzo presidenziale di Caracas per una foto con Maduro. L’attore Sean Penn ha incontrato i leader venezuelani in numerose occasioni, descrivendo quel paese come fautore di “cose incredibili per l’80 per cento delle persone che sono molto povere”. Dopo la morte di Chávez, Penn disse che “i poveri di tutto il mondo hanno perso un campione”. L’attivista afroamericano per i diritti civili Jesse Jackson ha visitato Caracas elogiando quel regime per la sua “attenzione al commercio libero ed equo”. Jackson ha offerto una preghiera al funerale di Chávez: “Hugo ha nutrito gli affamati”. L’attore Steven Seagal è appena andato a Caracas a regalare una spada a Maduro. L’economista Joseph Stiglitz, un altro Nobel, ha elogiato le politiche venezuelane per il “successo nel portare la salute e l’educazione alla gente nei quartieri poveri di Caracas”. Il senatore Bernie Sanders si è lanciato in una affermazione straordinariamente lungimirante: “Il sogno americano si è realizzato in Venezuela”. E un altro Nobel, Rigoberta Menchú, ha difeso il regime ancora lo scorso ottobre, dicendo che “per valutare un conflitto devi conoscere i dettagli dietro di esso”.
Se lo Yemen è piombato in un incubo umanitario a causa di una guerra, il Venezuela a causa del socialismo. “Nella sua incarnazione particolarmente virulenta e criminale” spiega il Journal. “Un’ondata di espropri iniziata nel 2005 ha messo gran parte dell’economia privata nelle mani dello stato. Salari, prezzi, assunzioni e licenziamenti, livelli di produzione, importazioni, esportazioni e investimenti: tutto è stato soggetto a regole minuziosamente dettagliate ideate da burocrati socialisti con poche nozioni su come gestire un’impresa. Caracas si era trasformata in un importante centro di riciclaggio di denaro, con cleptocrati neofiti in cerca di partner più esperti in grado di aiutarli a nascondere il loro bottino”.
Adesso il Venezuela, dopo averli mandati in bancarotta, sta tornando alla privatizzazione di ampi settori dell’economia, racconta Bloomberg.
Trent’anni fa, la notte di Natale del 1991, la bandiera rossa veniva ammainata sopra il cielo di Mosca. Era la fine dell’Unione Sovietica. Oggi – fra Corea del Nord, Vietnam, Cina, Cuba e Laos – 1,5 miliardi di esseri umani vivono ancora sotto dittature che, anche soltanto formalmente, si definiscono “comuniste” e “socialiste”.
I boia nordcoreani tormentano i prigionieri condannati, li mutilano dopo la morte e costringono le persone a guardare i cadaveri, afferma una inchiesta sulla pena capitale durante il decennio al potere di Kim Jong-un e rivelata dal Times. Il rapporto di un’organizzazione per i diritti umani di Seoul afferma che delle esecuzioni pubbliche che ha documentato, il maggior numero non sono per omicidio o stupro, ma per il reato di visione o distribuzione di video dalla Corea del Sud. “Il condannato è stato trascinato fuori da un’auto come un cane prima dell’esecuzione pubblica”, ha detto un testimone di un plotone d’esecuzione a Hyesan. “La persona che stava per essere giustiziata era già in una condizione di pre-morte e i suoi timpani sembravano danneggiati, impedendogli di sentire o dire qualsiasi cosa”. In un’altra esecuzione a Sariwon, nella provincia di North Hwanghae, il condannato è stato legato a un palo di legno con dei sassolini in bocca. Altri intervistati hanno descritto la mutilazione dei corpi. “A Pyongyang il corpo del giustiziato è stato bruciato con un lanciafiamme di fronte a una folla dopo l’esecuzione. La famiglia dell’imputato è stata costretta ad assistere all’esecuzione e a sedersi in prima fila per osservare la scena. Il padre è svenuto dopo aver visto suo figlio bruciare davanti ai suoi occhi”. A Hyesan, un bambino è stato giustiziato con i Kalashnikov. A studenti e lavoratori è stato ordinato di assistere alle esecuzioni, come avvertimento.
Come nella Germania dell’Est, in Venezuela manca anche la carta igienica.
Hasta el socialismo siempre!
Giulio Meotti

L’ovvia domanda è: tutti questi intellettuali, politici e paccottiglia varia, questi uomini senza fallo (e anche senza gli annessi), semidei che dall’alto dei loro castelli inargentati guardano l’umano desolato gregge a cui dichiarano di sentirsi vicini e stringono calorosamente la mano al suo carnefice, sono ritardati o sono prostitute in totale malafede? Io propendo per una combinazione delle due cose.

barbara

IL RIFIUTO DI UN’EREDITÀ DIFFICILE

È cosa nota il fatto che mentre la Germania Ovest ha, almeno in parte, fatto i conti col proprio passato riconoscendo le proprie responsabilità, processando un certo numero di criminali nazisti e provvedendo a risarcimenti materiali, sia verso le singole vittime, sia verso lo stato di Israele, come contributo alla costruzione dello Stato destinato ad accogliere i sopravvissuti allo sterminio, l’Austria lo ha fatto in misura molto minore, atteggiandosi anzi a prima vittima del nazismo (e stendendo un obbrobrioso velo di oblio sull’entusiasmo con cui aveva accolto i nazisti, sullo zelo con cui si era data alla caccia all’ebreo, sul fatto che fra le SS volontarie nei campi di sterminio la percentuale di austriaci era significativamente superiore a quella della rappresentanza austriaca nel Reich), e la Germania Est non lo ha fatto per nulla, presentandosi come intrinsecamente antifascista, e quindi senza alcun legame col nazismo. E dunque, niente epurazioni e niente risarcimenti. Questa, dicevo, è cosa nota. Meno nota è forse l’ostilità mostrata dalla Germania Est, in linea con tutto il blocco comunista, verso i propri ebrei, al punto da indurne molti alla fuga – in particolare quelli osservanti, o comunque dotati di una forte consapevolezza della propria identità ebraica – e tenendo quelli rimasti alla larga da istituzioni e ruoli di responsabilità, e mantenendo un assiduo controllo anche sugli ebrei rinnegati (un ebreo, si sa, anche convertito o rinnegato, è sempre un ebreo, ed è sempre opportuno guardarsene). Ma non vorrei che adesso vi faceste delle idee sbagliate: tutto questo non si chiama antisemitismo, no. Si chiama lotta di classe (gli ebrei tutti sporchi capitalisti, sapete bene, gli ebrei che manovrano la finanza mondiale, gli ebrei dietro a tutte le politiche estere, il complotto ebraico…)
Va da sé, con queste premesse, che la Germania Est non poteva non sviluppare un odio implacabile contro lo stato capitalista e imperialista di Israele e offrire incondizionato appoggio, morale e materiale, al mondo arabo e al terrorismo palestinese (compreso quello delle olimpiadi di Monaco). Delle vicende relative ai rapporti della Germania Est con gli ebrei, con Israele e con il mondo arabo, troviamo in questo splendido libro un’accuratissima documentazione. E troviamo, tra l’altro, la vergognosa e accuratamente studiata e programmata strumentalizzazione del processo Eichmann, in cui spicca in tutta la sua evidenza la spudorata prostituzione nei confronti del mondo arabo.

L’organizzazione di una campagna propagandistica in concomitanza con il «processo Eichmann» fu affidata a Albert Norden, responsabile del reparto Agitation (propaganda) della SED. Nella seduta dell’11 aprile del Politbüro, in contemporanea con l’apertura del processo a Gerusalemme, venne elaborato un interessante e articolato piano d’azione. Fu dato l’ordine di costituire dei gruppi di lavoro. Uno avrebbe analizzato il documento di accusa contro Eichmann e la sua linea di difesa e «formulato argomentazioni convincenti». Un altro avrebbe studiato i collegamenti fra il «processo Eichmann» e quello di Norimberga. Il presidente della Volkskammer, Dieckmann, e il presidente della comunità ebraica di Berlino, Schenk, furono incaricati di rilasciare una dichiarazione sul processo Eichmann. La campagna contro Eichmann doveva essere collegata con la campagna per la pace mondiale e contro l’odio razziale e venire appoggiata dalle comunità ebraiche della RDT e dal «Comitato per la pace» (Friedensausschuß). Ai loro presidenti fu commissionato l’invio di un telegramma a Kennedy per condannare la «ripresa del revanscismo e dell’odio razziale nella Germania occidentale». Anche «Arnold Zweig e il suo gruppo» furono invitati a prendere posizione. Vennero previste anche campagne e mobilitazioni contro la politica nucleare della Repubblica Federale e contro il neocolonialismo. Il noto giurista Friedrich Karl Kaul sarebbe stato mandato come osservatore a Gerusalemme al processo Eichmann. Infine Norden avrebbe dovuto curare la pubblicazione in Germania occidentale di uno scritto di Adenauer, degli anni 1933-’34, che testimoniava l’appoggio dato dal cancelliere al nazionalsocialismo. E avrebbe dovuto verificare la possibilità di «procedere per via giudiziaria all’accertamento delle verità contenute nell’opuscolo relativo a Globke, contro cui Adenauer vuole entrare in giudizio».
Non solo la RDT ma tutto il blocco socialista pensava a come usare l’affare Eichmann per aumentare il proprio credito nell’ambito della contrapposizione tra i blocchi. I ministri degli esteri dei paesi socialisti si incontrarono il 19 luglio 1960 a Budapest per discutere una comune linea di azione al processo di Gerusalemme. Erano rappresentate Ungheria, Cecoslovacchia, Unione Sovietica, Polonia, RDT e Romania. I risultati della consultazione vennero comunicati al Politbüro dal ministro degli esteri Winzer, nel corso della seduta del 16 agosto. I bersagli della campagna politica connessa al processo Eichmann erano il neofascismo in Germania occidentale, il sionismo e il Vaticano (poiché, si affermava, Eichmann era fuggito e vissuto in Argentina grazie alla protezione del Vaticano). Principali interessati alla questione furono ritenuti i polacchi, dato che Eichmann aveva operato soprattutto in Polonia. Il problema più discusso fu quello della competenza del tribunale israeliano nel procedere in giudizio. Accettarne la competenza  avrebbe comportato conseguenze spiacevoli. Avrebbe di fatto limitato molto le possibilità di intervento dei paesi socialisti e legittimato la pretesa di Israele a rappresentare il popolo ebraico. Anche rifiutare in toto la competenza sarebbe stata una strategia dai molti risvolti negativi. Israele avrebbe avuto così l’occasione di affermare che gli stati socialisti volevano coprire i criminali di guerra fascisti e dal canto loro gli stati socialisti si sarebbero preclusi qualsiasi possibilità di intervento o di critica, anche solo a latere. Fu scelta quindi la via di mezzo, quella di riconoscere in parte la competenza di Israele. Tale soluzione non avrebbe privato i paesi socialisti della possibilità di chiedere l’estradizione di Eichmann, e avrebbe permesso di selezionare il materiale e trasmettere solo quello che più interessava fare conoscere, senza incorrere nell’accusa di volere impedire l’accertamento della giustizia.
Nel corso della consultazione fra i paesi socialisti fu discussa anche l’eventualità di avviare un procedimento per la richiesta di estradizione. Una mossa solo propagandistica, dato che le autorità israeliane mai avrebbero accettato la domanda. Il rifiuto di concedere l’estradizione avrebbe però permesso ai paesi socialisti più direttamente interessati di ritagliarsi degli spazi per criticare le scelte giudiziarie israeliane, pubblicando il materiale disponibile su Eichmann a piccole dosi. La richiesta di estradizione non doveva tuttavia essere inoltrata subito: Israele, pur di non estradare Eichmann in un paese socialista come la Polonia, avrebbe potuto concedere l’estradizione alla Germania occidentale. I paesi socialisti decisero infine di trasmettere alle autorità israeliane solo una parte della documentazione disponibile e utile ai fini del processo.
Le decisioni raggiunte dalla conferenza di Budapest vennero approvate e adottate dal Politbüro. Il ministero degli esteri della RDT specificò che la Germania orientale intendeva utilizzare il più possibile il processo di Gerusalemme per smascherare i complici di Eichmann, per sapere chi avesse nascosto Eichmann per tutto il tempo trascorso dal termine della guerra, per accusare la (presunta) collaborazione in tal senso fra Germania occidentale e Israele. La Repubblica Democratica avrebbe dovuto fornire tutto il materiale adatto ad accrescere pubblicità e rilevanza del processo. La documentazione sarebbe stata diffusa, anche all’estero, attraverso le organizzazioni di ex-combattenti e reduci della resistenza. L’amministrazione della giustizia fu incaricata di esprimere pareri riguardo alla competenza delle corti israeliane nella conduzione del processo.
Il Politbüro aveva deciso di mandare a Gerusalemme degli osservatori «neutrali», membri delle organizzazioni della resistenza. La partecipazione ufficiale della Germania orientale non era invece ritenuta opportuna. Norden, in una lettera a Ulbricht dell’ottobre 1960, precisava infatti che un intervento diretto della RDT come accusatore di Eichmann avrebbe potuto essere motivo di forte imbarazzo nei rapporti con i paesi arabi. Nella stessa lettera, Norden sottolineò la necessità e l’intento di «inasprire al massimo gli attacchi contro il regime di Bonn» in concomitanza con il caso Eichmann. (pp. 137-141)

Prostituzione spinta al punto da dichiarare illegittima l’esistenza di Israele – molto molto in anticipo sugli amanti della pace nostrani. Prostituzione, peraltro, assai poco redditizia perché i dirigenti della Germania Est avevano lo stesso difetto di tutti gli odiatori di Israele e degli ebrei e degli amanti professionisti degli arabi: non conoscevano gli arabi.

La visita di Ulbricht al Cairo aveva fornito a Bonn un ottimo pretesto per la normalizzazione con Israele, da tempo richiesta con insistenza da parte israeliana. Pressoché immediatamente dopo la partenza di Ulbricht, il 9 marzo, Nasser, nell’incerta prospettiva dovuta all’apertura della RDT, minacciò che in caso di normalizzazione avrebbe proceduto al riconoscimento ufficiale di Berlino est e al blocco dei beni tedeschi. Quando, il 12 maggio 1965, la Repubblica Federale e Israele annunciarono l’avvio delle relazioni diplomatiche, l’Egitto e altri nove stati dei tredici appartenenti alla Lega Araba si limitarono a rompere le relazioni diplomatiche con Bonn: non fecero seguire a tale atto il riconoscimento della Repubblica Democratica. La visita di Ulbricht al Cairo, annunciata come il maggiore successo della politica tedesco-orientale, si era quindi dimostrata una sconfitta. La RDT si era piegata alle richieste egiziane di durezza estrema contro Israele, ma non aveva ricevuto nulla in cambio. Solo vaghe promesse di attenzione che non erano state mantenute né immediatamente dopo la visita, né quando la Germania occidentale e Israele normalizzarono le proprie relazioni. (pp. 158-160)

Infine un accenno al partito comunista israeliano, anch’esso prostituito al comunismo internazionale, pronto a svendere la Patria in cambio di un po’ di considerazione, e tuttavia frustrato in questa sua aspirazione.

In un’analisi-piano delle relazioni fra SED e Partito Comunista di Israele sullo sviluppo dei rapporti reciproci nel 1964, la RDT dichiarava:
«Nelle attuali condizioni la RDT non è interessata ad un ampliamento delle proprie relazioni con Israele, perché questo si potrebbe immediatamente riflettere molto negativamente soprattutto sulle nostre relazioni con gli stati della regione araba. Perciò il nostro partito considera che lo sviluppo delle relazioni interpartitiche con il PC di Israele non costituisca un obiettivo primario rispetto allo sviluppo di relazioni interpartitiche con i partiti fratelli degli stati arabi. Al contrario, il PC di Israele considera lo sviluppo delle relazioni con il nostro partito come obiettivo fondamentale, secondo solo al miglioramento delle sue relazioni con il PCUS» (p.177)

(Verrebbe da concludere, pensando, giusto per aggiungere una nota personale, anche a questo, che se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo ne è l’eroina).
Il libro, per concludere, che ha molto più la fluidità del racconto che la pesantezza del saggio, a me ha riempito numerose lacune. Quindi va assolutamente letto.

Sara Lorenzini, Il rifiuto di un’eredità difficile, Giuntina

barbara