IL CABALISTA DI PRAGA

Che all’inizio sembrerebbe la storia del dybbuk, ma non è la storia del dybbuk; o meglio, un dybbuk c’è, ma non è “quello lì” (e se non sai che cos’è il dybbuk ti vai a informare: non pretenderai mica che ti serva sempre la pappa fatta, eh?). Anzi, in un certo senso è l’esatto contrario, è il rifiuto di adeguarsi al destino disegnato dai padri, la rivendicazione da parte dell’interessata (una donna!) del diritto a scegliere la propria strada contro tutto e tutti.
E poi c’è la storia del Golem, che all’inizio ricalca quella tramandata dalla leggenda: i cristiani che non smettono di assaltare il ghetto per fare strage di ebrei, una volta col pretesto di un’epidemia di peste di cui, come al solito, vengono incolpati gli ebrei (che, grazie in parte all’isolamento a cui sono costretti, e in parte alle loro norme igieniche rituali, muoiono sensibilmente meno dei cristiani), una volta con quello di qualche cristiano trovato morto, a volte facendo anche a meno di qualsiasi pretesto; il desiderio di una potente arma di difesa; la tentazione di fare ricorso ai misteriosi poteri esoterici della cabala per dare vita a un umanoide dalla potenza illimitata ma del tutto privo di pensiero, di volontà, di sentimenti – in una parola, di umanità. Poi, come si sa, qualcosa va storto – ma, nel romanzo, va storto in maniera molto diversa da quella narrata nella leggenda, ed è proprio in questo “andare storto” che si manifesta tutta l’umanità di Marek Halter e dei personaggi a cui la sua fertile fantasia ha dato vita.
(Post scriptum: oggi il Golem non ci serve più: abbiamo l’esercito di Israele)

Marek Halter, Il cabalista di Praga, Newton Compton
il cabalista di praga
barbara

E POI HO RIVISTO I COLLI FATALI

E ho visto questo, che è il motivo del viaggio a Roma in questo momento. Di foto non ne ho fatte perché sono talmente belle le sue che aggiungerne altre sarebbe quasi una profanazione (e d’altra parte è un uomo talmente bello e una persona talmente bella, che solo cose belle possono venire da lui), tranne questa
roseto
E voi non saprete mai il perché di questa foto, con tanto di primo piano delle ginocchia deformate dai bitorzoli dei tendini massacrati dall’incidente, ma il perché c’è, eccome se c’è.
E naturalmente ho visto questo, perché lei è proprio riuscita a farmene venire la voglia, ed effettivamente ne valeva la pena. Poche foto anche qui: lui, naturalmente
Gramsci
e questa straziante colonnina interrotta
Leon Ruff
e questa madre crudelmente strappata alla famiglia.
madre
Ho visto molte cose, che non starò a descrivere e raccontare in dettaglio. Dirò solo del ghetto, visitato con una guida d’eccezione
ghetto
(e ho visto anche la casa in cui viveva la famiglia di Settimia Spizzichino, e le pietre d’inciampo lì di fronte) e la mostra dell’artista israeliano Tsibi Geva al Macro Testaccio
Tsibi Geva
rete
e il famoso gazometro
gazometro
(quell’orrendissima faccia da schiaffi è colpa della fotografa, della quale prima o poi mi vendicherò, sappiatelo, e sappialo anche lei)

Poi devo fare una segnalazione, e chi ha orecchie da intendere sicuramente intenderà: RISTORANTE L’ARCHEOLOGIA, Appia Antica 139: posto stupendo, cucina straordinaria, servizio impeccabile, prezzi sostenuti ma non insostenibili.
E infine bisogna che racconti del taxi: quando sono salita stava andando una serie di brani di Ludovico Einaudi, per il quale ho espresso il mio vivo apprezzamento, cosa che il tassista ha gradito. Poi ha deciso di farmi sentire la canzone di Hobbit, e dato che ho detto che non ho visto i film e non conoscevo la storia, prima di farmi sentire la canzone me l’ha raccontata. Io ho trovato, nella storia e poi anche in alcuni passaggi della musica, una certa somiglianza con Exodus: lui non conosceva quella storia lì e io gliel’ho raccontata. Quando siamo arrivati, invece di 48 euro, tariffa fissa da Ostiense a Fiumicino, me ne ha chiesti 42.
(Senza dimenticare un grazie all’angelo custode che spunta regolarmente dal nulla a raccattarmi e portarmi in salvo ogni volta che mi perdo e non so più dove sono)


barbara

DANIEL IL MATTO

Gli amici di più vecchia data hanno già avuto il piacere di leggere tre chicche in anteprima (uno, due, tre): erano i primi tre racconti nati dalla fertile mente di un autore non giovanissimo ma di straordinaria freschezza. Poi il malloppo si è arricchito di altre storie, e ora è diventato un libro. Io l’ho letto, e vi posso assicurare che i racconti successivi sono assolutamente all’altezza dei primi (e se ve lo dico io, voglio proprio vedere chi si azzarda a non fidarsi!): tutti ambientati nel ghetto della Roma papalina del XVIII secolo, con il bizzarro e geniale scriba Daniel come protagonista e l’intera corte di comprimari e comparse che gli ruota attorno, dalla moglie bellissima e dal piglio deciso alle non sempre limpidissime autorità all’onnipresente clero alla miserevole folla degli ebrei sempre oppressi e tuttavia forti nella difesa della propria identità.
Insomma, secondo me dovreste proprio leggerlo, e se non vi fidate, tanto peggio per voi: non sapete cosa vi perdete!

Mario Pacifici, Daniel il matto, Opposto
daniel il matto
barbara

(PS: noi ci rivediamo venerdì 17: conto sull’altrui superstizione per trovare strade e autostrade ragionevolmente sgombre)

16 OTTOBRE, 70 ANNI FA

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L’ho già ricordato, gli anni scorsi, qui, qui e qui. Oggi lo voglio ricordare con un articolo dell’anno scorso.

Il rastrellamento del 16 ottobre, la codardia dietro a tanto orrore

Come ricordare, a 69 anni di distanza, la deportazione di oltre mille romani. La Provincia consegnerà i documenti ritrovati sugli oltre 350 bambini ebrei romani deportati

di Paolo Fallai

Roma – Non ci sarà quest’anno Shlomo Venezia e sono ormai dodici anni da quando ha chiuso gli occhi Settimia Spizzichino, l’unica donna sopravvissuta al rastrellamento dei nazisti al Ghetto di Roma: il 16 ottobre 1943, una delle pagine più vergognose nella storia della nostra città, perde i testimoni, ma non smette di sanguinare. È una ferita che va oltre l’orrore per gli oltre mille deportati nei campi di concentramento: solo 16 tornarono a casa. E tra loro neanche uno dei duecento bambini strappati al loro futuro. Quel sabato «nero» ha superato il senso umano del limite fin nelle premesse: il ricatto di Kappler che costrinse le famiglie ebree a raccogliere 50 chili d’oro con la promessa di una salvezza che non fu mai nemmeno una ipotesi.
La collaborazione infame dei fascisti romani alla deportazione. Le ignobili delazioni, per cinquemila lire, che portarono i carnefici ad allungare la lista dei condannati. Il silenzio e la viltà di tutti quelli che rimasero a guardare, sapendo fin troppo bene cosa stava succedendo. Come ha scritto su queste colonne Mario Marazziti «l’ampiezza e la scientificità della deportazione degli ebrei romani, come nel resto d’ Italia, non sarebbe stata possibile senza il censimento nazionale degli ebrei disposto dal fascismo nel 1938 e senza le leggi razziali».
Questa è la vergogna che ci portiamo ancora sulla pelle, e che abbiamo il dovere morale di ricordare, a sessantanove anni di distanza. Con un peso così ingombrante anche il «come» diventa importante: la sera del 16 ottobre ci sarà la Fiaccolata organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio. Alle 11 presso il Palazzo della Cultura, (via del Portico d’Ottavia 5) per iniziativa della Provincia avverrà la consegna alla comunità ebraica dei documenti ritrovati sugli oltre trecentocinquanta bambini ebrei romani deportati dai nazisti tra il 16 ottobre 1943 e la primavera del 1944, conservati presso gli archivi dell’International Tracing Service di Bad Arolsen (Germania).

(Fonte: Corriere della Sera, 14 Ottobre 2012, qui)

15.10.13
Immagine presa ieri sera al termine della marcia silenziosa durante la quale sono stati letti i nomi dei deportati: 1024+1: l’ultimo, partorito da Marcella Perugia il 17 ottobre, durante la detenzione al Collegio Militare, è rimasto senza nome.

barbara

AGGIORNAMENTO: se vi annoverate fra gli amanti delle scienze esatte, apprezzerete sicuramente questo commento di un illustre matematico che dottamente ci spiega che l’esistenza delle camere a gas è una questione di opinione, dal momento che tutto ciò che abbiamo in mano è quanto ci è stato fornito dal ministero della propaganda alleato.

UN GIORNO SOLO, TUTTA LA VITA

Al tavolo principale, i due nonni ancora viventi di Jason ed Eleanor furono presentati l’uno all’altra per la prima volta. Anche in questa circostanza il nonno dello sposo si sentì travolto dall’immagine della donna che gli stava di fronte: decenni di distanza la separavano dalla nipote, ma aveva un aspetto familiare. Lui lo percepì immediatamente, dall’istante in cui la guardò negli occhi.
«Io l’ho già vista» riuscì infine a dire, benché avesse ormai la sensazione di parlare a un fantasma, non a una persona appena incontrata. Il suo corpo reagiva in una maniera viscerale che non comprendeva affatto; si rammaricò di aver bevuto un secondo bicchiere. Gli si rivoltava lo stomaco. Aveva il fiato corto.
«Temo che si sbagli» disse garbatamente la donna. Non voleva apparire scortese, ma anche lei aveva atteso con ansia per mesi le nozze della nipote, e non voleva essere distratta dai festeggiamenti della serata. Mentre osservava la ragazza che fendeva la folla, le molte guance che le si rivolgevano per un bacio e le buste premute in mano sua e di Jason, dovette darsi un pizzicotto: sì, era tutto vero, e lei era ancora viva per vederlo.
Ma quel vecchio lì accanto non si arrendeva.
«Sono abbastanza certo di averla già vista da qualche parte» ripeté.
Lei si voltò e a quel punto gli mostrò anche più chiaramente il viso. La carnagione di piuma. I capelli d’argento. Gli occhi azzurro ghiaccio.
Ma fu l’ombra di un qualcosa di bluastro, sotto il tessuto trasparente della manica, a fargli correre un brivido nelle vene stanche.
«La sua manica…» Il dito che si tese a sfiorare la seta tremava.
Lei fece una smorfia quando lui le toccò il polso, il disagio ben visibile in volto.
«La sua manica, posso?» Si stava comportando in maniera maleducata, e lo sapeva.
Lei lo guardò dritto in faccia.
«Potrei vedere il suo braccio?» ripeté lui. «Per favore.» In tono quasi disperato, stavolta.
Lei ormai lo fissava, gli occhi piantati negli occhi.
Come in trance, si tirò su la manica. Sull’avambraccio, accanto a un piccolo neo bruno, c’erano sei numeri tatuati.
«Adesso ti ricordi di me?» chiese lui, tremante.
Lei lo squadrò di nuovo, come rivestendo di carne e ossa uno spettro.
«Lenka, sono io» disse lui. «Josef. Tuo marito»

Oltre sei decenni di separazione. E in quei decenni la guerra, le deportazioni sui carri merci, i campi, le marce della morte, il disperato tentativo di sopravvivere, le notizie errate che fanno credere ad entrambi che l’altro sia morto, il faticoso ricostruirsi una vita. La pagina che ho riportato sopra è l’inizio del libro: quello che segue è la ricostruzione, in parallelo, di quanto avvenuto fino a quel momento.
Molti gli eventi autentici inseriti in questo romanzo, come quello degli artisti di Terezin, il “ghetto modello”, la “città che Hitler ha regalato agli ebrei”: mentre eseguivano i lavori commissionati dai tedeschi, riuscivano ad eseguire anche numerosi disegni che documentavano la realtà del campo, rubando a rischio della vita – e molti infatti l’hanno persa per questo – frammenti di tela e di carta, mozziconi di matita o di carboncino, e nascondendoli poi in barattoli che venivano sepolti, e recuperati dopo la liberazione. Come Leo Haas
Haas
Haas 2
e altri.
terezin
terezin 2
E molti anche i personaggi autentici.
Quando hai letto le prime tre pagine sai già che entrambi i protagonisti sono sopravvissuti, sai già che alla fine riescono a ritrovarsi: non hai dunque l’ansia del “come va a finire”. E tuttavia non è un libro di cui puoi dire lo leggo un po’ alla volta che adesso ho altro da fare: come lo prendi in mano devi proprio continuare a leggere fino alla fine.
E ricorda sempre che le camere a gas non sono mai esistite
Zyklon B 1
Zyklon B 2
e che l’antisemitismo è un’invenzione. Assolutamente (da oggi, comunque, ce n’è uno in meno)

Alyson Richman, Un giorno solo tutta la vita, Piemme
Un-giorno-solo
barbara

ROMA, 5 APRILE 1775

EDITTO SOPRA GLI EBREI

Essendo prima cura pastorale fra quelle che occupano l’animo di Sua Santità nostro Signore fin dal principio del suo pontificato, quella di preservare intatta ne’ credenti la Fede Cattolica, per rimuover da essi la minaccia di perdizione, cui un’eccessiva familiarità con gli Ebrei potrebbe indurre,  ha stimato doversi seriamente provvedere, perché siano rigorosamente attese senza indugio le Disposizioni date da’ suoi gloriosi predecessori, in particolare considerando la sollecitudine della san[ta]. mem[oria]. di Clemente XII nel speciale Editto dato in questa Venerabile città di Roma li 17. Febbraio 1733., non meno che di Benedetto XIV in analogo Editto esso pure dato in questa Veneranda città li 17. Settembre 1751. E nuovamente udito al caso il parere de’ Venerabili signori Cardinali, Inquisitori e Generali [di ordini religiosi], Egli ha ordinato che il medesimo venga rinnovato, affinché questo istesso abbia esecuzione con la massima diligenza in ogni luogo del suo Stato Pontificio.

I. Innanzi a tutto Sua Santità, con espressa e ferma menzione della Disposizione seconda di Innocenzo IV., che principia con le parole = Impia Iudaeorum = comanda e dispone, che gli Ebrei non possano in alcun modo tenere in Casa, leggere, comprare, scrivere, copiare, volgere, vendere, dare in dono, o in altro modo, sotto qualsiasi pretesto, o titolo, o scusa, cedere un Libro o empi codici Talmudici o altrimenti sacrileghe e superstiziose opere Cabbalistiche, o Scritti che contengono errori contrari al tenore della sagra Scrittura o dell’Antico Testamento, o in genere quelli Scritti ne’ quali si rinvengono contumelie, empie espressioni e blasfemie contro i santissimi Misteri della Fede Cristiana, in particolare la santissima Trina Unità del nostro Signore Gesù Cristo, la perpetua Verginità di Maria, o i Santi. E ciò valga anche per qualsivoglia altro Libro proibito dalla Disposizione ventiquattresima della san. mem. di Giulio III de’ 29. Maggio 1554., che incomincia con le parole = Cum sicut = , e da quella data da Clemente VIII li 28. Febbraio 1593., che principia con le parole = Cum Hebraeorum = , e ancora da altre disposizioni e decreti Apostolici, siano gli  istessi Libri scritti in lingua ebraica, o in altro idioma, sotto pena della perdita de’ detti Libri, della confiscazione de’ Beni, e di altre gravissime corporali ad arbitrio, in ogni caso di contravenzione, a tenore del decreto della sagra Congregazione del S. Offizio dato li 12. Settembre 1553., e a discrezione di Sua Santità soccombano a tali pene anche quei Rabbini e Fattori degli Ebrei che ritengano i detti Libri nelle loro Biblioteche o in qualsivoglia altro luogo ad uso pubblico o privato.

II. Che non ardisca ciascheduno Ebreo di esporre, spiegare o insegnare gli errori di detti Libri, né in pubblico, né in privato, né nelle Scuole, né fuori di esse, a una qualsivoglia Persona di religione Ebraica, Cristiana, o altra, sotto eguale pena della perdita de’ Libri, della confiscazione de’ Beni, e di altre gravissime corporali ad arbitrio.

III. Che niun Stampatore, Libraio o Bottegaio Cristiano, o altra Persona di qualsiasi stato, grado, e condizione possa soccorrere agli Ebrei, con il consiglio, od opera nella attuazione di tali Libri, o prestar aiuto nel scriverli, stamparli, volgerli o tradurli, e neppure adoprarsi per conseguire la licenza di leggerli, o possederli, sotto pena della perdita de’ Libri, della confiscazione de’ Beni e di altre gravissime corporali, secondo il sopradetto Decreto della sagra Congregazione del S. Offizio de’ 12. Settembre 1553., e parimente sotto pena di scomunica latae sententiae [= automatica, senza che debba essere decretata esplicitamente] riservata al Sommo Principe della Chiesa.

IV. Che gli Ebrei non possano comprare, o accettare alcun Libro scritto in lingua Ebraica, o dall’Ebraico volto in altro idioma, tanto da Ebrei quanto da Cristiani, neppure in caso che esso sia stato ad essi mandato, o portato, senza che prima l’abbiano sottomesso al Maestro del sagro palazzo Apostolico in Roma, e in altri luoghi, o città a’ Vescovi, o Inquisitori locali, sì che eglino possano accertare, se a tenore delle Disposizioni vigenti, e delle predette ordinazioni Apostoliche, si possa dar loro licenza di accettarlo, e di trattenerlo, il tutto sotto pena di scudi cento e di carcere settennale in ogni caso di contravenzione; e in caso che venga scoperto un qualunque Libro che contenga alcuna cosa contrastante alle predette bolle e decreti Apostolici, in particolare alla sopradetta Bolla di Clemente VIII., esso non sia restituito agli Ebrei, ma consegnato al Tribunale del S. Offizio, e parimente si proceda quando si scopra un qualunque altro Libro interdetto agli Ebrei.

V. Che  Ebrei non possano far uscire dalla Dogana o introdurre per la medesima alcun Libro senza licenza del Maestro del sagro Palazzo in Roma, e dei Vescovi, o Inquisitori locali in altre città, e luoghi sotto pena della perdita del Libro, di scudi cento, e di carcere settennale, e a tali pene soggiacciano anche  Uffiziali di Dogana Cristiani che concorrano a far uscire o introdurre i predetti Libri, e parimente tutti coloro che vi concorrano con l’ajuto, o il consiglio.

VI. A tale oggetto ordiniamo al Maestro del sagro Palazzo, e parimente a’ Vescovi, o Inquisitori suddetti, che ponghino ogni loro cura, e diligenza nel far che nessun Libro, che riguarda gli Ebrei, in particolare in caso che sia scritto in lingua Ebraica, venga fatto uscire, o entrare senza loro espressa licenza, e a tale scopo essi ispezionino le Dogane e i Carri che scaricano i Libri presso le porte.

VII. È fatto divieto a ciascheduno Cristiano, e in particolare a’ Doganieri, Corrieri, Uffiziali di Posta, Carrettieri, e Trasportatori di qualunque specie per acqua, e per terra di consegnare alcun Libro agli Ebrei senza la previa licenza del Maestro del sagro Palazzo in Roma, e fuori di essa de’ Vescovi, o Inquisitori locali, a’ quali dunque subito dopo l’arrivo devono dar notizia ed elenco di ogni Libro sotto pena di scomunica Iatae sententiae riservata come sopradetto al Papa, e di altre pecuniarie, e corporali ad arbitrio, e alle

medesime soggiacciano in sé e per sé anche quelli, cui è stato mandato uno de’ Libri suddetti.

VIII. A tenore della mentovata Bolla di Clemente VIII. si vieta, e si proibisce a qualsisia Persona di qualunque grado, stato, e condizione riferita in detta Bolla, che qui si abbia per espressa, di concedere alcuno Indulto, licenza, o facoltà contraria alle Disposizioni della medesima Bolla, ed in caso che sia già stata conceduta, si dichiara nulla, e di niun valore, in forma tale, che  Ebrei soggiacciano alla pena, come se non l’avessero mai ottenuta, né impetrata.

IX. Che gli Ebrei non facciano, né compongano, né insegnino fattucchierie, incantesimi, auguri, sortilegi, Insalmazioni, o altri Atti, che importino superstizioni, per venire in cognizione delle cose occulte, o future, tanto ai Cristiani, che agli Ebrei stessi, sotto pena di scudi Cento, della Frusta, e della Galera in vita secondo le circostanze de’ delitti, in conformità di quanto viene ordinato nella Costituzione 70. della san. mem. di Gregorio XIII. che comincia = Antiqua Iudaeorum = , e le medesime pene s’incorrano ancora dai Cristiani, che imparassero dagli Ebrei i sopradetti Atti superstiziosi, o che ad essi ricorressero per rintracciare scioccamente le cose occulte, o future.

X. Si proibisce a qualsisia Argentiere Cristiano di formare per uso degli Ebrei alcuni Amuleti, o Brevetti, che sogliono gli Ebrei suddetti mettere addosso a’ loro Bambini, per preservarli dalle infestazioni delle Streghe, o da altri Maleficj, e specialmente quelli, che hanno la figura di Mandorla, o di Nocchia , e ne’ quali vi è impresso da una parte il nodo di Salomone, e dall’altra il Candelabro con sette lucerne, o altri simili vani Geroglifici, perché essendo questi superstiziosamente interpretati dagli Ebrei, non è convenevole, che gli Artefici Cristiani in alcuna maniera vi concorrano, e ciò sotto pena agl’Argentieri di scudi venticinque.

XI. Che gli Ebrei, anche secondo i Decreti degli 8. e 23. Ottobre 1625. non possano apporre, o far apporre ne’ loro Sepolcri lapide, o iscrizione veruna, e perciò s’intende in avvenire proibito ad ognuno di conceder licenza di apporre tali lapidi, o iscrizioni sotto pena della demolizione de’ Sepolcri, di scudi cento, di Carcere, e di altre maggiori ad arbitrio.

XII. Che gli Ebrei nel trasportare i Cadaveri non usino alcun Rito, ceremonia, o pompa funebre, e specialmente si astengano dal salmeggiare, e portare Torcie, e lumi accesi per la Strada sotto pena di scudi cento, della perdita della Cera, e sotto altre pene Corporali ad arbitrio, alle quali soggiaceranno i Fattori, ed i Parenti più prossimi del Defonto; ma solamente sia loro permesso di accendere lumi, e di usare i loro soliti Riti, e pompa funebre, tanto nella Sinagoga, quanto nel luogo della Sepoltura, purché in alcuno de’ predetti luoghi non sia presente alcun Cristiano di qualunque sesso, e condizione, sotto le pene predette da incorrersi tanto da’ Fattori, o altri Ebrei, che permetteranno l’accesso a’ Cristiani, quanto dai Cristiani, che interverranno a questa cerimonia, o Rito degli Ebrei.

XIII. Che a tenore di quanto viene prescritto così dal Gius Civile nella Leg. fin. Cod. de Judaeis, come dal Gius Canonico nel cap. Judaei 3., e Consuluit 7. de Judais, & Saracenis, e dalle Costituzioni della san. mem. di Paolo IV. = Cum nimis = 3., di S. Pio V. = Romanus Pontifex = 6., e di Clemente VIII. = Caeca, & obdurata = 9., oltre alle Sinagoghe, che colle dovute facoltà dagli Ebrei frequentemente si tengono, non se ne possa accrescere altra dentro i Ghetti, né quelle ornare, o ampliare in modo alcuno, e molto meno tenerne altre fuori de’ Ghetti medesimi, sotto pena di scudi cento, di Carcere, e di altre gravissime &c.

XIV. Che non possa alcun Ebreo, di qualsisia sesso, stato, e condizione andare, né accostarsi per lo spazio di trenta Canne [= 70 metri circa] alle Case de’ Catecumeni, né al Monastero della SSma Annunziata in Roma, né per sé, né per interposta persona sotto la pena di scudi trecento, della Galera, e di altre Corporali ad arbitrio.

XV. Che non possa alcun Ebreo sotto qualsivoglia pretesto ritenere nella propria Casa, Abitazione, o Bottega alcun Neofito, o Catecumeno, tanto maschio, che femmina, benché fosse in primo grado di consanguinità, o affinità congiunto, e molto meno possa mangiare, bere, dormire con veruno di essi, né dentro, né fuori de’ Ghetti, né in alcun altro luogo, né lavorare con alcuno di loro, né starvi per lavorante, né praticarvi, né conversarvi per qualsisia occasione sotto le pene di scudi cinquanta, e di tre tratti di corda in pubblico.

XVI. In caso che gli Ebrei non solo inducano, ma tentino ancora d’indurre con parola, o promesse, o in qualunque altro modo, tanto direttamente, che indirettamente da per sé, o per mezzo di altri i Neofiti, o Catecumeni, o qualsisia altra Persona a giudaizzare, incorrano subito nella pena della Carcere, della confiscazione de’ Beni, ed in altre imposte dalle costituzioni Apostoliche di Clemente IV. la 14., di Gregorio X. la 3., di Niccolò IV.

XVII. Se alcun Ebreo di qualunque sesso ardirà dissuadere, o impedire in qualsisia modo la conversione alla Santa Fede di qualche Ebreo, o Catecumeno, o di fargliela anche per brevissimo tempo differire, incorra subito nella pena della Galera, e nella confiscazione di tutti i beni, ed in altre arbitrarie secondo ciò che viene prescritto nelle dette Costituzioni di Clemente IV., Gregorio X. e Niccolò IV., che tutte principiano = Turbato corde = , con espressa dichiarazione, che debbano alle medesime pene soccombere quelli, che  presteranno in ciò ajuto, opera, consiglio, o favore. Le Donne poi Ebree invece della Galera, incorreranno nella pena della Frusta, dell’Esilio, ed in altre più gravi ad arbitrio, secondo le circostanze del delitto.

XVIII. Che più d’ogni altro siano tenuti all’osservanza delle sopradette cose i Fattori degli Ebrei, e specialmente ad in vigilare che non sia trafugato, occultato, o pervertito alcun Catecumeno Ebreo dell’uno, e dell’altro sesso, che abbia mostrato, mostri, o sia per mostrare volontà, o inclinazione di farsi Cristiano, come pure che non venga trafugato, o occultato alcun Ebreo, che dovesse trasportarsi alla Casa de’ Catecumeni a tenore de’ Decreti Pontificii, e particolarmente di quello della san. mem. di Benedetto XIII. de’ 16. Agosto 1724., nemmeno col pretesto, che non vi concorra il consenso de’ loro Genitori, e Parenti, e seguendo alcuni di detti casi, siano tenuti i Fattori a farlo riportare, o ricondurre, altrimenti siano multati colla gravatoria continua fino a che non resti effettuata la restituzione, o ritorno della Persona trafugata, o nascosta, o pervertita, ed inoltre soggiacciano alle pene pecuniarie, di carcere o di altre gravissime ad arbitrio.

XIX. Quando sia offerto alla Chiesa qualche Ebreo per esser Battezzato, non possano gli Ebrei in alcun modo molestare, o fare veruna ingiuria tanto all’Oblatore, che all’Oblato, particolarmente mentre staranno in Ghetto, sotto gravissime pene pecuniarie, o corporali ad arbitrio, e sia cura di Monsignor Vicegerente in Roma, e fuori di essa de’ Vescovi, o Inquisitori locali, subito che averanno notizia, o almeno qualche probabile congettura dell’offerta, procurare con tutta sollecitudine che l’Offerente, e l’Offerto non rimangano presso gli Ebrei.

XX. Che in esecuzione della Bolla di Paolo IV. che principia con = Cum nimis = , rinovata da S. Pio V. nella Costituzione = Romana Pontifex = data in Roma li 20. Maggio 1566., debbano gli Ebrei dell’uno, e dell’altro sesso portare il segno di color giallo, per cui vengano distinti dagl’altri, e debbano sempre portarlo in ogni tempo, e luogo, tanto dentro i Ghetti, quanto fuori di essi, e tanto in Roma, e ne’ luoghi abitati, quanto fuori, cioè, gli  Vomini debbano portarlo sopra il Cappello ben cucito sopra, e sotto la falda, senz’alcun velo, o fascia, se non in caso che fosse dell’istesso colore, e le Donne lo debbano portare in Capo scopertamente, senza mettervi sopra il Fazzoletto, o altra cosa con cui venga nascosto, sotto pena agli uni, ed alle altre di scudi cinquanta per ciascheduna volta, e di altre ad arbitrio, e a tale oggetto si ordina agli Ebrei sotto le stesse pene, che non portino altro Cappello che quello proprio col segno giallo, a riserva però de’ Cappelli da vendersi, quali debbano portare scopertamente in mano, e non in capo. Si permette però, che  Ebrei, tanto Vomini, che Donne, vadano senza il detto segno in caso che siano attualmente in viaggio, fuorché in caso che non più d’un giorno si trattengano in qualunque luogo, che se più del predetto tempo si trattenessero in qualsisia luogo, soggiacciano alle sopradette pene.

XXI. Su speciale comando del nostro Signore si sappia, che in futuro non avrà più alcun valore veruna licenza oltre quanto concesso, o disposto agl’Ebrei in conformità della prescrizione della predetta Bolla di Paolo IV., da qualsisia Tribunale, o Prelato o alto Uffiziale essa provenga, ancora che Presidente, e pure il Vescovo di Avignone, il Maestro del sagro palazzo Apostolico, il Cardinale Legato o Camerlengo di santa Chiesa, sotto pena di dichiarazione di nullità della mentovata licenza, in forma tale che  Ebrei soggiacciano alla pena, come se non l’avessero mai ottenuta. E in caso che qualsisia Uffiziale Subalterno ardisca pur anche a voce concedere siffatta licenza del non portare il segno, sia il medesimo punito ad arbitrio, e subito deposto dal suo uffizio, o incombenza, nel far che gli esecutori si guardino dal risparmiarlo sotto comminazione delle pene per i contraventori.

XXII. Gli Ebrei non possano distribuire, rimettere, donare, o vendere alcuna Carne di qualsivoglia specie, che essi hanno mattato, o fatto mattare sotto pena di scudi cento, o di carcere ad arbitrio, e viceversa i Cristiani non possano a lor volta, né accogliere, né comprare la medesima sotto pena di scudi venti, e di carcere, similmente ad arbitrio.

XXIII. In simil modo non possano gli Ebrei rimettere, donare, o vendere a’ Cristiani Pane Azzimo, detto volgarmente «Azzimelle », sotto pena di scudi cinquanta, e viceversa i Cristiani non possano accoglierlo sotto medesima pena.

XXIV. Essendo notorio, che gli Ebrei non contenti di comprare da’ Cristiani il Latte per la loro bisogna e uso ancor lo comprano in assai maggiori quantità che altrimenti usino, onde dipoi venderlo, e farne mercato, e far commercio co’ Cristiani, sia proibito sotto le istesse pene agli Ebrei comprar più Latte che non si voglia a coprir la loro bisogna, e il medesimo né elargire, né vendere a’ Cristiani, o in qualsisia altro modo cedergli ancor che esso sia tramutato in formaggio o in altre sorte di Latticini, e similmente a’ Cristiani [sia proibito] accogliere il medesimo sotto comminazione delle medesime pene.

XXV. Non sia in alcun modo permesso agli Ebrei, né da per sé, né per mezzo di altri, sotto qualsivoglia pretesto, o scusa comprare, o vendere Agnus Dei, o Reliquie de’ Santi, o farne commercio, né de’ medesimi insieme con ornamenti, né de’ medesimi senza di questi, né [far commercio] di Croci, Calici, Dipinti, Figure, o Immagini del nostro Signore Gesù Cristo, della Santa Vergine, o de’ Santi, né d’oggetti d’uso ecclesiastico, Breviari, Tovaglie d’Altare, Coperture d’Altare, od Ornamenti d’Altare, o di qualsisia altro oggetto che riguardi il sagro Culto, e neppur [far commercio] di Libri, ancor che i medesimi siano di contenuto profano, ne’ quali incorrano Figure sagre, pur se tutte le predette cose siano guaste, e lacerate, o ancor che si voglia usarne solo per bruciarle, e trarne il loro oro, o argento sotto pena di scudi duecento, e di galera, e i Cristiani che vendano qualsisia dei sopradetti oggetti agli Ebrei soggiacciono non oltre che alla pena di scudi duecento.

XXVI. Che gli Ebrei non possano, né da per sé, né per mezzo di altri, praticar Commerci, Affari, Banca, o Società in qualunque modo con Neofiti, o Catecumeni sotto pena di dichiarazione di nullità del Contratto, e di scudi cinquanta, di tre tratti di corda in pubblico, e di altre ad arbitrio.

XXVII. Che, a tenore della Disposizione 6. di S. Pio V., e del Decreto di Alessandro VII. de’ 10. Luglio 1659., essi non possano possedere Officine, Depositi di Tessuti, Fondachi, o Stallaggj fuori di Ghetto, e se non in caso di speciale scopo, o particolare necessità i Vescovi locali concedangli l’analoga licenza, ma per soli luoghi non molto discosti dal Ghetto, e però mai in luoghi pubblici, e a condizione che essi non vi pernottino, o ancora non tengano adunanza con Cristiani o pur con Ebrei, ma attendano se non al loro mestiere sotto pena di scudi cinquanta, e di altre Corporali ad arbitrio, e della perpetua perdita de’ detti Fondachi, Officine, Depositi, e Stallaggi.

XXVIII. Che gli Ebrei non possano invitare alcun Cristiano nelle loro Sinagoghe, e molto meno introdurlo nelle medesime, e viceversa che non sia mai permesso a’ Cristiani di entrare nelle medesime sotto pena di scudi cinquanta, tanto per  uni, che per gli altri.

XXIX. Che a tenore di quanto viene prescritto nella Leg. fin. Cod. de Judaeis ne’ cap. 16. e 18. (cod. tit.) e nel Decreto di Benedetto XIV. de’ 26 Agosto 1743.,  Ebrei non possano né in nome proprio, né di qualunque Cristiano o altra Persona possedere, o trasmettere Locazione, Affitto, o ancor che privata Società di Beni di qualsivoglia specie, e comunque avvenga, ancor che con la Reverenda Camera Apostolica, né possano essi prestare il loro Nome o Cittadinanza, o ancora avere una qualsisia insignificante parte in quelli, sotto la pena della perdita di quel istesso importo pel quale siano convenuti nel Contratto di Locazione, o di Affitto, alla quale [perdita] sono sottoposti pel fatto stesso della dichiarazione di nullità di Contratti analoghi, e sotto altre [pene] ad arbitrio; onde a’ Cristiani è stato di già comandato di trattenersi dall’avere simili negozi colli Ebrei sotto le medesime pene sopradette.

XXX. Che secondo quanto fu prescritto nel cap. Ad haec 8., e nel cap. Et si Judaeos 13. de Judaeis, e nella Disposizione seconda della san. mem. di Innocenzo IV., e nella terza della san. mem. Di Paolo IV.,  Ebrei non possano prevalersi di veruna Levatrice, o Nutrice Cristiana sotto pena di scudi cento, e di carcere ad arbitrio, e che parimente le Donne Cristiane non possano servir di Levatrice, o di Nutrice agli Ebrei sotto pena di scudi cinquanta la prima volta, mentre la seconda volta si aggiunga la frusta, alle quali pene soggiacciano anche i Mariti, tanto Cristiani che Ebrei, per le loro Mogli.

XXXI. Che a tenore di quanto fu prescritto nella Leg. Unica Cod. Ne Christianum Mancipium Haereticus, vel Judaeus, vel Paganus habeat, e ne’ cap. 2., 5., 8., e 13. de Judaeis, e parimente anche nella mentovata Disposizione seconda di Innocenzo IV., nella terza di Paolo IV. (par. 4), ne’ Decreti della sagra Congregazione de’ 14. Febbraio 1606., e de’ 15. Marzo, e 17. Maggio 1612., 12. Ottobre 1627, e 20. Ottobre 1652., gli Ebrei non possano ritenere alcun Cristiano per servitore o donna di Casa, e che essi se non per brevissimo tempo possano servirsi dell’uno, o dell’altra per la pulizia del Ghetto, per appiccare il fuoco, lavare gli abiti, o prestare qualunque opera servile sotto pena di scudi venticinque, ed altre corporali ad arbitrio, e perciò s’ingiunge a’ Padri di Famiglia, Tutori, o Curatori Cristiani di proibire a’ Figliuoli, ed a’ Fanciulli posti sotto la loro direzione di prestare agli Ebrei tali servigii, altrimenti si procederà contro di loro alle pene arbitrarie.

XXXII. Che secondo le proibizioni contenute nella Bolla della san. mem. di Paolo IV. la 3., e nella 6. di S. Pio V., e nella 19. della san. mem. di Clemente VIII., che incomincia = Caeca, & obdurata = gli Ebrei non giuochino, né mangino, né bevano, né abbiano altra familiarità, o conversazione con i Cristiani, né questi con essi tanto ne’ Palazzi, Case, o Vigne, che nelle Strade, Ostarie, Bettole, Botteghe, o altrove, e  Osti, Bettolieri, e Bottegaj non permettano la conversazione tra’ Cristiani, ed Ebrei, sotto pena agli  Ebrei di scudi dieci, e del Carcere ad arbitrio, ed a’ Cristiani di scudi dieci, e di altre corporali ad arbitrio.

XXXIII. Non ardiscano  Ebrei di lavorare in Ghetto, a tenore ancora della Costituzione 3. di Paolo IV. al par. 5. ne’ giorni festivi di precetto commandati dalla Chiesa, se non a porte chiuse, ed in niuna maniera fuori di Ghetto, nemmeno nelle Case de’ Cristiani di qualsisia stato, grado, condizione sotto pena di scudi cinquanta, e di tre tratti di corda ad arbitrio, e alla medesima pena di scudi cinquanta siano sottoposti i Cristiani, che permetteranno in tali giorni agli Ebrei il lavorare nelle loro case, incaricando li Confessori di seriamente ammonire, e riprendere i Penitenti, che ardissero permetterlo, per lo grave scandalo, che da ciò ne deriva.

XXXIV. Gli Ebrei di qualsivoglia sesso, ed età non possano andare in Carrozza, né in Calesse per Roma, né fuori sotto pena di scudi cento, e di Carcere, e di altre corporali ad arbitrio, ma solamente in caso di viaggio sia loro permesso di andare a cavallo, o in Calesse, e non altrimenti.

XXXV. Non possa alcun Ebreo, o Cristiano servire di Cocchiere, o di Vetturino agli Ebrei, fuorché in caso come sopra di viaggio, sotto pena di scudi cinquanta, e di tre tratti di corda, e sotto le medesime pene non possa alcun Cristiano prestare, dare a vettura, o fare accomodare Carrozze, o Cocchi agli Ebrei dell’uno, e dell’altro sesso, e molto meno condurli seco in Carrozza, o Cocchi.

XXXVI. Non possa alcun Ebreo pernottare fuori del Ghetto, e perciò debba ciascuno ritirarsi in Ghetto verso l’un’ora di notte, e la mattina non possa uscire prima del giorno sotto pena di scudi cinquanta, e di tre tratti di corda in pubblico agli Vomini, e della frusta alle Donne, e perciò sia incombenza de’ Portinari il non fargli entrare, o uscir dal Ghetto, se non nelle ore stabilite, e di non introdurvi Cristiani nel tempo, che  Ebrei sono rachiusi. Ed inoltre comandiamo all’Università degli Ebrei, che paghino ai Portinari l’intera provisione senza veruna diminuzione, non volendo che eglino siano tenuti a contribuirne parte veruna a chi che sia per qualsivoglia titolo, ragione, o causa; si guardino però li Portinari di prendere alcuna mancia, o ricognizione dall’Università, o dagli Ebrei in particolare, a riserva delle mancie solite darsi ne’ tempi proprj sotto pena di scudi 50., di carcere ad arbitrio, e della privazione dell’Uffizio.

XXXVII. Gli Ebrei dell’uno, e dell’altro sesso non possano abitare fuori del Ghetto, e star nelle Ville, Terre, Castelli, Tenute, Procoj [= recinti per il bestiame nella campagna romana], o altrove per qualunque pretesto, ancora per quello della necessità di mutar aria, e quando gli occorrerà andar fuori, e starvi ancora per un sol giorno, procurino, secondo il Decreto della Sagra Congregazione de’ 19. Maggio 1751., in conferma di altro simile di Alessandro VII. de’ 6. Settembre 1661., ottenerne l’opportuna licenza in iscritto, in cui oltre le altre cose si dovranno esprimere il nome, cognome, ed origine dell’Ebreo, la cagione legittima per cui è stata conceduta, il tempo che dovrà durare colle clausole, che debbano gli Ebrei portare il segno al Cappello, come si è detto di sopra al Cap. 20, che non coabitino co’ Cristiani, né conversino familiarmente co’ medesimi, e che ritornati restituiscano al Tribunale, onde l’averanno conseguita, la licenza ottenuta sotto le pene di scudi trecento, di carcere, ed altre arbitrarie in caso di ciascheduna contravenzione.

XXXVIII. In caso che gli Ebrei vogliano andare alle Fiere, siano parimente obbligati ottenere la licenza in scriptis o dal Vescovo, o dall’Inquisitore, o Vicario locale senza emolumento veruno, e tre giorni dopo terminate le medesime a tenore del Decreto de’ 21. Giugno 1747., debbano immediatamente partire, senza che o dal Vescovo, o Inquisitore, o Vicario locale predetti possa concedersi loro ulterior dilazione. Questa licenza però non dovrà suffragargli, se subito giunti  Ebrei al luogo destinato non la presenteranno al Vescovo, Inquisitore, o loro Vicari, o se questi per gravi, e giuste cause crederanno di non doverla attendere, o di doverla restringere, e limitare nel tempo, come da altro Decreto de’ 17. Febbraio 1751. Ritornati poi che saranno si dovrà da loro restituirsi subito la licenza al Tribunale, onde l’avranno ottenuta, il tutto sotto le pene della perdita de’ loro beni, di carcere, e di altre ad arbitrio.

XXXIX. Non sia permesso agli Ebrei entrare ne’ Parlatorj di Monasteri di Monache, né de’ Conservatori [= istituti religiosi di istruzione per le giovinette], né parlare con alcuna Persona in tali luoghi esistente, e nemmeno entrare nelle Chiese, Oratorj sagri, e Spedali sotto la pena di scudi cinquanta, di tre tratti di corda in pubblico per gli Vomini, e della Frusta alle Donne.

XL. Si avvertono i Superiori delle Case, e Monasterj de’ Regolari, e de’ Collegi, e de’ Luoghi Pii de’ Secolari, che in caso abbiano qualche volta bisogno di prevalersi degli Ebrei per uso delle stracciarìe, non permettano a questi l’ingresso nelle Chiese, e negli Oratorj, e non gli lascino conversare con Giovani, ma solamente con Persone avanzate in età, e che possono dar loro buon esempio, ed insegnamento a rivedersi, altrimenti sappiano, che ne renderanno stretto conto al Signore, ed alla Sagra Congregazione del S. Offizio.

XLI. Gli Ebrei, quantunque Rabbini, non possano vestire abitato [recte abito] consimile a quello degli Ecclesiastici, e particolarmente non usino Collare tondo, o alla Francese, solito usarsi dagli Ecclesiastici di quella Nazione, ma vestano in abito affatto Secolaresco, con il Collare grande, e scoperto, sotto pena a’ trasgressori di scudi dieci la prima volta, di venti la seconda, e poi in caso di ulterior contumacia, di carcere, ed altre ad arbitrio.

XLII. Nelle sopra riferite ordinazioni, e pene siano compresi anche gli Ebrei Forastieri sia dell’uno, che dell’altro sesso per il tempo che dimoreranno in Roma, ed in tutto lo Stato Ecclesiastico, ed essi parimente debbano per detto tempo abitare entro il Ghetto sotto le pene di scudi cento, di Carcere, ed altre Corporali anche gravi ad arbitrio.

XLIII. Essendo la Predica il mezzo più possente, e più efficace per ottenere la conversione degli Ebrei, come si raccoglie dalla Costituzione prima della san. mem. di Niccolò III., che incomincia =  Vineam Soreth = , e dalla Costituzione 92. di Gregorio XIII., che incomincia = Sancta Mater Ecclesia = , ordiniamo a’ Rabbini che ponghino ogni loro cura, e diligenza nel fare intervenire alla Predica, che si fa nel Sabbato, o in altro giorno della settimana quel numero di Vomini, e Donne, che secondo la diversità de’ Ghetti sarà stato o verrà prefisso a tenore della citata Costituzione 92. della san. mern. di Gregorio XIII., del Decreto della Santità Sua de’ 26. Agosto 1745., e della Lettera circolare de’ 29. Aprile 1749., e trascurando i medesimi di fare la descrizione delle Persone nel numero come sopra stabilito, o da stabilirsi, incorrano nella pena di scudi cinquanta per ciascheduna volta, siccome mancando di intervenire alla Predica alcuna delle Persone descritte, incorra nella pena di due giulj per ciascheduna volta.

XLIV. Ha per ultimo la Santità Sua dichiarato, e comandato, che per l’effettiva esecuzione di tutte le soprariferite Ordinazioni si procederà contro i Trasgressori anche ex Officio, & per Inquisitionem. E che affisso il presente Editto ne’ luoghi soliti, e confluenti, e di più nelle Scuole de’ Ghetti a maggior loro notizia (ove debbasi sempre affisso ritenere sotto la pena di scudi cento da pagarsi dalle Università in caso di ciaschecluna contravenzione, e sotto altre pene ad arbitrio) obblighi tutti, e ciascheduno, come se fosse stato ad ognuno personalmente intimato, e notificato.

Dato dal Palazzo della S. Rom. ed Univers. Inquisizione questo dì 5. Aprile 1775.
GIOVANNI BUTTARELLI DELLA S. ROMANA, & UNIVERSALE INQUISIZIONE NOTARO
Die 20. Aprilis 1775. supradictum Edictum affixum, & publicatum fuit ad Valvas Curiae Innocentiae, & in Acie Campi Florae, ac in aliis Locis solitis, & consuetis Urbis per me Petrum De Ligne SSmae Inquisitionis Cursorem [Addì 20 Aprile 1775. il soprariferito Editto fu da me affisso, e pubblicato alle porte della Curia Innocenziana, e in Campo de’ Fiori, e negli altri luoghi soliti e consueti della Città, da me Pietro de Ligne Messo della SSma Inquisizione.]
(Storia degli ebrei di Roma, pp. 264-275)

Oltre che chiaramente criminale, direi che si potrebbe tranquillamente chiamarlo anche un tantino paranoico.

barbara

18 AGOSTO 1559: UN GIORNO FAUSTO PER L’UMANITÀ

L’eco del regno del terrore instaurato da papa Carafa risuona tristemente anche nei tempi successivi. Infatti in tutte le petizioni, comprese quelle dell’Ottocento, la descrizione della misera sorte degli Ebrei romani non è mai disgiunta dal ricordo della sua prima origine sotto quel tiranno. 
Non sorprende perciò che il 18 agosto 1559 la sua morte fosse salutata dagli Ebrei di Roma come una vera Liberazione. Ma non da essi soltanto: il popolo romano, nel cui animo si era dilatato l’odio contro il papa, non seppe frenare la sua furia, che si sfogò subito dope la morte del pontefice. Già quando egli stava ancora lottando fra la vita e la morte, il popolo si era sollevato e, preso d’assalto il palazzo dell’Inquisizione, vi aveva liberato oltre quattrocento prigionieri (*). L’indomani mattina della morte del papa, prestissimo, si riunì la Municipalità. La piazza dove sorgeva la statua del papa fu presto affollata e l’effigie, divelta dalla base, fu fatta a pezzi. E sotto le risate dei magistrati e dei maggiorenti un ebreo di nome Elia infilò il suo berretto giallo sulla testa del papa. Per tutto il giorno quella testa fu bersaglio degli scherni, finché verso sera una mano pietosa la gettò nel Tevere.
Elia pagò presto la sua temerarietà. Il mattino del 9 settembre 1559, prima di entrare in conclave, i cardinali provvidero a farlo impiccare insieme con gli altri caporioni di quella giornata. (Storia degli ebrei di Roma, pp.178-179)

(*) Secondo un’altra fonte lo avrebbero anche incendiato.

Decisamente il senso dell’umorismo non sembra essere la dote più spiccata dei cardinali. Né, dei papi, l’umanità.

barbara

STORIA DEGLI EBREI DI ROMA

Pubblicato alla fine dell’Ottocento, risente chiaramente dello stile dell’epoca nella scrittura, non sempre della massima scorrevolezza. Vale tuttavia la pena di affrontare questo modesto fastidio per conoscere una storia del massimo interesse e troppo poco nota.
Due cose, in particolare, colpiscono. La prima è la constatazione che in tutti i “secoli bui” del Medioevo gli ebrei, pur con tutte le discriminazioni e limitazioni che spesso hanno accompagnato la loro storia, hanno avuto la possibilità di vivere sostanzialmente tranquilli, mentre i guai veri sono arrivati con i secoli d’oro, colti e illuminati, del Rinascimento: vessazioni di ogni sorta, esclusione da quasi tutte le professioni, le vergognose pratiche del carnevale, il ghetto…
La seconda, davvero sconvolgente, è la constatazione di quale immonda sanguisuga sia stata la Chiesa nei confronti degli ebrei.

A causa delle varie forme di imposizione con le quali Urbano VIII opprimeva la comunità il fabbisogno finanziario di questa salì alle stelle. Quasi in ogni seduta la Congrega doveva studiare nuovi modi e nuove vie per racimolare denaro. Si facevano debiti per estinguerne altri, sicché l’indebitamento divenne sempre più oppressivo e la massa degli interessi sempre più proibitiva.
Dai registri della comunità ricaviamo le seguenti notizie:
Nel 1634 il Reggimento fiscale del Campidoglio le impose il pagamento di 3000 scudi. La somma fu coperta con un prestito concesso da Cosimo Ruggiero.
Nel 1635 essa dovette pagare 1535 scudi.
Intorno al 1643 la comunità ebbe da Bernardino Nare un prestito di 4800 scudi, che usò per estinguere vecchi debiti, ossia 3000 scudi a Mario Agostini e 1800 a Mario Farini.
Nel febbraio del 1643 coprì il fabbisogno del momento accendendo un debito di 5000 scudi presso Raffaele Delle Rose.
L’1 agosto 1647 i fattori comunicarono alla Congrega di aver chiesto al papa – era già in cattedra Innocenzo X – di autorizzarli ad accedere al Monte di Pietà per ottenere i mezzi necessari a liberarsi dal peso dei debiti, poiché gli interessi semplici e composti avevano raggiunto un livello proibitivo. Dissero di aver ricevuto una risposta benevola, «che alle loro labbra ebbe il sapore dolce del miele». Aggiunsero però che per portare in porto la cosa sarebbero ancora occorsi parecchi donativi e spese. La Congrega accolse la notizia con un sospiro di sollievo e incarico i fattori di impegnarsi a fondo per ottenere dal papa il relativo chirografo.
La medesima notizia la leggiamo nel Sommario (n. 26) alla data del 7 settembre 1647. Innocenzo X autorizza la comunità a prelevare dal Monte la somma di 160.000 scudi all’interesse del 4,5 per cento, dando a garanzia tutti i suoi possedimenti e rendite, compreso il diritto di gazagà. La comunità avrebbe pagato ogni anno 7470 scudi d’interesse e 1000 per l’estinzione progressiva del debito. La benevolenza del papa giunse al punto di farsi anticipare subito dalla Reverenda Camera Apostolica 13.400 scudi a titolo di «sovvenzione».
Ma il sollievo che la comunità ne ebbe fu di breve durata. Già nel 1649 si presentarono nuove esigenze. La Camera Apostolica voleva 3000 scudi, che dovettero essere procurati al più presto elevando di 25 «porzioni» l’aliquota d’imposta. Questo avveniva il 10 agosto, e già il 19 novembre il papa chiedeva altri 1500 scudi per far fronte a certe spese. Fu deciso di raccogliere la somma imponendo uno scudo a testa a ogni maschio che avesse compiuto quindici anni.
Nel maggio del 1651 la Camera Apostolica tornò a esigere 3000 scudi. Fu deciso di accendere un debito a qualunque condizione, pur di ottenerlo. Ma per impedire che gli interessi crescessero a dismisura, fu imposta una soprattassa di 5 «porzioni» sulla contribuzione annua, da esigersi ogni mese.
Nel giugno del 1652 la comunità cercò di ottenere un prestito di 7000 scudi con regolare cambiale notarile, comunque al tasso d’interesse non superiore al 4,5 per cento: lo scopo era di coprire i debiti fatti dall’amministrazione negli ultimi cinque anni.
Nel luglio successivo venne chiesta la fornitura di letti per i soldati nell’imminente guerra contro la Francia. La consegna venne distribuita in cinque anni e allo scopo vennero destinate le entrate della propina.
Il 23 giugno 1656 Tommaso Fiori fece un prestito di 1500 scudi. Il 5 luglio Francesco Vespini ne fece uno di 1500 scudi all’interesse del 5 per cento; il 10 luglio Francesco Angeletto ne imprestò 4200 al 6 per cento.
Tutti questi denari vennero messi alla libera disposizione di una commissione sanitaria. Infatti era scoppiata la peste di cui parleremo al capitolo XXIV.
Possiamo rinunciare a seguire le vicende finanziarie della comunità sulla scorta dei suoi stessi registri. Quanto abbiamo detto è sufficiente a mostrare come essa fosse sistematicamente sfruttata fino all’osso. I prestiti ottenuti avevano raggiunto un livello tale da esigere l’accensione di nuovi debiti per pagarne gli interessi. Si aggiungano poi i relativi pegni e garanzie che mettevano in forse la stessa esistenza della comunità e dei suoi membri. Eppure si volle mantenerla in efficienza, per poterla spremere sempre di bel nuovo! (pp.204-206)

Ma non erano gli ebrei quelli che per soldi sono pronti a vendere l’anima al diavolo?

Abraham Berliner, Storia degli ebrei di Roma, Bompiani

barbara