L’orsa è innocente!L’orsa deve vivere! La sua vita è sacra! Assassini!
Un mese di telegiornali sull’orso del Trentino, neanche uno sui 50.000 cristiani macellati come animali
“14 milioni di cristiani cacciati, 800 comunità islamizzate, bambini e donne incinte smembrate e date alle fiamme, 400 cristiani in una fossa comune”. Ma non sono woke. È il genocidio dei senza nome
Funerali di massa e fosse comuni di cristiani in Nigeria
“Tutte le notizie che vale la pena essere stampate”, recita il celebre slogan del New York Times, punto di riferimento dei media europei e italiani. Il massacro dei cristiani non è mai fra queste notizie. Forse il motivo lo ha spiegato Sébastien de Courtois, uno dei massimi esperti di minoranze cristiane che vive in Turchia e scrive: “Per la vecchia sinistra ideologica, per la quale l’Islam è la religione degli oppressi, la religione dei reprobi, ‘vittima’ e ‘cristiano’ sono termini antinomici. Controlla gli archivi della maggior parte dei giornali o dei siti di notizie online: noterai una mancanza quasi totale di interesse per il dramma dei cristiani. Questo disinteresse è drammatico perchè il fanatismo si nutre di questa ignoranza”. Sono cento i cristiani vittime di attacchi terroristici nel solo stato di Benue, centro-nord della Nigeria, durante i giorni di Pasqua. Il reportage dell’inviato della CNA (Catholic News Agency) rende noto il bilancio di questa mattanza. Prima hanno preso d’assalto la messa della Domenica delle Palme. Ucciso il prete, un chierichetto e altri fedeli. Tre giorni dopo sono stati uccisi 50 cristiani nel villaggio di Umogidi. Il Venerdì Santo, tre ore dopo il tramonto, uomini armati hanno attaccato una scuola elementare. Hanno ucciso 40 cristiani che dormivano e che in precedenza erano fuggiti dagli attacchi ai loro stessi villaggi. “Tra le persone uccise c’erano bambini e donne incinte”. Cronaca quotidiana per questi martiri. L’ultimo rapporto dell’International Society for Civil Liberties and Rule of Law (Intersociety) di questa settimana rivela: “Dall’insurrezione islamica del 2009, 52.250 cristiani sono stati massacrati o uccisi a colpi di arma da fuoco”. Attaccate 18.000 chiese e 2.200 scuole cristiane. E aggiungono che dal 2009 “14 milioni di cristiani sono stati sradicati e costretti ad abbandonare le loro case e 800 comunità cristiane attaccate”. I ricercatori di Intersociety hanno scoperto che “non meno di 1.041 cristiani indifesi sono stati uccisi nei primi 100 giorni del 2023”. E ancora: “Non meno di 50 milioni di cristiani stanno affrontando gravi minacce da parte dei jihadisti perché si professano cristiani. Cinque milioni sono stati sfollati. Almeno 800 comunità cristiane sono state sradicate e molte di esse sono state ribattezzate e islamizzate dai jihadisti”. Sono oltre 5.000 i cristiani uccisi soltanto nel 2022. Una media di 13 al giorno. Francis Sani, funzionario del distretto di Zangon Kataf, dove si trova un villaggio attaccato nei giorni scorsi, racconta: “I terroristi hanno smembrato e dato alle fiamme donne e bambini. Siamo devastati e scioccati dall’entità di questo massacro insensato”.
La scena dell’attacco del 17 aprile in Nigeria
Sono numeri, immagini e storie da genocidio religioso, ma i nostri giornali e tg sono pieni soltanto di storie sull’orsa del Trentino. “Il mondo ha voltato le spalle alla Nigeria”, si legge nel dossier di Acs intitolato Più perseguitati che mai. “Si sta compiendo”, prosegue lo studio della fondazione, “un genocidio, ma a nessuno importa”. Forse aveva ragione l’allora cardinal Ratzinger, che parlò di un’Europa che “nonostante la sua perdurante potenza politica ed economica, viene vista sempre più come condannata al declino e al tramonto”, come fosse “svuotata dall’interno”. La situazione nel più grande paese africano è talmente catastrofica che 400 cristiani vittime di attentati sono state sepolte in fosse comuni. I 50.000 morti sono persino sui siti di notizie del Vaticano, generalmente parchi. The Critic ricorda che da un secolo nel paese gli islamici razziano e schiavizzano le comunità cristiane. Si chiama Jihad. Il 15 marzo, una folla musulmana ha attaccato e raso al suolo una chiesa in Uganda. Il giorno successivo è stato trovato un biglietto presso il sito della chiesa demolita: “Niente più chiese in questa zona. Quest’area è terra sacra solo per l’adorazione di Allah”. Intanto 69 cristiani venivano uccisi in Congo. Dal Morning Star si legge del pastore Thomas Chikooma, che era stato invitato a un dibattito all’aperto. Dopo aver offerto una difesa del Cristianesimo, i musulmani hanno iniziato a gridare “Allahu Akbar”. “Due motociclette con musulmani vestiti con abiti islamici ci hanno rapidamente aggirato”, ha raccontato il figlio minore, che ha visto il padre parlare con i musulmani. “Uno di loro lo ha schiaffeggiato, così sono fuggito attraverso la piantagione e sono arrivato a casa”. Sua madre, Jessica, è arrivata a casa un’ora dopo. “Abbiamo trovato mio marito in una pozza di sangue, decapitato e la lingua rimossa”, ha racconta a Morning Star News. Il problema non è solo quello che solleva l’avvocato difensore dei diritti umani in Nigeria, Agbo Madaki, secondo cui “in Nigeria la vita degli animali vale più di quella degli uomini”. Steven Kefas, testimone di una strage, ha raccontato: “Donne e bambini sono stati macellati come arieti per il barbecue”. Il problema è che anche per l’Occidente sembra essere così. Mentre i cristiani venivano assassinati in Nigeria, i media hanno raccontato la storia di un maiale legato e spinto da una torre in un parco a tema in Cina. La storia è diventata virale su BBC, The Independent, The New York Times, Sky News, Deutsche Welle, fra gli altri. Il maiale cinese ha ottenuto più copertura mediatica dei cristiani assassinati in Nigeria. L’uccisione di un gorilla in uno zoo di Cincinnati ha suscitato più copertura mediatica della decapitazione di 21 cristiani su una spiaggia in Libia mentre invocavano il nome di Gesù in arabo. ABC, CBS e NBC hanno dedicato sei volte più servizi alla morte di un gorilla rispetto all’esecuzione di massa dei cristiani. Nicodemus Daoud Sharaf, arcivescovo siro-ortodosso di Mosul rifugiato a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, casa di molti cristiani fuggiti dai jihadisti, ha detto: “In Australia si prendono cura delle rane. Uno dei nostri cittadini siriaci, che è un muratore, ha comprato un terreno, ha preso soldi da una banca e voleva costruire case e venderle. Poi, quando ha voluto ottenere un certificato per costruire, in mezzo al terreno, si è imbattuto in un buco con dentro otto rane. Il governo di Sydney gli ha detto: ‘Non puoi costruire su questa terra’. Ha detto: ‘Ma ho preso i soldi dalla banca e devo mettermi al lavoro’ e lo hanno spinto a costruire in un altro posto, facendogli pagare 1,4 milioni per costruire un posto diverso per queste otto rane. Noi siamo gli ultimi a parlare la lingua di Gesù. Considerateci come fate con le rane”. Quando l’arcivescovo lo disse cinque anni fa, sembrava una provocazione per scioccare l’opinione pubblica occidentale. Ma la comunità internazionale mentre usciva il rapporto sui 50.000 morti cosa stava facendo? Il segretario generale dell’Onu ci comunicava che è bellissimo digiunare durante il Ramadan, la Germania lanciava la “Giornata internazionale contro l’islamofobia”, il Canada nominava uno “zar contro l’islamofobia”, l’Olanda portava a processo un uomo per aver “dissacrato il Corano”…Non si può dire che l’Islam non stia costruendo ponti in Occidente. I “cattivoni” della UE, i paesi dell’Est Europa, forse perché ancora indietro rispetto al multiculturalismo e forse memori dell’occupazione ottomana, sono quelli che all’interno dell’Europa hanno fatto di più per i cristiani perseguitati. La Repubblica Ceca ha creato un programma di accoglienza per i cristiani perseguitati dall’Isis, l’Ungheria ha firmato accordi con le agenzie umanitarie americane sulla persecuzione dei cristiani e la Romania ha introdotto la “Giornata nazionale contro la violenza ai cristiani”. Cosa aspetta il governo italiano a portare in Parlamento l’introduzione di una “Giornata internazionale contro la persecuzione dei cristiani”? Non sarà la panacea, ma almeno costringerà indolenti tg e ipocriti quotidiani una volta all’anno a parlare di un tema che nascondono con metodo nell’angolo più remoto della propria coscienza, sempre che ne abbiano una. Il genocidio non può rimanere senza nome. Sarebbe il crimine perfetto, che non è mai avvenuto. Giulio Meotti
E dunque sì: per le nostre anime belle la vita di un animale aggressivo e pericoloso (non potenzialmente: ha già aggredito e ucciso) merita più attenzione di quella di 50.000 persone innocenti massacrate unicamente per la propria fede religiosa. E vale la pena di ricordare che cosa esattamente significa “innocente”, che non è sinonimo di “incolpevole”: innocente significa, alla lettera, “che non nuoce”. Quindi i cristiani massacrati erano incolpevoli E innocenti, l’orsa è incolpevole, ma innocente no. Suggerisco la lettura di questo ottimo articolo, lungo ma assolutamente imprescindibile (e vale la pena di dare un’occhiata anche agli articoli a margine), e poi anche di questo.
Per il bene dei fedeli, beninteso, che da soli non sarebbero mai stati in grado di discernere il bene dal male, e avrebbero facilmente potuto lasciarsi traviare. Sotto il governo di Stalin (e dei successori, anche se in misura leggermente minore) si chiamava censura. Per il bene del popolo, beninteso, che da solo non sarebbe mai stato in grado di discernere la verità dalla subdola propaganda borghese. Adesso si chiama progresso, e se consideriamo che i danni, anche in questo ambito, del comunismo, sono stati incomparabilmente maggiori di quelli provocati dalla Chiesa, non oso neppure immaginare la portata dei danni che riuscirà a produrre il terzo atto della saga.
Dopo falce e martello, razza e genere. E l’ideologia conquista anche la scienza
Non basta essere esperti di Dna, ora fanno fuori i biologi che non giurano fedeltà al “nuovo lysenkoismo”. Inchieste illuminanti e da brivido. Una propaganda che sta penetrando anche in Italia
Solo il nome incuteva paura: Trofim Lysenko, il “biologo di Stalin”. Mistificatore, sicofante e inquisitore, Lysenko negava l’ereditarietà e le “cosiddette leggi di natura”, che accusò di essere una “scienza borghese e malvagia”, sostenendo l’adattamento dei vegetali all’ambiente. “I sabotatori non si trovano solo fra i kulaki, ma anche nella scienza”, gridò Lysenko a un congresso. Stalin, in prima fila, applaudì. Gli avversari di Lysenko finirono in carcere o, nel migliore dei casi, emarginati. Il “lysenkoismo” divenne sinonimo di dittatura ideologica. Voleva modificare la natura con la forza di volontà per far trionfare il marxismo. Prometteva di far nascere cento spighe là dove a stento ne cresceva una. Ovviamente le steppe sovietiche non si trasformarono in giardini rigogliosi, ma in cimiteri dove seppellire l’uomo nuovo. E gli avversari di Lysenko. Fra le fonti di ispirazione di George Orwell per 1984 ci fu proprio Lysenko, come testimonia una lettera di Orwell a C. D. Darlington, biologo inglese, datata 19 marzo 1947: “Dottor Darlington, non sono uno scienziato, ma la persecuzione degli scienziati e la falsificazione dei risultati per me segue naturalmente la persecuzione degli scrittori”. E ancora: “Cercherò una copia del suo scritto su Vavilov”. Orwell era ossessionato da questo nome: Nikolai Vavilov, il grande scienziato accusato da Lysenko di difendere le leggi di Mendel e deportato nel gulag di Saratov, dove morirà di fame, sepolto in una fossa comune. Assunto il controllo delle humanities, dove censurano e manipolano i capolavori della letteratura e dell’arte, e dichiarata la nuova guerra della storia con l’estromissione di chi non si adegua alla doxa, due inchieste sensazionali raccontano che l’ideologia progressista sta ora conquistando anche le scienze. E come scrive il giornalista scientifico del New York TimesNicholas Wade, è nato un “nuovo lysenkoismo”. Alla Texas Tech University un ricercatore in lizza per un incarico nel dipartimento di biologica è stato segnalato dal comitato per non saper distinguere tra “uguaglianza” ed “equità”. Un altro per il suo uso del pronome “he” quando si riferiva ai colleghi, anziché il neutro “they”. Il dipartimento di biologia del Texas Tech ha deciso di “richiedere una dichiarazione sulla diversità da parte di tutti i candidati”. Lo rivela il Wall Street Journal. Il comitato ha penalizzato un candidato per aver sposato la “neutralità razziale”, ovvero non essere abbastanza antirazzista. Un candidato di immunologia è elogiato per la consapevolezza dei problemi di “pregiudizio inconscio”. La fatidica “inclusività in laboratorio” è il punto di forza di un candidato di virologia: “Il suo tema sarà la diversità…”. Il fisico americano Lawrence Krauss sul Wall Street Journalracconta: “Negli anni ’80, quando ero un giovane professore di fisica a Yale, il decostruzionismo era in voga nel dipartimento di inglese. Noi dei dipartimenti di scienze deridevamo la mancanza di standard intellettuali nelle discipline umanistiche, incarnata da un movimento che si opponeva all’esistenza della stessa verità oggettiva, sostenendo che tutte queste pretese di conoscenza erano contaminate da pregiudizi ideologici dovuti a razza e sesso. ‘Non potrebbe mai accadere nelle scienze, pensavamo, tranne sotto le dittature, come la condanna nazista della scienza ‘ebraica’ o la campagna stalinista contro la genetica guidata da Lysenko’, pensavamo…”. Krauss ovviamente si sbagliava. Per rabbrividire ancora di più c’è l’ultimo numero dell’Economist. “Le università americane assumono sulla base della devozione all’ideologia”, il titolo del grande settimanale inglese. Si legge: “L’Università della California, Berkeley, sta facendo pubblicità per un ‘direttore della coltura cellulare…’. I candidati hanno bisogno di una laurea avanzata e di un decennio di esperienza nella ricerca e devono presentare un CV, una lettera di accompagnamento e una dichiarazione di ricerca, nonché una sui loro contributi alla promozione della diversità, dell’equità e dell’inclusione. Apparentemente tutti devono presentare una dichiarazione che illustri la loro comprensione della diversità, i loro contributi passati ad essa e i loro piani ‘per promuovere l’equità e l’inclusione’ se assunti. Non molto tempo fa, tali affermazioni erano esotiche e di importanza marginale. Ora sono di rigore nella maggior parte delle decisioni di assunzione. Studi affermano che almeno uno su cinque lavori di facoltà in tutta l’America li richiedono. E le agenzie governative che finanziano la ricerca scientifica stanno iniziando a concedere sovvenzioni ai laboratori in base ai loro piani di diversità. ‘Ci sono molte somiglianze tra queste affermazioni sulla diversità e come funzionavano i giuramenti di lealtà che una volta richiedevano ai docenti di attestare che non erano comunisti’, afferma Keith Whittington, politologo alla Princeton University. Berkeley ha lanciato un bando per cinque docenti per insegnare scienze biologiche. Su 894 domande, ha creato una lista basata solo sulle dichiarazioni di diversità, eliminando 680 candidati senza esaminare le loro ricerche o altre credenziali. A partire da questo anno, il Dipartimento dell’Energia, che finanzia la ricerca sulla fisica nucleare e del plasma, richiederà a tutte le domande di sovvenzione di presentare piani sulla ‘promozione della ricerca inclusiva ed equa’. ‘Le persone non sono disposte a respingere questo sistema perché hanno paura di perdere i fondi e nessuno vuole diventare un martire per difendere la ragione’, afferma Anna Krylov, professoressa di chimica all’Università della California, che ha studiato nell’ex Unione Sovietica e vede dei parallelismi ‘un po’ troppo vicini’. Piuttosto che il marxismo-leninismo, ‘devi davvero impegnarti per la giustizia sociale critica’. L’Harvard Law Review incoraggia i potenziali redattori a presentare, insieme alla loro domanda, una dichiarazione di 200 parole ‘per identificare e descrivere aspetti della tua identità’”. Chi segue la mia newsletter forse ricorderà che di Anna Krylov avevo parlato già due anni fa, quando la scienziata scrisse un saggio illuminante. Il geofisico dell’Università di Chicago, Dorian Abbot, su Newsweek descrive così il clima in America: “Il nuovo regime è intitolato ‘Diversità, equità e inclusione’ ed è imposto da una burocrazia di amministratori. Ogni decisione presa nei campus, dalle ammissioni all’assunzione, dai contenuti dei corsi ai metodi di insegnamento, passa attraverso la lente del regime. Nel clima attuale non si può discutere: l’autocensura è totale”. Al premiato scienziato canadese Patanjali Kambhampati sono stati negati fondi di ricerca perché si rifiuta di assumere in base al colore della pelle e si concentra solo sul merito. Kambhampati, chimico della McGill University, ha detto: “Non mi interessa il colore della pelle. Sono interessato ad assumere qualcuno che voglia lavorare al progetto ed è bravo a farlo”. Luana Maroja, biologa al Williams College, sulla newsletter della giornalista Bari Weiss ha raccontato cosa sta succedendo anche nel mondo scientifico: “In alcune classi di biologia, gli insegnanti dicono agli studenti che i sessi, non il genere, sono su un continuum. Almeno un college che conosco insegna che è bigotto pensare che gli esseri umani siano in due sessi distinti”. Anche le scuole di medicina e la Society for the Study of Evolution hanno rilasciato dichiarazioni che suggeriscono che i sessi sono su un “continuum”. “Se ciò fosse vero, l’intero campo della selezione sessuale sarebbe privo di fondamento. In psicologia e salute pubblica, molti insegnanti non dicono più maschio e femmina, ma usano invece la contorta ‘persona con un utero’. Ho avuto un collega che, durante una conferenza, è stato criticato per aver studiato la selezione sessuale femminile negli insetti perché era un maschio”. Basta andare sui siti delle facoltà di medicina d’America per leggere che ogni dipendente deve sottoporsi a quattro ore di “corsi sulla diversità e l’inclusione”. Il 20 per cento di tutti gli incarichi accademici negli Stati Uniti richiedono una dichiarazione di fedeltà al regime. Una professoressa alla Brown University, Lisa Littman, ha criticato il transgender, ipotizzando una sorta di contagio sociale. La scienziata, la rivista che l’ha pubblicata e la Brown University sono stati accusati di transfobia. Il saggio è stato cancellato e la carriera di Littman è stata distrutta. Ma questa assurda ideologia sta penetrando rapidamente anche in Italia. Basta andare sul sito dell’Università di Bologna, dell’Università di Venezia, della Bocconi, dell’Università di Ferrara, della Sapienza e altri atenei. Si trova già tutto nero su bianco e in linea. In America si chiama “DEI” (Diversità, equità e inclusione), in Italia “EDI” (Equità, diversità e inclusione). Un giorno (sempre se avremo una stampa libera a informarci) leggeremo anche da noi di scienziati e ricercatori esclusi per non aver dimostrato abbastanza fervore ideologico. Non potremo meravigliarci. Perché sapevamo. Nazionalista anticomunista e studioso del più grande degli imperatori tedeschi, Federico II di Svevia, lo storico Ernst Kantorowicz non ebbe altra scelta che lasciare la Germania nel 1939. Non bastava che la sua biografia dell’imperatore fosse piaciuta al ministro Goebbels. Kantorowicz era ebreo. Arrivò negli Stati Uniti, dove ottenne la cattedra di Storia medievale a Berkeley. Dieci anni dopo iniziò il maccartismo e l’amministrazione universitaria impose ai docenti giuramento di anticomunismo. Kantorowicz si rifiutò di sottoscriverlo, non perché non fosse anticomunista, ma perché aveva in orrore il giogo intellettuale. Fu licenziato e trovò lavoro a Princeton grazie all’intercessione del grande fisico Robert Oppenheimer, quello della bomba atomica. Settant’anni dopo, i docenti di Berkeley si trovano alle prese con un altro tipo di giuramento. Per spiegare il suo rifiuto di firmare a costo di perdere il lavoro, lo storico Kantorowicz disse: “Ci sono tre professioni che hanno il diritto di portare la toga e sono il giudice, il prete e il professore. Quest’abito attesta la maturità mentale di chi lo porta, la sua indipendenza di giudizio e la sua diretta responsabilità verso la sua coscienza e il suo dio. Sono le ultime professioni che dovrebbero accettare di agire sotto costrizione”. A Berkeley oggi un gruppo di 894 candidati è ridotto a 214 in base unicamente a quanto siano stati convincenti nella propria domanda di lavoro sulla “diversità”. In pratica, se chi fa domanda di un posto non fa cenno alla diversità viene automaticamente scartato, per quanto brillante possa essere il suo curriculum. “Berkeley ha respinto il 76 per cento dei candidati qualificati senza nemmeno considerare le loro capacità, le loro pubblicazioni, il loro potenziale accademico”, scrive Reason. “Questi candidati avrebbero potuto essere il prossimo Albert Einstein o Jonas Salk, oppure educatori eccezionali e innovativi”. Non importa, “diversità” prima di tutto. Nel 1981, quando tutto questo ancora non c’era, apparve un piccolo libro di filosofia, Dopo la virtù. L’autore, Alasdair MacIntyre, osservava l’Occidente e non vedeva nient’altro che confusione. La moralità in quanto tale era svanita e il crollo del discorso razionale aveva segnato una grave “degenerazione” e “perdita culturale”. Una “nuova èra oscura” era davanti a noi. Il libro iniziava immaginando il crollo della cultura occidentale: “Immaginate che le scienze naturali debbano subire le conseguenze di una catastrofe. L’opinione pubblica incolpa gli scienziati di una serie di disastri ambientali. Accadono sommosse su vasta scala. Laboratori vengono incendiati, fisici linciati, libri e strumenti distrutti. Un movimento politico a favore dell’Ignoranza prende il potere, e riesce ad abolire l’insegnamento scientifico nelle scuole e nelle università, imprigionando e giustiziando gli scienziati superstiti”. Si tenta una ripresa culturale, ma si possiedono solo dei frammenti, “parti di teorie senza legami né con gli altri pezzetti di teoria, mezzi capitoli di libri, singole pagine di articoli, non sempre del tutto leggibili perché stracciate e bruciacchiate”. I bambini imparano a memoria le parti superstiti. Ma i filosofi non riescono più a comprendere di essere affondati in un caos culturale. “L’ipotesi che voglio sostenere è che nel mondo in cui viviamo il linguaggio della morale si trova nel mondo immaginario che ho descritto”. MacIntyre concludeva che soltanto “un nuovo Benedetto” avrebbe potuto salvare l’Occidente. Prima la scienza è stata conquistata dall’ideologia, poi la scienza è diventata essa stessa ideologia. Hanno così abolito la realtà e infine si è suicidata la civiltà. E il Benedetto che ha denunciato il crollo della ragione è stato appena sepolto. Giulio Meotti
Esattamente come in tutte le dittature: prima viene la fedeltà al partito, poi, eventualmente (molto eventualmente) i meriti. Sempre che i meriti non diventino essi stessi motivo di condanna e di perdita della propria posizione, quando non della libertà, quando non della vita. E quanto più si tace e ci si adegua, tanto più la belva diventa aggressiva e assetata di sangue. Il nostro.
e poi quello ebraico e quello cambogiano e quello ruandese, abbiamo scelto di ignorare e lasciare perpetrare impunemente anche il secondo genocidio armeno.
“Noi europei siamo come mucche che guardano passare i treni dove nel vagone ristorante si mangiano vitelli armeni”
I gemelli turchi strangolano l’enclave di 120.000 cristiani. La morte lenta dell’Armenia e l’aprassia dell’Europa, questo morto vivente. Intervista al ministro degli Esteri armeno dell’Artsakh
Il dittatore azero Aliyev ha ribattezzato l’Armenia... “Azerbaigian occidentale”. Anche la capitale armena, Yerevan, è una “città dell’Azerbaigian”. Il satrapo amico della UE non potrebbe essere più esplicito nelle sue intenzioni verso gli armeni, i figli prediletti di Noè. Dopo aver ereditato dal padre un paese ricco di gas e petrolio, una ex repubblica sovietica con 10 milioni di abitanti, il satrapo musulmano che seduce gli occidentali come l’emiro del Qatar ha deciso, con l’aiuto di Erdogan, il sultano turco, di mettere mano all’Armenia, il più antico territorio cristiano al mondo (vent’anni prima che Costantino imponesse la croce sui labari delle legioni romane), un paese senza risorse e con 3 milioni di abitanti e quasi altrettante chiese e monasteri annidati tra le sue montagne mozzafiato, testimonianza di pietra della lotta armena per affermare il proprio diritto ad esistere come popolo. “Gli armeni, vittime del primo genocidio moderno, affrontano l’estinzione in un territorio punteggiato da chiese e croci” scrive Sohrab Ahmari in un bel saggio su Compactmag. “Mentre la Russia, storica protettrice dell’Armenia, si allontana dalla scena, gli armeni lottano per la sopravvivenza”. Con l’appoggio della Turchia, l’Azerbaijan da un mese ha deciso di asfissiare l’enclave armena del Nagorno Karabakh tagliandole l’unica via di collegamento che la tiene in vita con lo stato armeno. Un blocco che, dal 12 dicembre, ha intrappolato 120.000 persone. Anzi, 120.000 cristiani asfissiati da un esercito con la mezzaluna. Un mese di isolamento totale. E le anime belle che parlano del blocco israeliano di Gaza sotto controllo di Hamas e Jihad Islamica, tacciono. Tutto ciò che potrebbe provenire dal mondo esterno ora è precluso agli armeni, dal cibo alle medicine. Il freddo bestiale entra in case che non possono essere riscaldate, perché gli azeri hanno interrotto le forniture di gas. Come un supplizio cinese. Uno scenario di morte lenta che è una prefigurazione di ciò che Erdogan e Aliyev stanno preparando per l’Armenia tutta, o ciò che ne resta, dopo due millenni di gloria. Il pan-turchismo intende riunire i popoli turchi (e musulmani) nello stesso stato. Anche se significa “genocidio” degli indigeni, colpevoli di aver abitato queste terre molto prima delle invasioni islamiche dall’Asia Centrale, che portarono alla caduta di Costantinopoli e dell’Impero Romano d’Oriente nel 1453. Di qui i sistematici massacri di tutti gli “indigeni” cristiani: gli armeni (1,5 milioni nel 1915, grande macchia rossa nella coscienza di un’Europa che per la prima volta confessava la predisposizione a chiudere gli occhi di fronte allo scomodo choc dell’Olocausto), gli assiri e gli aramei (500.000), i greci del Ponto (altrettanti).
Ne parlo per newsletter con Grigor Ghazaryan, professore di Filologia all’Università di Yerevan, in Armenia.
L’Artsakh armeno è perduto?
Diciamo che è in atto un genocidio per definizione. Ilham Aliyev ha dichiarato quanto segue durante la conferenza stampa: ‘Chi non vuole essere nostro cittadino, la strada non è chiusa, è aperta, può andarsene. O possono partire da soli, non li fermeremo, o con le macchine delle forze di pace russe, o con gli autobus. La strada è aperta’. Tradotto: gli armeni saranno costretti a cambiare identità, religione, lingua, convertirsi nella miscela della dittatura neo-ottomana. Altrimenti moriranno o dovranno abbandonare il paese natale.
L’Europa è complice?
Bisogna far capire alle strutture occidentali che l’Azerbaijan si dichiara così uno stato terroristico.
E se gli occidentali avessero capito bene e scelto?
Allora chi non ha gas per l’Europa, è destinato a scomparire.
La codardia europea è al di là di ogni comprensione. “Indifferenti come le mucche che, parafrasando Paul Claudel, guardano passare i treni dove, nel vagone ristorante, i viaggiatori mangiano vitello tonnato” scrive questa settimana su Le PointFranz-Olivier Giesbert, pezzo da novanta del giornalismo francese (è stato direttore dell’Obs e del Figaro). La diplomazia di Bruxelles, alimentata forzatamente con il gas azero e in ginocchio davanti alle minacce del sultano turco, sembra un morto vivente. La difesa russa degli Armenia, storici vicini e alleati, è crollata. L’America, lontana, non muoverà un dito per un piccolo paese cristiano nel Caucaso. Le buone vittime sono gli uiguri e i rohingya musulmani, al massimo gli iraniani che protestano contro gli ayatollah. Il sito svedese di inchieste Blankspot.se ha raccontato come anche i pochi eurodeputati che stavano con l’Armenia abbiano cambiato opinione. L’eurodeputato tedesco Engin Eroglu (gruppo Renew, macroniani) aveva presentato risoluzioni critiche nei confronti della dittatura azera. All’apertura del Parlamento europeo, la scorsa estate, Eroglu aveva attaccato Ursula von der Leyen per il suo viaggio a Baku dove aveva baciato la pantofola al dittatore azero. Poi Eroglu va in Azerbaijan con una nutrita delegazione. E finiscono le critiche agli azeri. Il Qatargate lo hanno inventato gli azeri. “L’Azerbaigian sta comprando tutti, giornalisti, politici, storici compresi per dimostrare che l’Artsakh gli è sempre appartenuto” dice a Le Figaro il rappresentante della Chiesa apostolica armena in Vaticano, Khajag Barsamian. “Ankara da parte sua ha una vasta rete di agenti diplomatici ben collaudati e ha anche molti soldi. Con i soldi comprano compagnie internazionali, politici, eurodeputati per la loro propaganda”. E i media? Nell’era degli algoritmi e delle statistiche, i media monitorano quali sono le loro pagine più popolari. E gli articoli che trattano (molto raramente) dell’Armenia non sono molto cliccati. Giù dunque il sipario. “Noi armeni siamo soli al mondo”, dicono alla direttrice della Revue Des Deux mondes, Valérie Toranian. La storia sembra ripetersi. Il ministro degli Esteri inglese Lord Curzon parlando alla Camera dei Comuni nel lontano 1921 liquidò così il genocidio armeno: “Consumato fra il disinteresse generale e sul quale non conviene dilungarsi”.
La città di Shushi, Nagorno-Karabakh, dove nel 1920 fino a 20.000 armeni furono massacrati da turchi e azeri. Un pogrom. Dopo il periodo sovietico, la città tornò in mano agli armeni nel 1992. Ma nella guerra del 2020 la città è finita sotto il controllo azero (cliccare sull’immagine per ingrandire)
Perché tanto odio? La risposta è venuta dalla bocca di un grande Papa, Benedetto XVI, che nel suo discorso di Ratisbona ha evocato il dialogo tra uno degli ultimi imperatori cristiani di Costantinopoli e uno studioso musulmano persiano. Per il primo, imporre la fede con la violenza equivale a “non agire secondo ragione”, che è “contrario alla natura di Dio”. Per il musulmano, invece, Dio è “assolutamente trascendente”. Ha tutti i diritti. Anche quello di annientare un piccolo popolo che non ha mai fatto male a nessuno, soltanto perché cristiano.
Stepanakert al buio
Ne parlo per la newsletter con il ministro degli Esteri uscente dell’Artsakh, Davit Babayan, al telefono da Stepanakert, da un mese al buio e al freddo.
Qual è la situazione nell’Artsakh?
Terribile, tragica. Da un mese siamo sotto blocco e assedio. Tutto è tagliato fuori. I viveri. Le medicine. La strada è chiusa. Gli azeri hanno fermato il gas. E ora anche l’elettricità. La situazione continuerà, non ci sono prospettive.
Cosa vogliono gli azeri?
Soffocarci. Vogliono spingerci ad andarcene. Se Roma o altre città italiane fossero tagliate fuori dal resto del paese, quanti di voi resisterebbero? Ci sono persone forti e in Artsakh abbiamo una missione, è questione di dignità per noi. Ma stiamo affrontando un male.
Vogliono distruggere anche la vostra storia?
Sì, nell’Artsakh occupato, l’80 per cento del territorio, gli azeri distruggono e compiono un genocidio culturale: chiese medievali, monumenti, tombe, cappelle, iscrizioni, case, ogni iscrizione in armeno, tutto raso al suolo.
Cosa vuole dire all’Europa, così silente?
Salvate l’Artsakh per salvarvi voi stessi. Se un regime totalitario può soffocare un piccolo stato democratico cristiano, significa che è una sfida al mondo civilizzato. Siete complici di questa tragedia? Siete dei partner nella distruzione del popolo armeno? Turchi e azeri lo stanno facendo assieme. Giulio Meotti
Silenti di fronte ai genocidi, silenti di fronte all’invasione dell’islam, silenti di fronte alla distruzione della nostra cultura, silenti di fronte alla cancellazione del diritto di parola, silenti di fronte all’annientamento della libertà. Se trovo il coglione che ha detto che la parola è d’argento e il silenzio è d’oro lo prendo a randellate.
“A 10 anni i bambini non possono attraversare la strada soli, ma possono cambiare sesso”
Alcuni pediatri coraggiosi rivelano il più grande scandalo medico del nostro tempo. “Diciamo loro ‘mangia sano e non stare al tablet’, poi gli diamo bloccanti della pubertà come fossero caramelle”
Viviamo in un tempo e in una civiltà molto strane, indicibili persino, che con il loro passo leggero corrono verso una nuova barbarie. Nelle stesse ore in cui il famosissimo Cambridge Dictionary aggiornava la sua definizione di “donna” per includere “chiunque si senta tale” (questa settimana J.K. Rowling dice che siamo arrivati a credere a un “gender dell’anima”, sorta di nuovo animismo), una maestra di ballo della prestigiosa università parigina Sciences Po, dove insegnava da otto anni, è stata messa alla porta per essersi rifiutata di abbandonare termini come “uomo-donna”. A Valérie Plazenet era stato chiesto di sostituirli con “leader-follower”, per superare le antiquate, cisgender e patriarcali distinzioni di genere. Tutto inizia all’apertura dell’anno accademico. Sciences Po ha deciso di non usare più i termini “uomo” e “donna”. “All’inizio pensavo che avessero messo le categorie in inglese in modo che fossero più comprensibili per gli studenti stranieri”. E contro la nuova nomenclatura, Valérie decide di dividere gli allievi secondo le vecchie categorie. Arrivano le lamentele degli studenti, che parlano di “osservazioni sessiste, degradanti, discriminatorie e razziste”. Valérie si rifiuta di sottomettersi a tali ingiunzioni. Spiega loro che la danza è “un’arte della complementarietà” e che la natura fisica e biologica è fatta perché gli uomini ballino i ruoli di uomini e le donne i ruoli delle donne. “Con grande rammarico, ma in accordo con il mio desiderio di preservare la mia arte, il mio insegnamento e la mia libertà di amare la disciplina, non sarò la vostra insegnante nella seconda metà del 2022”. Così, dopo otto anni di servizio a Sciences Po, la docente preferisce andare in pensione piuttosto che sottomettersi agli imperativi del gender. Adesso The Free Press, il magazine digitale dell’ex giornalista del New York Times Bari Weiss inaugurato questa settimana, pubblica una inchiesta terrificante su come quegli imperativi stiano corrompendo la medicina. L’American Academy of Pediatrics (AAP, il massimo organo americano deputato alla salute dei bambini) ha istituito un comitato su “Salute e benessere LGBT” per “i bambini con variazioni di genere”. Quattro dei sei membri del comitato – Jason Rafferty, Brittany Allen, Michelle Forcier e Ilana Sherer – lavorano in cliniche pediatriche che prescrivono bloccanti della pubertà a bambini di 10 anni. La decisione, che rappresenta la posizione ufficiale dell’AAP, è stata scritta da un singolo medico, Rafferty, e non è stata rivista da nessun altro all’interno dell’organizzazione. Un medico veterano dell’AAP dice a The Free Press: “L’AAP pensava che i trans fossero la prossima crociata per i diritti civili e si è lasciata ingannare”. La maggior parte dei paesi europei non incoraggia la transizione sociale o fisica fino a quando la disforia di genere di un bambino non persiste da un po’ di tempo, in parte perché la disforia scompare da sola nella maggior parte dei casi, in particolare una volta raggiunta la pubertà. Molti paesi europei, tra cui Gran Bretagna, Finlandia, Svezia e Paesi Bassi, stanno ora riducendo o eliminando completamente l’uso di bloccanti della pubertà nei bambini (l’ospedale di Stoccolma Karolinska non prescriverà più ormoni bloccanti della pubertà ai minori di 16 anni, perché questi trattamenti potrebbero avere “conseguenze negative irreversibili” e il Karolinska parla di rischi di infertilità, cancro, trombosi, malattie cardiovascolari). È solo grazie allo psichiatra David Bell, presidente della British Psychoanalityc Society, che la Tavistock Clinic di Londra ha dovuto chiudere. Bell ha sollevato le preoccupazioni di molti medici della clinica per il modo in cui si trattavano bambine e bambini. “Non potevo andare avanti così”, ha detto Bell al Guardian. “Non potevo più vivere sapendo del trattamento che veniva riservato ai bambini”. Ma anche in America la questione è talmente strategica che metà degli stati ha già messo al bando a diverso titolo i trattamenti per il cambio di sesso dei bambini. “L’American Academy of Pediatrics afferma che i bambini sotto i 10 anni non possono attraversare la strada da soli”, dice a The Free Press un pediatra, “ma possono cambiare sesso”. Sulla maggior parte dei problemi – dalla dieta all’ora trascorsa davanti allo schermo dei tablet all’esercizio fisico – i pediatri incoraggiano regole di sicurezza precise ai bambini. Ma i bloccanti della pubertà sono distribuiti con grande facilità e il capo della clinica di genere del Boston Children’s Hospital, Jeremi Carswell, dice che sono “elargiti come caramelle” nella sua clinica. Se non fosse una questione fondamentale di cultura e salute pubblica, sarebbe da riderne. Anche leggendo, dal Guardian, che le organizzazioni Lgbt che hanno rapporti con il governo dell’Inghilterra distribuiscono leganti per il seno alle bambine. Il giornale israeliano Israel Hayom questa settimana parla con la dottoressa Miriam Grossman, psichiatra infantile e una delle poche in America che osa aprire bocca contro l’establishment medico: “Quello che sta accadendo negli ultimi anni è un’epidemia. Oggi, dall’età dell’asilo, i bambini imparano già che il loro corpo potrebbe non riflettere necessariamente il loro genere. I bambini dai cinque anni subiscono l’indottrinamento a scuola. Il risultato è un fenomeno sociale di ragazzi e ragazze che vogliono fare il cambiamento, a volte arrivano anche a farlo insieme come una tendenza di gruppo. Nel 2007 c’era un sola clinica in tutti gli Stati Uniti per minori. Oggi ce ne sono 300. E c’è una nuova lingua all’opera, che dieci anni fa non esisteva. Un giovane è venuto a trovarmi e ha detto che ha un nuovo amico e mi è proibito chiedere se quell’amico è un ragazzo o una ragazza. L’atto stesso di porre una domanda del genere è discriminazione. Vedi? Hanno indottrinato un’intera generazione. Quando i genitori scoprono che i loro figli hanno subito il lavaggio del cervello, è già troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Di conseguenza, dico a chiunque legga: per favore, tenete d’occhio i vostri figli”. La scrittrice inglese J.K. Rowling, al centro di un linciaggio planetario perché da femminista rigetta l’ideologia gender, ha affermato che è in corso uno “scandalo medico”. “Da quando ho parlato della teoria dell’identità di genere ho ricevuto migliaia di email, più di quante ne abbia mai ricevute su un singolo argomento. Molte provengono da professionisti che lavorano nel campo della medicina, dell’istruzione e dell’assistenza sociale. Tutti sono preoccupati per gli effetti sui giovani vulnerabili. La triste verità è che se e quando scoppierà lo scandalo, nessuno che attualmente tifa per questo movimento sarà in grado di affermare in modo credibile ‘non avremmo potuto saperlo'”. Sapevamo, sapevamo, ma abbiamo scelto di sacrificare questi bambini sull’altare di un’ideologia che non ha precedenti nella storia umana. Come spiega la giornalista francese Eugenie Bastie in una conferenza questa settimana all’Académie des sciences morales et politiques di Parigi, “negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Europa, uomini e donne vengono espulsi dalle università, vedono soppresse le loro lezioni e talvolta, è successo, bruciano anche i loro libri, perché hanno osato affermare che esistono solo due sessi e non puoi passare dall’uno all’altro come se stessi cambiando camicia. A Mosca, Pechino, Bamako o Delhi, nella parte non occidentale del mondo, la gente la pensa sicuramente in modo molto diverso. L’umanità ha sempre cercato di costruire a partire da questo dato biologico che è la differenza tra i sessi. Noi siamo la prima civiltà che vuole decostruirla”. Per questo devono portare avanti questo macabro esperimento sui bambini? Per rifare l’uomo nuovo? Basta sfogliare il libro di Paul B. Preciado, Dysphoria mundi. Preciado, che sette anni fa si chiamava ancora Beatriz, è uno dei più importanti filosofi contemporanei nel campo degli studi di genere (ovviamente è stato elogiato da un rottame ideologico del giornalismo italiano come L’Espresso). A leggerlo si soccombe a una sincope. Il libro si apre con l’incendio di Notre-Dame, una visione meravigliosa per Preciado, una metafora della nostra civiltà che desidera veder scomparire. “Questa cattedrale si potrebbe chiamare capitalismo, patriarcato, riproduzione nazionale, ordine economico… oggi brucia”. Tutte le barriere devono scomparire.” Interiore esteriore. Sano tossico. Uomo donna. Bianco nero. Nazionale straniero. Culturale naturale. Umano animale. Pubblico privato. Digitale analogico. Vivo morto”. Il trans è il futuro. “Migliaia di giovani stanno iniziando a disidentificarsi con questo regime di potere e conoscenza”. E chiede Preciado, molto seriamente: “Come sarà il mondo non binario?”. Qualcuno sarà ansioso di scoprirlo. Io, no. E spero neanche i miei figli. Giulio Meotti
La cosa strana, all’interno di tutto questo, è che vedo in giro una miriade di articoli e articolesse con studi – non importa se documentati o no, ragionevoli o no, fondati o no – sui soldi che girano intorno a “BigPharma” o altro del genere, ma non mi sembra di averne visti sul giro di soldi che gravita su questa gigantesca macchina di programmata e sistematica distruzione dei nostri bambini.
fosse il fumo che ci viene gettato negli occhi per impedirci di vedere questo? Vale la pena di leggere questo articolo di Giulio Meotti, anche se lungo, per cercare di capire quale sia il pericolo reale che incombe su di noi.
“L’immigrazione islamica è la grande minaccia alla pace civile in Europa”
Si tratta del testo più impressionante, più articolato e più scenaristico che abbia letto finora da parte di un alto dirigente europeo della sicurezza sulla disintegrazione del continente. Nessun ex capo dei servizi segreti italiani ha mai usato parole tanto oneste e coraggiose. L’ex capo dei servizi segreti francesi Pierre Brochand (Direction générale de la sécurité extérieure) ha tenuto una drammatica conferenza al Senato di Francia. Ne rende conto in esclusiva Le Figaro e lo pubblico per gli abbonati alla newsletter. Ci vuole pazienza e leggerla tutta. Perché c’é tutto: cosa abbiamo sbagliato, cosa accadrà, cosa possiamo e dobbiamo fare… Niente non è un’opzione, ma un suicidio. Riguarda i francesi, gli italiani, tutti gli europei. O almeno tutti coloro che hanno a cuore il futuro dell’Europa. Quella vera, non della lingua di legno. Signore e signori senatori, È un grande onore per qualcuno che ha iniziato a servire la Francia sotto il generale de Gaulle. Mi avete chiesto di parlare di immigrazione e io ho suggerito di aggiungere “questione centrale”. Per due motivi: da un lato, credo che, tra tutte le sfide che dobbiamo affrontare, l’immigrazione è l’unica che minaccia la pace civile e, come tale, la vedo come un prerequisito per tutte le altre. D’altra parte, l’immigrazione ha un impatto trasversale su tutta la nostra vita collettiva, che considero generalmente negativo. L’immigrazione in generale non è affatto un male in sé, ma lo è l’immigrazione molto particolare a cui siamo sottoposti da 50 anni. Chi sono io per suonare la campana? Col tempo, mi sono reso conto, non senza angoscia, che le dure lezioni, tratte dalle mie esperienze all’estero, si rivelavano sempre più rilevanti all’interno, poiché, attraverso il gioco dell’immigrazione, questo “fuori” era diventato il nostro “dentro”. Quali sono questi insegnamenti o queste verità che non sempre è bene dire? Primo, che la realtà del mondo non è né bella né gioiosa e che è suicida prendersene gioco, perché, come un boomerang, si vendica centuplicata. Poi, che, nell’azione, il peggior peccato è assumere i propri desideri per realtà. Che, se il peggio non è sempre certo, è meglio prevederlo per prevenirlo. Che le società “multi” sono tutte destinate a disgregarsi. Che non siamo più “furbi” dei libanesi o degli jugoslavi nel far “convivere” persone che non vogliono. Per prima cosa, non mi impantanerò nei numeri. Perché, con quasi mezzo milione di ingressi annui e un tasso del 40 per cento di bambini da 0 a 4 anni di origine immigrata, la questione mi sembra ovvia su questo piano. D’altra parte, è chiaro che a questo livello, non siamo più nell’addizione di singoli casi – tutti singolari -, ma nella riattivazione di potenti forze collettive, ancorate nella Storia. Sicché procedere a ragionevoli generalizzazioni – quello che si grida in genere sotto il nome di amalgama – non ha infatti, per me, nulla di scandaloso. Cominciamo torcendo il collo alla “papera”, secondo cui la Francia è sempre stata un paese di immigrazione. Per mille anni, dai Carolingi a Napoleone III, non è successo niente. Dal 1850, tuttavia, abbiamo vissuto tre ondate: La prima è durato un secolo. Di origine eurocristiana, discreta, laboriosa, grata, regolata dall’economia e dalla politica, ha rappresentato un modello insuperabile di riuscita fusione. La seconda è iniziata negli anni ’70 e da allora è solo cresciuta. È l’esatto opposto della prima. È un’immigrazione di insediamento irreversibile, che non è calibrata né dal lavoro né dalla politica, ma generata dai diritti individuali, soggetti all’unico giudice nazionale o sovranazionale. Siamo, quindi, travolti dai flussi col pilota automatico, “a ruota libera”. Tutti provengono dal “terzo mondo”, da società fortemente fallimentari, e la maggior parte sono di religione musulmana, oltre che originari delle nostre ex colonie. Inoltre sono, come si dice oggi, “razzializzati”. La terza ondata è stata innescata dieci anni fa dalla cosiddetta “primavera araba”, di cui è una delle nefaste conseguenze. Non possiamo capire molto dell’immigrazione attuale se non abbiamo percepito fin dall’inizio che essa era virtualmente conflittuale, che questi conflitti non erano quantitativi ma qualitativi – quindi insolubili – e che facevano parte in ultima analisi del dolorosissimo contraccolpo antioccidentale innescato dalla globalizzazione. Fingendo di ignorare questo determinismo, siamo stati così sciocchi da reintrodurre nelle nostre società gli ingredienti delle tre tragedie che hanno causato le nostre peggiori disgrazie in passato: Discordia religiosa, antagonismo coloniale e razzismo, da cui pensavamo di esserci liberati dal 1945. Per quanto riguarda la religione, cioè l’islam, questa confessione, interamente importata dall’immigrazione, non è un corrispettivo del cristianesimo, radicato in noi quindici secoli fa e da tempo addomesticato da una laicità tagliata su misura. Da un lato, come fede, l’Islam è una religione “antiquata”, un codice onnicomprensivo di pratiche apparenti, un patchwork di certezze comunitarie, precipitato improvvisamente dal cielo nello stagno di un post-moderno dove la società, che non crede più a niente, è completamente spiazzata da questa devastante irruzione (oggi in Francia ci sono 25 volte più musulmani che negli anni ’60). D’altra parte, come civiltà totale, orgogliosa, guerriera, offensiva, militante, l’Islam ha preso male per due secoli l’umiliazione dell’Occidente. Non appena la globalizzazione gli ha offerto l’opportunità, si è svegliato come un vulcano. Conosciamo le manifestazioni di questa esplosione: jihadismo, salafismo, islamismo, reislamizzazione culturale. Tutti sintomi ormai presenti sul nostro suolo, come tante espressioni crisogene dell’insoddisfazione di un agente storico “anti-status quo”, che aspira all’egemonia là dove è presente, e, quando ci riesce, non condivide la nostra deferenza verso le minoranze. Per questo bisogna avere un “cervello da colibrì” – come diceva de Gaulle – per dimenticare che musulmani ed europei non hanno smesso di battersi, da 13 secoli, per il controllo della sponda settentrionale e meridionale del Mediterraneo e bisogna essere piuttosto ingenui per non percepire, negli odierni andamenti demografici, un risorgere di questa secolare rivalità che, va ricordato, è sempre finita male. Siamo stati così stupidi da immaginare che ricostituendo, sotto lo stesso tetto metropolitano, il faccia a faccia con persone che avevano appena divorziato all’estero, saremmo riusciti a rimetterle assieme. Errore fatale. Di qui il fatto, mai visto da nessuna parte, di un’immigrazione con tendenza al vittimismo e alla rivendicazione, portata tanto al risentimento quanto all’ingratitudine e che, consapevolmente o no, si presenta come creditore di un passato che non passa. Quanto al divario razziale, è dovuto alla visibilità dei nuovi arrivati nello spazio pubblico, anch’essa senza precedenti. Il che porta, ahimè, a instillare nella mente delle persone una griglia di lettura etnica delle relazioni sociali, dove, per contaminazione, ognuno finisce per essere giudicato dall’aspetto. Che spostamento fraudolento e scandaloso, poiché porta i nostri immigrati a pensare che anche loro siano discendenti di schiavi. Ma, non contenti di aver ravvivato questi tre fuochi mai spenti (religioso, coloniale, razziale), siamo riusciti nell’impresa di accenderne tre nuovi, sconosciuti alla nostra storia recente: Il primo è dovuta all’incongrua intrusione di costumi comunitari d’altri tempi, ereditati dai paesi di origine e perpendicolari al nostro modo di vivere: primato dei legami di sangue, sistema di parentela patrilineare, controllo della donna, sorveglianza sociale della sessualità, endogamia, cultura dell’onore e suoi corollari (giustizia privata, diritto del taglione, omertà), ipertrofia dell’autostima, incapacità di autocritica. Senza dimenticare la poligamia, l’escissione, la stregoneria, ecc. Un altro incredibile dissenso: l’alter nazionalismo dei nuovi arrivati, che, a differenza dei loro predecessori, intendono conservare la nazionalità giuridica ed affettiva del paese di origine, in gran parte mitizzata. Con tutti i danni che può causare questa rara dissociazione tra passaporto e fedeltà. Infine, “ciliegina sulla torta”, queste comunità di altrove non solo hanno dispute con la Francia, ma anche tra di loro: nordafricani/subsahariani; algerini/marocchini; turchi/curdi e armeni; afghani, ceceni, sudanesi, eritrei, somali, pakistani, pronti a dare battaglia, ognuno dalla propria parte. Senza dimenticare lo spaventoso paracadutismo di un antisemitismo di tipo orientale. Così, una sorta di “bonus regalo”, assistiamo all’insolito spettacolo di un territorio, trasformato in campo chiuso per tutte le beghe del pianeta, che non ci riguardano. I flussi di immigrazione sono cumulativi. Oltre agli effetti di flusso, ci sono effetti di stock, che a loro volta generano nuovi flussi. Queste correnti obbediscono anche agli effetti di soglia. Oltre un certo volume, cambiano natura e segno. Da possibilmente positivi, cambiano in negativi. Questa soglia di saturazione viene raggiunta tanto più rapidamente quanto più profondo è il divario tra la società di partenza e quella di destinazione. Lo scenario secessionista è la pendenza più naturale di una società “multi”. Quando i gruppi sono ripugnati dal vivere insieme, si formano quelle che vengono chiamate diaspore, costituite da popolazioni extraeuropee, né assimilate né integrate e con una tendenza non cooperativa. Una specie di controcolonizzazione, dal basso, che non dice il suo nome. Di conseguenza, tra questo “arcipelago” e il resto del Paese, sta crollando la fiducia sociale, fondamento stesso delle società felici. Dove la sfiducia diventa sistema, l’altruismo presto scompare al di là dei legami familiari, cioè la solidarietà nazionale. A cominciare dal suo fiore all’occhiello: il welfare state, la cui perpetuazione richiede un minimo di empatia tra contribuenti e beneficiari. L’economista Milton Friedman diceva, a mio avviso giustamente, che il welfare state non era compatibile con la libera circolazione degli individui. Tuttavia, di fronte a queste micro-contro-società, siamo paralizzati. Vi scorgiamo, non senza ragione, tante pentole a pressione, che temiamo soprattutto possano esplodere contemporaneamente. Siamo pronti a passare di compromesso in compromesso. Si tratta di ciò che viene chiamato, per antifrase, “accomodamento ragionevole”, che non è altro che negazioni della libertà di espressione, della giustizia penale, dell’ordine pubblico, della frode sociale e del laicismo o sotto forma di clientelismo agevolato. Tutti questi accordi quotidiani possono moltiplicarsi, ma non bastano per comprare la pace sociale ed è allora che “accade ciò che deve accadere”: quando più poteri sono in aperta competizione, sullo stesso spazio, per ottenere il monopolio della violenza ma anche dei cuori e delle menti, questo è lo scenario che si verifica. Il confronto. Quella che noi modestamente designiamo con l’espressione “violenza urbana” e di cui conosciamo bene la scala ascendente. Rivolte che ora degenerano in guerriglie a bassa intensità, una sorta di intifada alla francese o “remake” minori delle guerre coloniali. Con il culmine di questo continuum che è il terrorismo jihadista. Alla luce di questo bilancio, la mia sensazione è che, se restiamo a guardare, andiamo incontro a grandi disgrazie. Dove stiamo andando? Cosa fare? Se si vuole affrontare un problema, è fondamentale definirne la reale dimensione. Tuttavia, l’apparato statistico, centrato sul criterio della nazionalità, non consente di valutare tutte le ripercussioni di un fenomeno che in gran parte gli sfugge. Per questo è imperativo orientarsi verso statistiche e proiezioni cosiddette “etniche”. Per quanto riguarda il discorso intimidatorio, è l’incredibile predicazione che i media, le ONG, il “popolo” ci servono e il cui unico scopo è organizzare l’impotenza pubblica. Questi elementi di linguaggio sono, ai miei occhi, solo il riflesso di un’ideologia che, come tutte le ideologie, non ha nulla di sacro. Tranne che è stato dominante per 50 anni. Il suo dogma centrale, come tutti sappiamo, è quello di far prevalere, ovunque e sempre, i diritti individuali e universali degli esseri umani che si presumono intercambiabili, rimovibili a piacimento, in un mondo senza confini, dove tutto sarebbe perfetto, senza l’ostacolo anacronistico dello stato nazionale, l’unico teoricamente capace di dire no a questo scempio. Per questo abbiamo lavorato molto attentamente per riabilitarlo, amputando le sue braccia regali per conformarlo al nuovo ideale: lascia andare, lascia correre. La cosa più grave è che questa utopia si difende dall’assalto della realtà solo con un mezzo spregevole: il ricatto. Il ricatto del razzismo che, attraverso le fatwa, promette la morte sociale a tutti coloro che osano mettere la testa fuori dalle trincee. Tuttavia, questa doxa, in forma di fiaba, non dobbiamo temere di proclamarla falsa e incoerente. Falsa, perché, se è vero che gli immigrati entrano come individui, non è meno vero che si stabiliscano come popoli. Ed è proprio questa limpida evidenza che la narrazione ufficiale ci vieta di vedere. Ci viene detto contemporaneamente che l’immigrazione non esiste, che esiste ed è una benedizione, che esiste da sempre ed è inevitabile, che accoglierla è un dovere morale, ma che ci pagherà le pensioni e ci darà lavori che noi non vogliamo. Ma, alla fine, si finisce sempre per imbattersi nello stesso argomento: “non gettare benzina sul fuoco, perché stai facendo il gioco del tal dei tali”. Argomento che è, probabilmente, il più stravagante di tutti, in quanto riconosce che c’è davvero un incendio in corso, ma che è meglio tacere per motivi che non hanno nulla a che fare con esso. Portati a un tale livello di assurdità, ci troviamo di fronte a una triforcazione: – O prendiamo sul serio queste sciocchezze e lasciamo che tutto scivoli via: rotoliamo verso l’abisso, premendo l’acceleratore. – O ci limitiamo ad accompagnare il fenomeno, votando, ogni 3 o 4 anni, leggi che fingono di occuparsi dell’immigrazione, ma che, di fatto, rientrano nella sua gestione amministrativa e tecnocratica. È solo fare un passo indietro per saltare meglio. – O riusciamo a toglierci la camicia di forza e a riprenderci, mostrando finalmente volontà politica, il volante del camion impazzito che da 50 anni guida da solo. Avete indovinato che la mia scelta è ovviamente l’ultima. Ma più precisamente? L’immigrazione – è facile intuirlo – funziona come una pompa che spinge indietro da una parte e risucchia da un’altra. Non possiamo fare nulla, o quasi, per impedire la partenza. Possiamo fare qualsiasi cosa per scoraggiare l’arrivo. Quindi 6 passi principali: Lanciare, urbi et orbi, il messaggio che la marea è cambiata di 180 gradi, attaccando frontalmente l’immigrazione legale, che dovrebbe essere divisa almeno per dieci. L’accesso alla nazionalità deve cessare di essere automatico. Contenere l’immigrazione irregolare, dividendo per 20 o 30 i visti, compresi gli studenti, concessi ai Paesi a rischio, non accogliendo più alcuna domanda di asilo sul nostro territorio, abolendo ogni premio per la frode (soccorso medico di Stato, alloggio, regolarizzazioni, sbarco delle navi di “soccorso”). Attenuare l’attrattiva sociale della Francia, eliminando tutte le prestazioni non contributive per gli stranieri e limitando a 3 figli, per famiglia, gli assegni familiari, rivalutati senza condizioni di reddito. Sgonfiare le diaspore, riducendo tipologie, durate e numeri dei permessi di soggiorno ed escludendo i rinnovi quasi automatici. Rafforzare la nostra laicità cristiana per adattarla alla ben diversa sfida dell’Islam, non neutralizzando più solo lo Stato e la scuola, ma anche lo spazio pubblico, le università e il mondo delle imprese. Se queste proposte rientrano nel quadro del diritto esistente, tanto meglio, altrimenti dovrà essere modificato a qualunque costo. Poiché l’inversione proposta è ora una questione di sicurezza pubblica, la sua ferocia è solo la controparte del tempo perduto. Vi ho appena fatto una diagnosi. Vale a dire, se persistiamo nella nostra cecità, andremo verso un paese dove, al minimo, la vita non sarà più degna di essere vissuta, o, al massimo, in un paese dove, a forza di esplosioni, non saremo più in grado di vivere affatto. Potremmo non condividere questa valutazione e, in questo caso, avrei parlato per non dire nulla. Ma possiamo aderirvi e, in questo caso, le misure avanzate sono la nostra ultima possibilità. Sono consapevole che alcuni di voi potrebbero avermi trovato eccessivo, allarmista, irrealistico, senza sfumature, o generosità, cos’altro so. Vi concedo volentieri altri due difetti. Da un lato, il mio carattere può essere descritto come ostinato, in quanto non accetterò mai di affermare che è notte in pieno giorno. D’altra parte, è vero, sono ossessionato, ma la mia ossessione è rivolta unicamente ai nostri figli e nipoti, verso cui il nostro dovere elementare non è lasciare in eredità un paese caotico, quando lo abbiamo ricevuto dai nostri anziani come un magnifico dono. Ultima domanda, che suppongo che tutti ci poniamo di tanto in tanto: cosa farebbe il generale de Gaulle? Nessuno lo sa, ma sono personalmente convinto di due cose: se fosse stato al potere non ci avrebbe mai messo nei pasticci che ho descritto stasera, e se fosse risorto, temo che mi prenderà per un moderato. Grazie per avermi ascoltato.
Non vi sembra che sia qualcosa di un po’ più concreto della fantomatica emergenza climatica a causa della quale da oltre mezzo secolo ci stanno raccontando che ci restano ancora dieci anni? E ci fosse un cane che ci spiegasse che cosa succederà fra dieci anni se non cambiamo rotta.
2022, l’anno in cui ci hanno tolto anche la libertà di dire che si nasce maschi o femmine
Questa settimana libri e film critici del gender sono stati cancellati in tutta Europa. Un anno vissuto pericolosamente per chi non bacia le scarpe ai fanatici liquidi e non si sottomette al loro caos
Quali libertà di critica ci restano? Criticare l’Islam? Dipende da quanto coraggio si possiede. Criticare l’immigrazione di massa? Se si è pronti a parare i fulmini dei benpensanti. Criticare Greta e le assurdità del movimento ecologista? Se si accetta di passare per irresponsabili. Criticare la “fine della storia”? Se non ci viene una sincope a farsi dare di realisti. Criticare l’aborto al nono mese, l’utero in affitto o la selezione eugenetica? Se non si ha paura di finire su una virtuale Isola del Diavolo, novello capitano reazionario. Criticare la cancel culture? Se si riesce a mangiare senza il conformismo. Ne avevamo una, di libertà di critica, banalissima, che se non ce l’avessero messa in discussione non ci saremmo neanche accorti che era una libertà: ricordare che si nasce maschi o femmine. Il 2022 sarà invece ricordato come l’anno in cui l’abbiamo praticamente persa, costretti a ingurgitare un dogma a colori confetto che domina ormai le nostre vite. La psicologa clinica Erica Anderson ha twittatoche l’impennata transgender in Occidente “sfugge a qualsiasi spiegazione… Sta succedendo qualcosa che ancora non capiamo”. Già… Mentre in Iran si arrestavano registi e attori critici del regime dei mullah islamici, gli attivisti transgender questa settimana riuscivano a far cancellare la proiezione di un film critico del gender in un famoso campus universitario europeo, dopo aver fatto irruzione in un’aula per impedire che l’evento si svolgesse, racconta il Telegraph. La proiezione di Adult Human Female, un documentario che sfida l’ideologia transgender nel Regno Unito, è stata organizzata dal gruppo Academics for Academic Freedom dell’Università di Edimburgo. L’istituzione di 439 anni è conosciuta come una delle case dell’Illuminismo scozzese. Numerosi attivisti hanno occupato un’aula magna a George Square, impedendo che vi si svolgesse la proiezione. Quando gli organizzatori hanno tentato di spostare l’evento in una sede alternativa, altri attivisti sono entrati e alla fine la proiezione è stata cancellata. Nel paese che ci ha dato David Hume… Nelle stesse ore, a Bruxelles, due accademiche erano state invitate al Café Laïque (un importante ritrovo letterario) per discutere di “derive del movimento transgender”. La psichiatra infantile Caroline Eliacheff e la professoressa Céline Masson dovevano parlare del loro ultimo saggio, La Fabrique de l’enfant transgenre, che mette in guardia sul condizionamento psicologico dei minori. In diverse occasioni, Caroline Eliacheff era già stata intimidita e le sue conferenze annullate: a Lille dove le è stato impedito di parlare, a Parigi dove c’è stata la cancellazione di un evento e a Lione, dove uno dei suoi interventi è stato spostato con urgenza. Una ventina di uomini incappucciati a Bruxelles ha lanciato vasi di terracotta contenenti rifiuti ed escrementi contro il pubblico.“Non sono più in pace da nessuna parte”, si rammarica Caroline Eliacheff dopo il nuovo incidente. “L’unica soluzione per me è essere presente di sorpresa agli eventi, come durante un simposio alla Facoltà di Medicina di Parigi, o chiedere un corpo di polizia come è avvenuto a Issy-les-Moulineaux dove le autorità hanno controllato i partecipanti uno per uno”. Nelle stesse ore, a Tolosa, un’opera teatrale critica del gender veniva cancellata. Lo scorso maggio il comico Dave Chappelleè stato aggredito e buttato a terra mentre si esibiva a Los Angeles. L’aggressore aveva con sé una pistola giocattolo e un coltello. Qual è la “colpa” di Chappelle? Aver irriso l’ideologia transgender. Se non bastasse, Chapelle è stato cancellato da parte dei teatri americani. La frase più incriminata di Chappelle? “Ogni essere umano in questa stanza, ogni essere umano sulla Terra, ha dovuto passare attraverso le gambe di una donna”. “Gli scienziati che rifiutano di allinearsi all’ideologia transattivista sono stati rimossi dalle conferenze” dice a Le Point la saggista americana Abigail Shrier, l’autrice di Irreversible damage, che dirigenti dell’American Civil Liberties Union, la storica organizzazione dei diritti civili, hanno chiesto di bandire e, come racconta l’autrice sul Wall Street Journal, docenti si sono spinti a dire: “Incoraggio a bruciare il libro di Abigail Shrier su una pira”. “Altri ricercatori non sono stati in grado di pubblicare i loro studi” continua Shrier a Le Point. “Anche la semplice corrispondenza su riviste, le lettere alla redazione sono state rifiutate. E a questo si aggiunge tutto il continente nero dell’autocensura. Negli Stati Uniti, e in effetti in tutto il Nord America, abbiamo un gruppo di attivisti molto energico e molto potente, tanto che sono in grado di ostacolare i buoni scienziati e la buona ricerca. In effetti, penso che sia molto difficile, se non vivi negli Stati Uniti, capire tutto il terrore che provocano questi militanti. Molte persone oggi hanno semplicemente paura di dire cose che sanno essere vere. Principalmente perché hanno paura di essere licenziati. Hanno paura che i loro libri scompaiano da Amazon, come è successo a me. In America, nel nostro tempo, i libri stanno scomparendo. Fa parte della nostra realtà. Sai, quando hai passato così tanti anni a sviluppare una carriera, che sia in medicina o nella ricerca o altro, e puoi essere licenziato per aver detto quello che pensi, si crea davvero una cultura in cui le persone hanno paura di dire la verità. Sono terrorizzati e questo è perfettamente comprensibile”. Va da sé che il libro di Shrier non sia mai stato tradotto in Italia, il paese, più che della censura, del conformismo ammorbante. In Svezia un professore veniva intanto licenziato per il suo rifiuto di chiamare uno studente “non binario” con hen, il pronome neutro, perché contrario alla sua fede cristiana. In Irlanda, invece, trascorrerà il Natale in prigione l’insegnante Enoch Burke che ha preferito violare le regole della scuola e un ordine del giudice pur di non usare i pronomi neutri. Hadley Freeman, penna ironica e appassionata del Guardian, se ne andava dal suo giornale, dopo 22 anni di onorato servizio. “Hai detto che entrambi i lati del dibattito sul gender sono ugualmente appassionati, ma che solo una parte richiede la censura” aveva scritto alla direttrice. “Ecco, mi sembra che sia questa fazione ad aver vinto”. Infine, si registravano dimissioni in massa dal sindacato scrittori britannico. Una fonte che ha lasciato l’organizzazione ha detto al Telegraph: “La società ha capitolato a un’ideologia in cui non sembra più essere disposta a sostenere qualsiasi autore che ritenga colpevole di ‘pensare sbagliato’”. Cosa è accaduto nell’amena provincia anglosassone, altrimenti nota per istituti all’avanguardia nella ricerca, popolazione istruita e liberal come si conviene? Un 2022 sicuramente interessante per chi osserva il rapido disfacimento della democrazia occidentale sotto i colpi di un politically correct che non è mai stato tanto arrogante, quindi debole e autodistruttivo. Conferenze accademiche cancellate, presentazioni di libri attaccate, visioni di film annullate, insegnanti licenziati e finiti nei guai con la giustizia, aggressioni nei teatri, dimissioni forzate…Cos’altro ci serve per capire che nell’anno che sta finendo è successo qualcosa di incredibile, la messa in discussione della libertà di pensiero e di parola su quello che fino a ieri era considerato banale “consenso”, ovvero che ci sono solo due sessi, che ci si può chiamare e vestire come si vuole ma che imporre questo relativismo maniacale a tutta la società è il segno di uno strisciante totalitarismo? Giulio Meotti
E di documenti come questo, con episodi identici riguardanti altre persone e altri luoghi, ne ho in archivio qualche centinaio. Poi ci sarebbe il prete contrario all’aborto, e per questo sostenitore di Trump che è contrario all’aborto, a differenza del cattolico Biden che lo sostiene a spada tratta, e per questo sospeso a divinis dal Vaticano. E in questa gara a chi perde più in fretta la propria identità, direi che ci sta bene l’intervento di Giorgia Meloni alla celebrazione della prima sera di Chanukkah (tappandoci le orecchie su Ucraina e tetto: vabbè, la perfezione non è di questo mondo).
Vi ricordate lo slogan dei pacifisti al tempo della guerra in Iraq? “Non una sola goccia di sangue per il petrolio”. Bello, vero? Ma poi, si sa, i giorni passano, i tempi cambiano, i fronti cadono, la piazza calmasi, e ci ritroviamo in un tempo in cui per un po’ di petrolio si può passare sopra non solo a fiumi di sangue, ma anche alle donne fatte a pezzi (NOTA: gli stomaci delicati prima di leggere si procurino un po’ di Maalox).
Ursula, il gas azero vale il tuo silenzio sulle donne armene fatte a pezzi?
Il grande attore francese di origine armena Simon Abkarian ha scritto questa bellissima lettera aperta a Ursula von der Leyen e uscita oggi su Le Figaro. La riproduco, perché nessun giornale italiano oserebbe mai pubblicarla. Per oltraggio alla UE? Per implicito tradimento del campo anti-Putin? Per viltà nei confronti degli sgherri della mezzaluna e dei loro crimini?
Cara signora Ursula von der Leyen, gli artisti non possono rimanere sordi al frastuono del mondo. Come te, che occupi la prestigiosa carica di Presidente della Commissione Europea, siamo tenuti, a modo nostro, a nominarne le convulsioni per alleviarle. Quando i soldati dell’esercito azero violentano, mutilano e fanno a pezzi Gayane Abgaryan, soldatessa armena, non si pongono la questione del valore della luce, dell’ambientazione, dell’impatto delle loro “immagini”. Non fanno domande. Un soldato sta filmando. Ha il sole alle spalle. La sua ombra si proietta sul cadavere mutilato di Gayane. Le braccia della soldatessa sono legate sopra la testa. Le sue mani non sono visibili. A torso nudo, sembra una sacerdotessa che inarca la schiena e porge un calice invisibile agli antichi dei. Una scritta nera a pennarello ne macchia la pelle bianca. Una pietra è conficcata nell’orbita sinistra, probabilmente perché ha osato prenderli di mira. L’ombra del “cameraman” si allontana, allarga l’inquadratura, vaga su altri cadaveri. Questa volta sono uomini, soldati armeni. Irriconoscibili. È un Golgota. Poi l’uomo che filma ritorna sul cadavere di Gayane. È lei il “fulcro” di quest’opera macabra. La sua pelle color marmo irradia questo triste spettacolo. Un calcio di stivale ne fa muovere i seni nudi. Un dito sporge dalla bocca e termina con un’unghia colorata di rosa pallido. Il suo, quello di Gayane. Dove sono gli altri? Sotto la giacca? Il dito nella bocca era quello che premeva il grilletto del suo fucile? È per questo che l’hanno tagliato? Per punirla? Gayane era un cecchino. Spengo il video. Ma poi guardo di nuovo e vedo quello che non volevo vedere la prima volta. Le sue gambe non sono sepolte, sono state tagliate all’altezza del bacino. Non ci sono più, le sue gambe. Una Venere di Milo capovolta, un’opera innaturale. Perché tagliarle le gambe? Cerco di capire. Forse spingeva via con i piedi i suoi aggressori che cercavano di violentarla? Immagino le dimensioni della lama che porta all’orribile scena, poi cado sullo sguardo sconvolto di Gayané e mi arrendo.
Simon Abkarian
Nessuno scrittore può raccontare le urla che questa donna deve aver emesso mentre i suoi assassini la facevano a pezzi. Nessuno scultore potrebbe riprodurre le maschere di sofferenza che ne hanno attraversato il volto. Nessun pittore potrebbe catturare la portata del suo dolore. E poi, da dove sarebbero partiti? Dall’occhio, il dito, le gambe? Le hanno spinto qualcosa nella vagina? Se sì, cosa e con quale frequenza? Quanti erano quelli che la trattenevano durante il calvario? Tre? Quattro? Sette? L’hanno violentata dopo averle cavato un occhio? Il corpo mutilato di Gayane suscita in me domande che speravo fossero superate. Mi ritrovo a sperare nel momento finale della sua vita che la libera dal tormento. Il momento in cui la sua anima lascia il corpo e raggiunge le vette dove si annidano i suoi antenati, il momento finale in cui l’ultimo respiro le esce dalla gola tra due colpi di tosse pieni di sangue, lacrime e maledizioni silenziose. Gli “attori” di questo sinistro “cortometraggio” mi riportano alla realtà. Sono fuori dall’inquadratura, posso solo sentire le loro voci. Non vediamo mai i loro volti, in nessun momento. Poi mi sembra di capire una frase in turco: “È una donna?”. Ridono e giocano sul registro della crudeltà e vi si applicano. Cos’altro possono fare? Dal X secolo, è lo stesso scenario che costituisce l’identità nazionale dei turco-azeri: far soffrire le minoranze, soprattutto la più simbolica di esse, le donne. Qui non ci sono parole o testi che possano mitigare la violenza inaudita che il corpo di Gayané ha subito. Le frasi improvvisate ruotano intorno a una ventina di parole; la stessa retorica razzista anti-armena, insegnata dalle scuole elementari alle superiori. Gayané è morta per difendere la sua patria. Il sole delle montagne splende sulla schiena del suo carnefice che continua a filmare. Non possiamo vedere i volti dei suoi aggressori, sono contro luce, contro la vita. Gayane è morta mille volte, la sua tortura è l’orgoglio di questi aguzzini in uniforme. Siamo nel 2022? Se questa donna di 36 anni fosse caduta per difendere il suo Paese, avremmo il diritto di dire che conosceva i rischi. In guerra si uccide, si muore. Ma se fosse stata catturata da un esercito convenzionale che si rispetti, avremmo il diritto di aspettarci che sarebbe stata protetta dalle leggi internazionali. Ma sembra che le Convenzioni di Ginevra non siano applicabili in Anatolia, tanto meno nel Caucaso meridionale. Quello che vediamo in questo video (ce ne sono tanti altri), cara signora Ursula, è un crimine di guerra, un crimine contro l’umanità, un crimine contro la natura che getta la ragione a coronamento dell’orrore. Un crimine la cui storia dovrebbe essere gridata in un deserto, ma io devo esserne il triste messaggero perché sappiate cosa hanno fatto questi soldati a questa giovane donna. E continueranno. Da un punto di vista simbolico, potremmo dire che è la dittatura a calpestare la democrazia, che è la barbarie a violentare e uccidere il mondo civilizzato, e voi sareste d’accordo… oppure no. Quello che vedo in questo video sono uomini che hanno metodicamente violentato e torturato una donna fino alla morte. Una donna, una madre. Oh, Ursula von der Leyen, non si preoccupi, non sto facendo appello al suo carattere femminile, al suo cuore o alla sua morale, ovviamente il suo pragmatismo ha avuto la meglio su tutti e tre. Proprio in questo momento, mentre state concludendo i termini del vostro accordo con l’Azerbaigian, il video in questione spopola sui social di Baku. Le riprese e la trasmissione sono un passo avanti, un “progresso” per un Paese che assume e sguazza nella sua barbarie e nel suo sadismo.
Ursula von der Leyen con Aliyev
Devi posare accanto alla tua preda, che è diventata un trofeo, prenderla a calci, oltraggiarla a morte, brandire i suoi resti, crocifiggerla sulla porta che separa i nostri due mondi. Voi fate parte di una di esse. Quale? Come il gas azero, questi video dell’indicibile circoleranno presto in Europa. Quando stringerete di nuovo la mano ad Aliyev, il vostro partner “affidabile”, con cui ridete e scherzate allegramente, non dimenticate che state firmando un patto con il peggio che la dittatura ha prodotto e che state facendo un accordo contrario alle aspirazioni democratiche dell’Europa. Così facendo, state soffocando l’omicidio di Gayané e tutti quelli che seguiranno. Lei, la cui posizione richiede un’assoluta e indiscutibile correttezza politica, è quindi complice di questa barbarie senza nome. Willy Brandt si starà rivoltando nella tomba. Che triste naufragio. Temo il giorno in cui, di disillusione in disillusione, non sarò più in grado di scrivere la parola democrazia e sarà a causa di persone come voi. Nonostante le loro uniformi, che sono quelle di un esercito convenzionale, i soldati azeri si comportano come orde barbare. Si uniscono al campo dell’Isis. Ricorda, signora, la micidiale “messa in scena” dei jihadisti che decapitano, bruciano e lapidano uomini e donne inermi? Finché le forze curde, comprese le donne, non li hanno fermati a Kobane. C’è un solo obiettivo in questo video che questi soldati senza onore hanno “fatto”: spaventare. Provocare lo stordimento degli armeni. Farli fuggire dalle loro terre ancestrali. Gli azeri sono protetti innanzitutto dal loro personale militare. Sono la triste eco del loro generale in capo, Ilham Aliyev, che vede gli armeni come cani da scacciare. Non siamo più esseri umani, ma subumani animalizzati. Sanno che nessun governo o ente li perseguirà. Sanno di essere l’alternativa al gas russo. Perché altrimenti rischierebbero di alienarsi la comunità internazionale, altamente selettiva? Come i loro fratelli maggiori negazionisti in Turchia, stanno perpetuando una tradizione di femminicidio che è stata ritualizzata e celebrata per secoli. E non è solo il corpo della donna che si vuole possedere e distruggere, ma il grembo stesso che dà vita e racchiude in sé la storia del popolo armeno. Il grembo materno: è lì, in questa “terra”, che vogliono piantare il loro stendardo con la mezzaluna. Le donne greche, curde, assire, yazidi, alevite e caldee lo sanno fin troppo bene, signora. Per questi uomini dalla mentalità testicolare con cui fate affari, l’atto di coraggio è la conquista e la devastazione del corpo femminile. Così soggiogato, posseduto, contaminato e sfregiato, avrebbe (secondo la loro illusione) fatto perdere al nemico onore e virilità. È una castrazione che passa attraverso il corpo della donna conquistata, sottomessa, servile, domata, strisciante, implorante, umiliata, uccisa, massacrata. Gayane non è sfuggita al suo tempo, non è scappata, non gli ha voltato le spalle. Avanzava, armi in mano, all’indietro in questa favola chiamata Storia, che da secoli si costruisce vomitando se stessa. Il corpo di Gayané, che si oppone agli invasori, si incarna come un territorio che essi devono penetrare, conquistare, devastare. Un Paese che devono prendere con la forza, smembrare e dal quale devono cancellare ogni traccia che attesti chi era. Devono sfigurare Gayane, farle pagare la sua audacia di donna fino a renderla irriconoscibile, fino a devastarla come queste case diroccate, senza porte né finestre, senza tetti né case, come queste chiese sventrate che sono diventate parcheggi, stalle o moschee, questi cimiteri rivoltati dai bulldozer, queste khatchkar (stele) polverizzate con il martello pneumatico, questi campi che sono tornati a essere terre desolate, queste antiche città che sono state ribattezzate e rinominate in fretta e furia. No, ai loro occhi Gayane non sarà mai abbastanza morta. Devono gioire della sua morte finché la polvere e il nulla non si contenderanno il suo nome. Signora Von der Leyen, perché non condannare questi “cortometraggi” dell’orrore che piacciono tanto ai soldati dell’esercito azero? Perché finanziate e “coproducete” il prossimo “lungometraggio”, quello che racconterà la caduta definitiva del popolo armeno? Come potete accettare una sceneggiatura così scadente? Perché lo fate? Per il gas azero? È la stessa cosa di quello russo e lei lo sa! Pubblicata da Giulio Meotti
Già, il gas russo va sottoposto a sanzione perché Putin “invade” terre altrui, bombarda e uccide; quello immacolato dell’immacolatissimo Aliyev, invece, è praticamente acqua santa, e la limpida coscienza dei nostri burocrati non si lascerà certo distrarre da un po’ di stragi, non importa quanto vaste, non importa quanto feroci. Se poi le vittime oltretutto sono delle semplici donne, perché mai dovrebbero occuparsene? Ursula, dopotutto, è abituata a farsi lasciare in piedi, senza fare una piega, mentre gli uomini si accomodano sulle sedie d’onore: quale prova migliore del fatto che le donne, lassù, valgono meno di zero?
La letteratura contemporanea è morta. È solo noiosa propaganda
Il Nobel a un’altra beghina che ci serve il menù del giorno: abortismo da salotto, appelli per i brigatisti italiani a Parigi, outing a sinistra, boicottaggio d’Israele e rogo dei colleghi “fascisti”
“Signor presidente Macron, non riconsegni all’Italia i brigatisti italiani”. Firmato, su Libération, Annie Ernaux, il Premio Nobel per la Letteratura 2022. Sono fatti così, non si fanno mai mancare l’appello “ribelle”, anche quando si tratta di difendere Marina Petrella, condannata per l’omicidio del generale dei Carabinieri Enrico Galvaligi. Non si fanno mancare neanche l’appello a favore dei migranti africani che occupano i locali di un’università a Parigi. Ma se il loro cuore sta a sinistra, il portafoglio è al sicuro a destra. Tasche piene, coscienza pulita e la morale come crampo snobistico. Lo scrittore Frédéric Beigbeder su Le Figaroha stroncato Annie Ernaux con parole definitive: “Sembra che la celebrazione della signora Ernaux sia diventata obbligatoria in Francia. In mezzo secolo, Annie Ernaux ha scritto in successione di suo padre, di sua madre, del suo amante, del suo aborto, della malattia della madre, del suo lutto, del suo ipermercato. I suoi libri sono accolti all’unanimità. Il pubblico segue. Le edizioni Gallimard hanno raccolto la sua opera in un grande volume. La Pléiade arriverà presto, il Nobel è imminente, l’Accademia si spazientisce e mia figlia la sta studiando al liceo. Un consiglio a François Hollande: aprite il Panthéon ai vivi, soprattutto per Madame Ernaux. Solo Maxime Gorky godette di una gloria paragonabile nell’URSS degli anni ‘30. Ma è lecito diffidare di tale santificazione collettiva”. No, non troverete niente del genere oggi sulla stampa italiana, che invece si sdilinquisce di elogi per la scrittrice (d’altronde hanno osannato Dario Fo, mummificato Eugenio Scalfari, santificato Michele Serra e divinizzato Roberto Saviano). Neanche nell’anno della coltellata a Salman Rushdie i convitati del Nobel per la letteratura hanno avuto il coraggio di uno scatto di orgoglio, premiando qualcuno che non facesse sbadigliare di conformismo. Avete presente il ritornello di Fausto Bertinotti in uno sfigatissimo congresso di Rifondazione comunista (“siamo tutti ebrei, gay, lesbiche, neri”)? Applicatelo alla letteratura e avrete Ernaux: “Essere di sinistra è vedere l’Altro, maliano o cinese che sia, etero o gay, cattolico, ebreo o musulmano, zingaro o senzatetto, criminale o pedofilo, come prima cosa simili a se stessi e non diversi”, ha scritto Ernaux. L’Altro non è lo straniero, ma il Medesimo che deve essere protetto dal nostro razzismo e il glorioso multiculturalismo ci libererà da una società attaccata alle sue “radici”. Aggiungiamoci una trama da filmato familiare costruita su una buona scrittura e avremo Annie Ernaux, come il novanta per cento degli scrittori contemporanei. Un vero Nobel per la Letteratura, Saul Bellow, odiava questa ortodossia letteraria, arrivando a scrivere: “E’ evidente agli osservatori esperti che le persone ben intenzionate preferiscono enfaticamente le cose ‘buone’. Il loro desiderio è quello di essere identificato con il ‘meglio’. Più sono ricche e ‘meglio istruite’, più si sforzano di identificarsi con le opinioni più largamente accettate e rispettate. Quindi sono naturalmente per la giustizia, per la cura e la compassione, per gli abusati e gli oppressi, contro il razzismo, il sessismo, l’omofobia, contro la discriminazione, contro l’imperialismo, il colonialismo, lo sfruttamento, contro il fumo, contro le molestie – per tutte le cose buone. Vedendo queste persone ricoperte virtualmente di credenziali, medaglie, distintivi, mi vengono in mente gli strati di medaglie indossate dai generali sovietici nelle fotografie ufficiali. Mentre cresce il fascino del conformismo, differire è pericoloso”. Dalle sue nevrosi e dalla sua vita – la sua infanzia, i suoi genitori della classe operaia, il suo “aborto liberatorio” (Ernaux parla del bambino come “questa realtà dentro la pancia” e “questa cosa qui”), i suoi acquisti alla Lidl, la sua ascesa sociale, il suo odio per i liberali – Annie Ernaux ha attinto per mezzo secolo un’opera letteraria ancorata sempre al campo del “bene”, quello degli “oppressi” contro gli “oppressori”. Il sublime Philippe Muray, l’autore dell’Impero del bene, l’ha definita “intrauterina”. E il celebre giornalista e saggista Denis Tillinac, scomparso un anno fa, a chi gli faceva presente che a forza di fumare due pacchetti al giorno sarebbe finito male invece rispondeva: “Sempre meglio che morire di noia leggendo Annie Ernaux”. “Molti di noi vogliono un mondo in cui i bisogni primari, un’alimentazione sana, la sanità, l’alloggio, l’istruzione, la cultura, siano garantiti a tutti” ha scritto Ernaux due anni fa al primo lockdown per il Covid. E noi che avevamo stupidamente pensato che tutto questo esistesse già in Europa con la sua istruzione gratuita, sanità gratuita, cultura gratuita, ecc… Ma le banalità sono merce corrente nella lagna che governa il “dibattito” (che in verità è un monologo). E come ricorda Les Echos, Ernaux ha votato per la sinistra radicale e filo-islamica di Jean-Luc Mélenchon ed è una storica militante filopalestinese. Il Jerusalem Post la racconta così: “La scrittrice francese Annie Ernaux è una convinta sostenitrice del boicottaggio di Israele, ha firmato una lettera chiedendo il boicottaggio del concorso musicale Eurovision a Tel Aviv e della stagione interculturale Israel-France da parte dei governi israeliano e francese e un appello per chiedere il rilascio di Georges Abdallah (che ha fondato le Fazioni armate rivoluzionarie libanesi nel 1980 ed è stato condannato all’ergastolo per l’assassinio nel 1982 dell’addetto militare statunitense Charles R. Ray e del diplomatico israeliano Yaakov Bar-Simantov)”. Titola oggi la BILD, il maggiore giornale tedesco: “Incredibile, Ernaux ha chiesto il rilascio di Georges Ibrahim Abdallah, un famigerato terrorista libanese che si trova in una prigione francese per l’omicidio di un americano e di un israeliano davanti alla moglie e alla figlia di otto anni”. La stessa cupezza e cecità pseudo-rivoluzionaria che ha spinto Ernaux a firmare appelli per i terroristi italiani che hanno fatto la bella vita a Parigi senza pagare mai pegno. E che, come scrive su Le Figaro Guillaume Perrault, “venivano descritti come combattenti per la libertà”. Come faceva il regista Jean-Luc Godard. Ernaux è la stessa che ha disintegrato, letteralmente, la carriera di uno scrittore ben più talentuoso di lei, Richard Millet, con un solo articolo su Le Monde, in cui accusò Millet, all’epoca editor di Gallimard (la stessa casa editrice di Ernaux), di aver scritto un “pamphlet fascista” che “disonora la letteratura”. Si riferiva a Elogio letterario di Anders Breivik (in Italia lo ha stampato, nel 2014, Liberilibri), in cui Millet, partendo dall’eccidio norvegese di Utoya, ragiona sulla fine dell’Occidente. Da allora Millet, in patria, è una specie di paria. Ma avrebbe ricambiato il favore nel suo libro L’inferno del romanzo. Riflessioni sulla postletteratura: “L’essenza della stupidità, oggi come ieri, è voler essere intelligente; da qui la sua efficacia, sentimentale o coercitiva, unanimista, soprattutto nei campi letterari, accompagnato da una sorveglianza ideologica altrettanto attiva e formidabile come in Unione Sovietica, come i libri di Ernaux, che sono la versione extracurricolare, miserabile e narcisistica della propaganda di sinistra”. Ernaux vomitò le peggiori accuse contro Richard Millet, reo di aver osato scrivere che “la vera letteratura è morta”, uccisa dal “ripopolamento dell’Europa da parte di popolazioni la cui cultura è estranea alla nostra”, una “postletteratura” frutto di multiculturalismo, antirazzismo, diritti umani, “benpensante”. Ernaux deve essersi riconosciuta nella descrizione di Millet. Questa mattina ho mandato un messaggio a Millet chiedendogli un commento sul Nobel e ha così risposto, laconico: “Ernaux è solo un elemento della sinistra culturale che governa l’Occidente” (un anno fa lo intervistai per la newsletter). La “scrittrice ufficiale” Annie Ernaux, come la chiama Beigbeder, dimostra dunque che il woke è un menù completo dove non puoi saltare una portata: abortismo spinto, moralismo d’accatto, fervore per le cause terzomondiste (quando non terroristiche) e censura delle idee avverse. Ma il canone è feroce (letteratura, arte, cinema, giornalismo, teatro, università) e se l’opera è arruolabile e politicamente corretta scatta l’applauso (e il Nobel); se non lo è, che scompaiano l’autore e la sua opera. E io che pensavo che il ruolo dello scrittore non fosse quello di abbagliarci con il settarismo e il vuoto ideologico. Per questo il Nobel lo meritava Michel Houellebecq, che anziché dirci perché abortiamo ci racconta che non sappiamo più vivere e che nel suo ultimo saggio su Unherd ha accusato la “sinistra-progressista-umanista” (quella di Ernaux) di considerare l’immigrazione di massa non un suicidio, come dovrebbe, ma come una “rigenerazione”, domandandosi infine se “la nostra ‘civiltà’ ha davvero ancora qualcosa di cui essere orgogliosi”. In attesa di un Nobel più degno, riapriamo le Considerazioni di un impolitico di quel reazionario di Thomas Mann, dove troviamo questa frase: “Non solo non penso che il destino dell’uomo si esaurisca nell’attività pubblica e sociale, ma trovo quest’opinione disgustosa e inumana. Secondo me i più importanti campi dello spirito umano, religione, filosofia, arte, poesia, scienza, sussistono accanto allo Stato, al di sopra e al di fuori dello Stato, e assai sovente gli si contrappongono”. Così scriveva uno degli ultimi uomini della cultura europea. Giulio Meotti
In poche parole, la classica zoccola comunista. Risolleviamoci un po’ il morale con un bel mucchio di artisti veri
Nel paese che ha accolto tutti, nessuno è al sicuro
La Svezia ha il record di morti da pistola (uno a settimana). Anche la premier di sinistra dice: “Non vogliamo diventare la Somalia”. In soli 15 anni gli immigrati sono passati dal 20 al 30 per cento
“Gli svedesi sono diventati fin troppo familiari con la violenza armata. Ma la sparatoria che ha ferito una madre e il suo bambino in un parco giochi la scorsa settimana ha fornito uno scenario ancora più scioccante e violento alle elezioni parlamentari dell’11 settembre”. Così racconta il Financial Times. Anche il giornale dell’establishment finanziario europeo si è accorto che qualcosa è andato storto nel paese-faro dei buoni costumi e sentimenti. “Sta peggiorando sempre di più in termini di crimini violenti, preoccupa la gente”, dice Torsten Elofsson, l’ex capo della polizia di Malmö candidato con la Democrazia Cristiana di centrodestra. “Un tempo c’erano solo Stoccolma, Göteborg e Malmö. Ora lo vedi nelle piccole città. Si sta avvicinando sempre di più a dove vive la maggior parte delle persone”. Gli svedesi che desiderano che le loro famiglie siano al sicuro stanno esaurendo i posti in cui nascondersi e trasferirsi, a meno che non decidano di lasciarsi la Svezia alle spalle, come alcuni fanno già. Ne hanno abbastanza di vivere in un paese che ha registrato 342 sparatorie in un anno: quasi una al giorno. Nell’ultimo decennio, la Svezia è passata da uno dei tassi pro capite di sparatorie mortali più bassi in Europa al più alto, secondo i dati del “Consiglio nazionale svedese per la prevenzione della criminalità”. Quest’anno la Svezia è sulla buona strada per superare un record di sparatorie mortali con un totale di 44 morti entro metà agosto, non lontano dal picco di 47 nel 2020. Nicholas Aylott, professore alla Södertörn University, dice di aver letto di recente di un 17enne ucciso a colpi di arma da fuoco a Stoccolma, per poi scoprire che la vittima era un amico di suo figlio. “È incredibile, ma in un certo senso inevitabile. Smette di essere qualcosa di cui leggi sui giornali ed è qualcosa che sperimenti. Non potresti avere un simbolo più chiaro di come è cambiata la Svezia”. Nel paese che ha accolto tutti indiscriminatamente, dal Pakistan come dalla Siria, dalla Nigeria come dalla Somalia, nessuno si sente più al sicuro. Un parco giochi a Eskilstuna, una città di 100.000 persone, è diventato il centro dell’attenzione dopo che la sparatoria ha scioccato la nazione. La madre e il suo bambino di cinque anni, feriti gravemente, sono rimasti coinvolti nello scontro a fuoco tra bande. Il padre del bambino ha detto al quotidiano Dagens Nyheter: “Come possiamo vivere in un posto dove i bambini rischiano di essere uccisi in un parco giochi? Non c’è più sicurezza”. “Questo è un attacco a tutta la società e quindi tutta la società deve difendersi”, ha detto il primo ministro di centrosinistra Magdalena Andersson durante una visita a Eskilstuna questa settimana. “Paramedici e vigili del fuoco non sono gli unici a dover prendere precauzioni prima di entrare in queste ‘aree vulnerabili’” scrive Paulina Neuding sullo Spectator. “Il sobborgo di Tensta a Stoccolma ha avuto un parcheggio gratuito per mesi, dopo che l’area è stata considerata troppo pericolosa per l’ingresso dei vigili urbani. Il servizio postale per periodi di tempo non ha consegnato pacchi a un quartiere nel centro di Malmö. Diverse biblioteche pubbliche hanno dovuto ridurre i propri orari di apertura o addirittura chiudere temporaneamente in risposta alle molestie da parte di bande di giovani. In un quartiere a Göteborg, bambini dell’asilo e della scuola materna sono scesi in piazza con i loro insegnanti per protestare contro la violenza delle bande dopo una dozzina di sparatorie nella zona in pochi mesi, di cui una nel cortile della scuola materna. ‘Quando i bambini vengono all’asilo, i genitori ci pregano di tenerli dentro’”. La città di Malmö (la terza della Svezia) ospita uno dei sobborghi più famosi del paese, Rosengård. “Per molti anni siamo stati messi a tacere e il problema non è stato preso sul serio dai politici o dai media”, dice Torsten Elofsson, aggiungendo che “c’erano segni crescenti di società parallele e versioni locali della sharia”. A Linköping in una bicicletta sono stati nascosti 15 chili di esplosivo che hanno provocato danni a un intero isolato, ferendo 25 persone. Il criminologo Amir Rostami, citato dalla BBC, ha paragonato la situazione svedese a quella messicana. Al centro commerciale Emporia, non lontano dal ponte che collega Malmö e Copenaghen e che fu molto usato dai migranti per entrare nel paese nel 2015, una donna dice al Financial Times di “non essere mai stata a Rosengård e spero di non farlo mai”. Due giorni dopo, un uomo è stato ucciso a colpi di arma da fuoco nello stesso centro commerciale. A Landskrona, altra città della Svezia meridionale – 35.0000 abitanti – dal dicembre 2018 ci sono state sette esplosioni o attentati dinamitardi. Hanno fatto saltare in aria anche l’ingresso del municipio. A Uppsala, la pittoresca città universitaria, l’80 per cento delle ragazze non si sente al sicuro nel centro urbano. E i funzionari di Uppsala cosa hanno detto alla stampa? “Incoraggiamo le ragazze che non si sentono al sicuro a pensare ciò che devono fare per sentirsi al sicuro, come non camminare da sole per strada, assicurarsi che qualcuno vada a prenderle e qualsiasi altra cosa che possa ridurre il loro senso di insicurezza”. Secondo il Rapporto sulla sicurezza nazionale, pubblicato dal Consiglio nazionale svedese per la prevenzione della criminalità, quattro donne su dieci hanno paura di camminare liberamente per strada. “Quasi un quarto della popolazione sceglie di prendere una strada diversa o un altro mezzo di trasporto a causa dell’ansia all’idea di essere vittima di un crimine”. A Libération, Camila Salazar Atías, che lavora presso Fryshuset, un’organizzazione che si occupa di prevenzione, osserva l’escalation della violenza all’interno delle città: “Prima si sparava a una gamba, come avvertimento, ora sparano per uccidere”. Solo il 25 per cento degli omicidi sfocia in una condanna e il 75 per cento dei casi sono irrisolti, così che “il rischio di essere scoperti è molto basso, il che porta a correre maggiori rischi, come sparare in pieno giorno e in luoghi affollati”. Come quello che è successo a Malmö la scorsa settimana. Citando i dati ufficiali del Consiglio svedese per la prevenzione della criminalità, il quotidiano tedesco Bild titola che “la Svezia è il paese più pericoloso d’Europa“. Il giornale più letto e venduto in Germania ha analizzato uno studio relativo alla violenza armata con i dati che mostrano quanto sia diventata pericolosa la Svezia. “Nell’UE, una media di 8 persone per milione sono vittime di violenze mortali. In Svezia, il numero è di 12 persone per milione di abitanti. Quando si tratta di vittime di armi da fuoco, la differenza tra Europa e Svezia è ancora maggiore. Nell’UE, una media di 1,6 persone per milione muoiono per ferite da arma da fuoco e in Svezia la cifra è quattro volte di più”. Le morti da arma da fuoco sono triplicate dal 2012 al 2020. La criminologa Manne Gerell dell’Università di Malmö ha fornito al quotidiano Aftenposten un elenco di possibili cause per cui uno dei paesi più sicuri d’Europa sia diventato il più pericoloso: l’aumento del numero di bande criminali, la fallita integrazione degli immigrati e i progetti abitativi multiculturali degli anni ’60 e ’70. In pratica è la messa in discussione di 50 anni di politica migratoria. Il commissario di polizia di Göteborg, Erik Norde, ha collegato la violenza in Svezia all’immigrazione di massa. “Oggi non è più un segreto che gran parte del problema della criminalità tra bande e reti con le sparatorie e le esplosioni sia legato all’immigrazione in Svezia negli ultimi decenni”, ha scritto Norde in un editoriale per Goteborgs Posten. “Quando, come me, hai l’opportunità di vedere casi a livello individuale, vedi che praticamente tutti coloro che sparano o vengono uccisi nei conflitti tra bande provengono dai Balcani, dal Medio Oriente, dall’Africa settentrionale o orientale”. Anche Le Monde, il giornale della sinistra francese, questa settimana racconta il “flagello svedese”: “Nessun altro paese europeo ha visto un tale aumento del numero di vittime di sparatorie negli ultimi dieci anni, con quattro morti per milione di abitanti in Svezia, rispetto a una media di 1,6 nel resto d’Europa. Manne Gerell, professore nel dipartimento di criminologia dell’Università di Malmö, dice che ci sono molte ragioni per questo fenomeno. ‘L’integrazione sociale che non ha funzionato in un contesto di molta immigrazione. Non c’è stata disponibilità a riconoscere che c’era un problema ed è solo diventato più forte con il tempo. La situazione è peggiorata così tanto che è difficile tornare indietro’”. A Le Monde il 60enne parlamentare di destra Jörgen Grubb dice: “Sono cresciuto a Malmö, dove gli immigrati hanno sostituito gli svedesi. Mia moglie vuole trasferirsi. Non si sente più al sicuro. Qualche anno fa è esplosa un’auto qui accanto. Una giorno abbiamo sentito spari automatici. Gli elicotteri sorvolano il quartiere quasi ogni giorno”. Come ci si è arrivati? Basta sfogliare il dossier dell’istituto francese Polémia: “La Svezia è un esempio edificante della trasformazione della popolazione di un paese europeo. Secondo i dati dell’Istituto di statistica svedese, la popolazione svedese negli anni ’50 era composta da 7 milioni di abitanti, di cui 197.000 nati all’estero. Poiché la popolazione ha raggiunto i 10 milioni nel 2017, il numero di residenti nati all’estero in Svezia è aumentato di dieci volte a 1,8 milioni. La popolazione straniera da due generazioni è aumentata dal 20 per cento della popolazione totale nel 2002 al 30 per cento nel 2017. Mentre la popolazione autoctona è diminuita nel periodo di 94.000 abitanti, la popolazione straniera è aumentata di 1,1 milioni di abitanti. Frontiere più basse e criteri di ammissione generosi hanno contribuito all’esplosione del numero di richiedenti asilo. Il risultato c’è: la popolazione straniera nelle città con più di 200.000 abitanti raggiunge il 44 per cento. L’Islam è diventata la seconda religione del Paese. In Svezia come altrove, la popolazione non è mai stata consultata sulla trasformazione in atto nel Paese”. Naturalmente, mentre l’immigrazione in Europa toccava livelli record nel 2015, c’era chi sosteneva che fosse tutto perfettamente normale, giusto, auspicabile. La Svezia fu il paese che accolse più migranti per abitante per un totale di 160.000-180.000, cifra senza precedenti anche per un paese accogliente. Le autorità continuavano a fingere che non ci fosse nulla di strano. Nell’ottobre 2015 il governo organizzò una conferenza sulla politica migratoria intitolata Sverige tillsammans (Svezia insieme) cui parteciparono il re, la regina e la maggior parte dell’establishment politico. I media non si posero domande, suonarono dallo spartito ufficiale come fanno le bande militari (e come al solito fanno i giornalisti mainstream). Una società demograficamente stagnante e in declino stava accogliendo una quantità impressionante di giovani stranieri. E come ha scritto sul Wall Street Journal Gunnar Heinshon, professore all’Università di Brema e autore del libro Söhne und Weltmacht (I figli e il dominio del mondo), “la percentuale di giovani europei nel mondo, pari al 27 per cento nel 1914, è oggi inferiore (9 per cento) a quella del 1500 (11 per cento). I nuovi abiti del ‘pacifismo’ europeo e del suo ‘soft power’ nascondono la sua nuda debolezza. Nel XVI secolo, la Spagna chiamò i suoi giovani conquistadores Segundones, secondogeniti, coloro che non ereditavano. Oggi ci sono i Segundones islamici”. Secondo uno studio svedese, i membri delle gang sono tutti immigrati di prima o seconda generazione. I Segundones svedesi. E ora persino la premier socialdemocratica, Magdalena Andersson, dice che “non vogliamo Somalitown nel nostro paese”. Di fronte a questa situazione, la sinistra che governa da 50 anni dovrebbe essere mandata a casa, ma la demografia ci dice che il risultato elettorale dell’11 settembre non è affatto scontato. L’immigrazione di massa ha modificato drasticamente la popolazione svedese. 1,2 milioni di coloro che hanno diritto di voto alle prossime elezioni non sono nati in Svezia e sono 200.000 stranieri in più rispetto alle precedenti elezioni del 2018. Un elettore su quattro di età compresa tra i 18 e i 21 anni è nato all’estero o ha due genitori nati all’estero. Nel centro di Malmö, una persona su due che può votare per la prima volta ha origini straniere. E l’Italia? Senza contare l’immigrazione legale, nel 2022 supereremo i 100.000 sbarchi. La disintegrazione europea è in atto. Sempre il solito problema dell’identità: una volta che il Cristianesimo che è l’unica collante delle società europee scompare (e la Svezia è oggi il paese più ateo d’Occidente), alle classi dirigenti non importa che la cultura di un paese venga rimpiazzata, non vi credono già più, anzi spesso credono che meriti di essere fatta fuori. Conta soltanto il dato economico o la seduzione umanitaria, che come spiega Pierre Manent su Le Figaro è una nuova religione. Le frontiere allora sono non soltanto spalancate, ma incoraggiate a essere varcate. A quel punto di solito gli ebrei se ne vanno, come accade da anni in Svezia. Così, nel giro di qualche anno, la società collassa. Una volta superato questo Rubicone, tornare indietro è impossibile. Giulio Meotti
Ce le ricordiamo tutti, credo, le arrampicate sugli specchi: non è vero che gli immigrati fanno aumentare la criminalità, non è vero che stuprano più degli autoctoni, non è vero che creano problemi, ma voi lo sapete che il 60% degli stupri è commesso da italiani? Sì, certo che lo sappiamo, ma noi sappiamo anche che noi siamo il 92% della popolazione e loro l’8%. Ma possiamo stare sicuri che anche di fronte a questi fatti inoppugnabili saranno capaci di negare la realtà e a insistere che dobbiamo accogliere ancora e ancora e ancora. Fino a quando, come nei Dieci piccoli indiani, di noi non resterà più nessuno.
È un post parecchio lungo, ma non ci posso fare niente: detesto i santini, come già più di una volta ho avuto occasione di dire, e per smontare le leggende e tirare giù gli idoli dal piedistallo serve un po’ di documentazione, e la cosa richiede il suo tempo, portate pazienza. Sono tre articoli, che si completano a vicenda, e quindi ho scelto di postarli tutti e tre.
Il patetico coro “grazie Gorbaciov” della stampa italiana
Un grande storico ricorda che fu solo un’altra cariatide sovietica che cercò di salvare la nomenklatura. “Sotto di lui più dissidenti morti in galera” (Solzenitsyn lo definì campione di ipocrisia)
“L’8 dicembre 1986 Anatoli Marchenko muore nel carcere di Chistopol dopo quattro mesi di sciopero della fame per il rispetto dei diritti umani in URSS, l’abbandono della tortura, l’applicazione degli accordi internazionali a cui l’URSS aveva sottoscritto, l’amnistia per i prigionieri politici. Gli osservatori dell’epoca ritenevano che i prigionieri politici sovietici morissero più nelle prigioni e nei campi sovietici nel 1986 che sotto Breznev”. Lo ha scritto due giorni fa su Le Figaro Jean-Louis Panné, un grande storico ex direttore della casa editrice Gallimard, collaboratore del Libro nero del comunismo. Un articolo in totale controtendenza rispetto ai panegirici di Mikhail Gorbaciov apparsi in tutta la stampa italiana. Alla vedova di Marchenko non fu permesso neanche di portare il corpo di suo marito per la sepoltura a Mosca.
“Tutti i gruppi di monitoraggio degli accordi di Helsinki sui diritti umani all’epoca subirono una feroce repressione e furono smantellati” scrive Panné. “Molti di loro hanno pagato con la vita la lotta alla dittatura, di cui Gorbaciov non ha mai messo in discussione gli elementi essenziali, consentendo una straordinaria continuità alla polizia politica del regime. Nelle sue ‘Memorie’, Andrei Sacharov cita una serie di vittime sotto Gorbaciov. Sakharov, famoso in tutto il mondo, può tornare a Mosca, senza smettere di essere osservato. Simbolo di questa politica anti-dissenso è il momento in cui Gorbaciov gli prende il microfono per impedirgli di parlare davanti al Congresso dei Deputati del Popolo, le cui sessioni sono trasmesse dalla televisione nazionale, mentre il fisico chiede l’abrogazione dell’articolo 6 del Costituzione dell’URSS, che stabilisce il sistema del partito unico”. Nella sua opera Gulag, la storica Anne Applebaum ricorda che un gruppo di deputati americani nel 1990 fece visita a Perm, il campo di concentramento sovietico: “La situazione rimaneva immutata. I prigionieri si lamentavano ancora per il freddo che dovevano patire e venivano rinchiusi nelle celle di rigore per ‘reati’ come il rifiuto di allacciare l’ultimo bottone dell’uniforme”. Almeno quattro dissidenti morirono nei Gulag nei primi quattro anni di potere di Gorbaciov. Anatolji Marcenko (una vittima di Gorbaciov) ne Le mie testimonianze descrive il gulag dell’epoca gorbacioviana. “Sono stato sottoposto a umiliazioni e angherie. Molte volte mi hanno rinchiuso nella cella d’isolamento, dove danno il cibo un giorno ogni due, in cui la temperatura non supera i 14 gradi, mentre ti tolgono gli indumenti caldi”. Pavel Protsenko, bibliotecario e ortodosso, fu chiuso in un manicomio e sottoposto a perizia psichiatrica. Nikolaj Serebrjannlkov venne sottoposto a trattamenti a base di psicofarmaci, colpevole di avere scritto lettere a Gorbaciov denunciando le persecuzioni cui erano ancora sottoposti i credenti. Come il cristiano ortodosso Alekzandr Ogorodnikov, arrestato (tre volte) a causa della sua partecipazione al movimento di rinascita religiosa, condannato per “parassitismo”. Ci fu il caso di Lev Timofeev, economista e giornalista, autore di due lucidissimi pamphlet pubblicati in Occidente ed editi in Italia da Il Mulino e SugarCo. Timofeev denunciò, con passione e amarezza, la resistenza popolare al malgoverno dell’economia, primo intellettuale a essere arrestato e condannato dopo la nomina di Gorbaciov a segretario generale del Pcus. E Anatolij Korjagin, un medico che aveva denunciato gli abusi della psichiatria a fini politici. Un famoso poeta, Vasyl Stus, morì in un campo di lavoro sovietico sotto Gorbaciov. Nel 1988, tre anni dopo l’ascesa al potere di Gorbaciov, il dissidente Mikhail Kukobaka, dopo 16 anni trascorsi in campi di prigionia, ospedali psichiatrici e celle di isolamento per le sue proteste contro il sistema sovietico, lasciò finalmente il gulag di Perm, sugli Urali. Un gesto di buona volontà di Gorbaciov. Ma Kukobaka disse: “Nelle carceri, nei campi, non c’è glasnost, non c’è perestrojka. Glasnost è destinata all’esportazione come mezzo di controllo sull’opinione pubblica occidentale”. “C’erano molte vie d’uscita dal comunismo, ma Gorbaciov non aveva tale obiettivo” dirà anche Alexander Solzenitsyn al New York Times. “Gorbaciov lanciava slogan sulla perestrojka, ma stava pensando a come trasferire la nomenklatura in comode sedi commerciali. La sua perestrojka era solo ipocrisia”. La Gorbymania (come la Castromania) in Occidente è sopravvissuta alla dipartita dei loro fondatori. Giulio Meotti
Per non parlare della Cheguevaromania, e adesso anche la Zelenskymania: tutte le peggiori fecce diventano oggetto di culto.
Gorbaciov, ecco perché in patria lo ricordano così male
È abbastanza evidente che, al tono celebrativo con cui si commemora Gorbaciov in Occidente, si contrappone un cattivo ricordo da parte dei suoi ex cittadini. Non solo quelli delle repubbliche ex sovietiche, che subirono la sua repressione armata. Ma anche quelli dei russi stessi, che patirono la crisi economica finale.
Gli articoli e gli editoriali sulla morte di Gorbaciov, in questi due giorni dopo la sua morte, sono tutti più o meno celebrativi. L’ultimo presidente sovietico fu l’uomo che pose fine alla guerra fredda, dunque viene ricordato soprattutto per il suo ruolo di pace. Ma non si comprende come mai in patria, sia in Russia che nelle altre repubbliche ex sovietiche, sia ricordato con estrema ostilità. Benché rispettato dal nuovo regime, Putin stesso gli ha reso omaggio, non ha ottenuto funerali di Stato. È una figura, ormai storica, divisiva e impopolare. Perché?
Si fa presto ad affermare che Gorbaciovsia odiato dai nostalgici dell’Urss, che con Putin sono tornati in auge. Certamente, questa fu l’opposizione più visibile ed anche più violenta. Nel periodo dal 1985 al 1989, il Kgb era ben consapevole dei limiti economici, militari e strutturali dell’Unione Sovietica. Fu il Kgb a incoraggiare la promozione di Gorbaciov a Segretario Generale, dopo la morte di Chernenko, approvata poi dal Comitato Centrale con voto unanime. Gorbaciov era già uomo di fiducia di Andropov, storico direttore del Kgb e poi segretario generale dell’Urss dal 1982 al 1984. Gorbaciov venne selezionato perché relativamente “giovane” (54 anni nel 1985) e aperto di mente, ma fedele al sistema comunista. Il Kgb stesso promosse e in un certo senso incoraggiò l’abbandono dei regimi dell’Est europeo, con quella che venne informalmente chiamata la “dottrina Sinatra”: ciascuno per la sua strada. Tuttavia, l’atmosfera cambiò repentinamente quando nei regimi ex comunisti le elezioni vennero vinte da partiti non comunisti, a partire dalla Polonia.
Esercito e Kgbsi coalizzarono per impedire che la disgregazione del blocco orientale divenisse disgregazione anche della stessa Urss. E pretesero che Gorbaciov imponesse l’ordine alle repubbliche secessioniste, anche proclamando lo stato d’emergenza. Il segretario generale usò la forza (contro Kazakistan, Georgia, Azerbaigian, Lituania e Lettonia), ma rifiutò il cambio di passo preteso da militari e servizi. Fu questo rifiuto che portò al tentativo di golpe contro di lui, nell’agosto del 1991. Il resto è noto: il golpe fallì, Gorbaciov ottenne una vittoria apparente, ma di fatto aveva già perso il potere. Eltsin, il presidente della Repubblica Socialista Federativa Russa, si oppose in prima persona ai militari e divenne lui il leader politico carismatico della nuova stagione russa che portò alla disgregazione dell’Urss. Dopo il collasso sovietico, esercito, ex servizi segreti, burocrazia statale, non perdonarono mai a Gorbaciov di aver causato il “crollo” dell’impero, di essersi lasciato sfuggire di mano il processo di riforme e decentramento che loro stessi avevano avviato.
Nelle repubbliche ex sovietiche, al contrario, non perdonano a Gorbaciov quelle ultime repressioni della stagione di sangue del 1986-91, volte a tenere assieme un’Urss in piena frammentazione. In Kazakistan ricordano gli oltre 200 morti civili del massacro di Alma Ata del dicembre 1986. Quando Gorbaciov sostituì il segretario generale locale Dinmukhamed Kunaev con il russo Gennadij Kolbin, i kazaki inscenarono proteste che vennero schiacciate con la forza delle armi. Gli armeni non perdonano a Gorbaciov di aver permesso (o non ostacolato abbastanza) i primi massacri compiuti dagli azeri nel Nagorno Karabakh nel 1988 e 1989. Gli azeri, al contrario, non dimenticheranno mai il massacro di Baku, il “gennaio nero” del 1990, quando le forze regolare e le truppe speciali del KGB entrarono nella capitale azera per stroncare sul nascere il locale Fronte Popolare (indipendentista e anti-armeno), uccidendo da 130 a 170 persone, in gran parte civili, fra il 19 e il 20 gennaio. I lituani non dimenticano la “domenica di sangue”, culmine di tre giorni di intervento militare sovietico (11-13 gennaio 1991) contro la repubblica baltica, dopo la sua proclamazione di indipendenza. Mentre il mondo era distratto dalla Guerra del Golfo, che sta appena iniziando, i sovietici nella notte fra il sabato 12 e la domenica 13 gennaio 1991, tentarono di occupare la capitale lituana, a partire dalla conquista della sede della televisione. La folla inerme oppose resistenza, vi furono meno morti rispetto ai precedenti massacri (14 le vittime), ma fu comunque traumatico, il tutto ripreso quasi in diretta dai media locali e internazionali. Contemporaneamente, e per lo stesso motivo, i carri sovietici entravano anche a Riga, ma dopo dieci giorni di confronto fra manifestanti (protetti da numerose barricate in cemento) ed esercito, l’Armata si ritirò. Non prima di aver fatto altri 6 morti, fra cui due poliziotti lettoni.
Se nelle repubbliche ex sovietiche vedono in Gorbaciov l’ultimo dei dittatori occupanti, non meno repressivo dei suoi predecessori, anche i dissidenti russi tendono a considerarlo come uno storico bluff. Significativa la reazione di Kasparov, campione di scacchi e poi dissidente: al momento della morte dell’ultimo leader sovietico ha twittato “Come giovane campione del mondo sovietico e beneficiario della perestrojka e della glasnost, ho spinto ogni muro della repressione per testare i limiti improvvisamente mutevoli. Era un periodo di confusione e di opportunità. Il tentativo di Gorbaciov di creare un ‘socialismo dal volto umano’ fallì, e grazie a Dio”. Le pagine più drammatiche di denuncia, le scrisse un altro dissidente, Vladimir Bukovskij, nel suo Gli Archivi Segreti di Mosca: “Per quanto ci affannassimo a spiegare che il sistema sovietico non era una monarchia e che il segretario generale non era uno zar, chi in quel momento non avrebbe comunque augurato il successo al nuovo zar-riformatore? Delle centinaia di migliaia di politici, giornalisti e accademici, solo un minuscolo gruppetto conservò una sufficiente lucidità per non cedere alla seduzione, e un gruppo ancor più sparuto di esprimere apertamente i suoi dubbi”.
La repressione del dissenso interno non finì affatto con l’ascesa al potere di Gorbaciov. Come documenta Bukovskij, dai files presi negli archivi del Cremlino, ancora nel 1987, il KGB organizzava campagne per arrestare i dissidenti, far fallire le iniziative a favore dei diritti umani, impedire l’ingresso di intellettuali e attivisti stranieri. Il tutto era ordinato da Chebrikov, direttore dei servizi segreti, con il pieno appoggio di Gorbaciov. Nella sua monumentale opera Gulag, la storica Anne Applebaum, ci ricorda come gli ultimi campi di concentramento vennero chiusi nel 1992, l’anno dopo la fine dell’Urss. “Tipica di quel periodo è la vicenda di Bohdan Klimchak – scrive la Applebaum – un tecnico ucraino arrestato per aver tentato di lasciare l’Unione Sovietica. Nel 1978, temendo di essere arrestato con l’accusa di nazionalismo ucraino, aveva varcato la frontiera sovietica con l’Iran e chiesto asilo politico, ma gli iraniani lo avevano rimandato indietro. Nell’aprile 1990 era ancora detenuto nella prigione di Perm. Un gruppo di congressisti americani riuscì a fargli visita e scoprì che, in pratica, a Perm la situazione rimaneva immutata. I prigionieri si lamentavano ancora per il freddo che dovevano patire e venivano rinchiusi nelle celle di rigore per ‘reati’ come il rifiuto di allacciare l’ultimo bottone dell’uniforme”.
Tuttavia fu un altro prigioniero politico ucraino, Anatolij Marchenko, che determinò un primo grande cambiamento nel sistema concentrazionario sovietico. Per protesta contro le orribili condizioni degli internati nei campi, intraprese lo sciopero della fame e fu lasciato morire l’8 dicembre 1986. La vicenda fece scalpore anche all’estero e Gorbaciov si decise ad approvare un’amnistia generale. Non fu, appunto, la fine del sistema dei campi in quanto tale (che come abbiamo visto chiuse solo nel 1992), ma la fine del Gulag come metodo statale repressivo. Il Kgb accettò, sia secondo la Applebaum, che secondo voci dissidenti come quella di Bukovskij, perché l’amnistia ormai “costava” poco al regime. Non si doveva fare alcuna retromarcia ideologica: i prigionieri, graziati, dovevano comunque firmare delle dichiarazioni di pentimento. E giunti alla fine degli anni Ottanta, la dissidenza, ridotta allo stremo, non era considerata più un pericolo per il regime, come si legge dai documenti di allora.
I dissidenti sono, appunto, una minoranza. La maggioranza dei russi ha pessimi ricordi di Gorbaciov per le sue maldestre riforme economiche. “Mi trovai ben presto — ricorda l’allora ambasciatore Sergio Romano al Corriere — ad osservare criticamente gli avvenimenti. Rimproveravo a Mikhail Sergeevic (Gorbaciov, ndr) di non avere un vero programma economico. Va bene concedere più libertà: tutti erano giustamente contenti. Ma cosa fare del sistema di produzione collettivo? Lui parlò della creazione di una ‘industria sociale’: ma non spiegò mai in cosa consistesse”.
Gli anni di Gorbaciov furono anni di ristrettezze. E anche di proibizionismo dell’alcool, che aggiunse ulteriore disperazione ad uno scenario lugubre di suo, con code per il pane e razionamenti. Particolarmente catastrofica fu la “riforma monetaria” del 22 gennaio 1991. A sorpresa, nottetempo, per stroncare i proventi del lavoro nero e del contrabbando, vennero confiscate tutte le banconote da 50 e 100 rubli. La procedura di sequestro permise di ritirare dalla circolazione 14 miliardi di rubli in contanti, ma bruciò i risparmi di decine di milioni di sovietici, soprattutto quelli più benestanti. Nell’aprile successivo, nel tentativo di riallineare il prezzo di Stato a quello di mercato, tutti i prezzi triplicarono di colpo. Furono gli ultimi fuochi prima del collasso.
Alla fine, il cambiamento venne da quel che Gorbaciov non fece: non impose più la censura sulla storia e sulla letteratura, con la sua politica di Glasnost (trasparenza). Per i sovietici non russi fu il momento di parlare nella propria lingua nazionale. E di raccontare ancora la loro storia nazionale, compresi i capitoli più oscuri, come il patto del 23 agosto 1939 (declassificato solo nel 1989) con cui Stalin e Hitler si erano spartiti l’Europa orientale. I russi stessi poterono leggere gli orrori che avevano subito e di cui non avevano potuto raccontare nulla fino ad allora. Fu la verità, alla fine, che ebbe il sopravvento e determinò il crollo del sistema che Gorbaciov voleva riformare. Stefano Magni, qui.
Qui, in realtà, è completamente sbagliato il titolo: in patria, a differenza che qui, lo ricordano benissimo, per questo lo odiavano a morte e tuttora lo odiano. Un piccolo ricordo personale che può dare un’idea di quanto fosse artificiale l’economia: al cambio ufficiale un dollaro valeva mezzo rublo, al cambio nero, ossia quello reale, quello del valore reale del rublo, un dollaro ne valeva cinque.
Gorbachev: non un democratico ma l’ultimo dittatore sovietico
Non pose fine alla Guerra Fredda, la perse. Il suo programma non era la libertà dei popoli dell’Est, ma salvare il comunismo. Involontariamente ne dimostrò la irriformabilità
Premetto che ignorerò volutamente i coccodrilli della stampa italiana sulla vita e opere dell’ultimo segretario del PCUS, Michail Gorbachev, morto martedì sera all’età di 91 anni. Per non dire dei comunicati agiografici dei politici o della diplomazia internazionale, che ricordano il “padre della perestroika” secondo la vulgata preconfezionata che l’Occidente ha comprato, impacchettato e diffuso in questi decenni. Così come le celebrazioni dei vetero-comunisti che si rallegrano della dipartita del “becchino dell’URSS”.
Il paradosso di Gorbachev La vicenda politica di Gorbachev è prigioniera di un paradosso che ne stravolge completamente il senso storico: osannato da una parte come un cavaliere alato che libera l’Europa dal giogo comunista, disprezzato dall’altra come un traditore che consegna l’esperienza sovietica alle grinfie del nemico capitalista. Non è stato né l’uno né l’altro. Il settimo segretario andrebbe semplicemente ricordato, a modesto parere di chi scrive, come l’uomo che pensava di salvare il comunismo da se stesso, il meno impresentabile dei successori di Lenin, la cui eredità affermava esplicitamente di voler recuperare, non un democratico ma l’ultimo dei dittatori. E, soprattutto, il grande sconfitto della Guerra Fredda.
Un caso di eterogenesi dei fini Più che aggettivi, conviene utilizzare due avverbi per descriverne personalità e azione: involontariamente e inconsapevolmente. Un eroe o un villano suo malgrado, uno statista che – spostando alcuni mattoncini di un kafkiano castello di sabbia [? Fatto di sabbia o fatto di mattoni? Quello di Kafka, in ogni caso, è fatto di solidissima pietra] – se l’è visto cadere addosso [la sabbia o i mattoni?], la rappresentazione plastica del concetto di eterogenesi dei fini. Il programma di Gorbachev non era affatto la libertà per i popoli del socialismo reale, che se la sono presa da soli quando hanno visto che il re era nudo, né tantomeno per le genti del moloch sovietico, ma piuttosto salvare a tutti i costi l’URSS e il comunismo da una morte certa. Nel suo tentativo di cambiare tutto affinché nulla cambiasse, non si intravede la lungimiranza di chi riconosce i risultati disastrosi di un esperimento sbagliato ma l’ostinazione conservatrice di salvare la decrepita carcassa del marxismo-leninismo, adattandola a una realtà immaginaria che sarebbe stata spazzata via al primo contatto con quella tangibile. Con la perestroika e la glasnost, due concetti che hanno assunto vita propria nel corso degli anni, Gorbachev ha involontariamente attivato il meccanismo di demolizione controllata del comunismo in Europa Orientale e inconsapevolmente provocato la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Un fallimento politico dall’esito felice per chiunque consideri il totalitarismo come il male assoluto.
Interlocutore affidabile Non è mia intenzione ripercorrere qui le tappe del mandato gorbacheviano, soprattutto in politica estera. Sulla sua biografia troverete in questi giorni decine di articoli, quasi tutti uguali. Sarebbe assurdo peraltro negare una certa soluzione di continuità rispetto ai suoi predecessori nella gestione delle dinamiche più critiche della Guerra Fredda, a partire dagli accordi sulla riduzione delle testate nucleari firmati con il presidente Reagan. Gorbachev lesse correttamente lo spirito del tempo e l’opportunità di una distensione effettiva con l’Occidente democratico e capitalista. Al di là della retorica della “casa comune europea”, un concetto da pubbliche relazioni purtroppo carente di significato politico concreto, va riconosciuto all’ultimo segretario del PCUS il tentativo di proporsi come un interlocutore affidabile, dopo decenni di conflitto ideologico tra due schieramenti ideologicamente contrapposti. Ma l’insanabile contraddizione di questa prospettiva, che la maggior parte delle analisi pre e post-mortem tende sospettosamente a tacere, è che non si trattava in nessun caso di un confronto tra blocchi equiparabili: da una parte si trovava un sistema imperfetto ma generalmente rispettoso della dignità umana, dall’altra uno che ambiva alla perfezione dell’uomo nuovo facendo scempio da decenni delle più elementari norme di civiltà e diritto.
Una contraddizione insanabile Gorbachev cercò probabilmente di colmare almeno in parte questo gap, che ancora oggi risulta decisivo nell’ambito delle relazioni internazionali, nonostante il parere contrario del fondamentalismo realista. Ma rimase a metà del guado, volendo salvare l’insalvabile ed esponendosi così alle critiche sia della nomenklatura, che vedeva traballare i suoi privilegi, sia dei veri riformatori che gli imputavano l’eccessiva lentezza delle sbandierate riforme economiche e politiche. Da qui discende il secondo insuperabile paradosso della sua traiettoria: l’azione del grande riformatore sarà ricordata per aver dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio l’irriformabilità del comunismo.
La continuità Scrive Michel Heller nella sua biografia politica di Gorbachev che “la storia dei sette segretari (del PCUS) indica che la loro preoccupazione essenziale era la conquista del potere” e che avevano sempre giustificato la “volontà di potere” con la “necessità di disporre di uno strumento che permettesse la realizzazione di riforme”. È chiaro che non si tratta di comparare la tragedia della collettivizzazione staliniana con la perestroika ma di comprendere la linea di continuità che unisce il primo dittatore totalitario della storia europea (Lenin) con l’ultimo dittatore riformista dell’Unione Sovietica. Una continuità, vale la pena ribadirlo, rivendicata a più riprese dallo stesso Gorbachev. “Assistiamo”, continua Heller, “all’elaborazione di una struttura finita: il potere è necessario per la realizzazione delle riforme, le riforme sono indispensabili per la realizzazione del potere”. Il sistema sovietico si è perpetuato per 74 anni attraverso questo meccanismo endogeno, una sorta di rivoluzione permanente chiusa su se stessa, strumentale al consolidamento di un potere assoluto che nessuno avrebbe dovuto sfidare. Gorbachev, l’ultimo dei dittatori sovietici, non fa eccezione. Il cadavere agonizzante dell’URSS andava tenuto in vita a tutti i costi, e con esso il gorbachevismo. Anche con le cattive, se necessario. Come a Riga e a Vilnius, nel gennaio 1991, a Tbilisi, due anni prima, a Baku, nel 1990, ad Almaty, nel 1986. Se non ne avevate sentito parlare, non sorprendetevi, non rientrano nella narrazione mainstream sul campione di democrazia, sul Nobel per la Pace e sull’artefice della fine della Guerra Fredda. Così come non vi rientra l’appoggio convinto che un Gorbachev già senile diede all’annessione della Crimea nel 2014, supporto che gli è valso il divieto di ingresso da parte delle autorità ucraine [sarebbe più corretto ricordare che la Crimea, storicamente russa e popolata da russofoni da sempre, era stata proditoriamente regalata all’Ucraina da Krusciov sessant’anni prima. Quello del 2014, seguito a regolare referendum, è stato un puro e semplice atto di giustizia]. D’altra parte gli ucraini avevano già sperimentato di prima mano gli effetti della glasnost del segretario generale, quando sull’incidente nucleare di Chernobyl era calato per giorni il silenzio tombale del Politburo, con tanto di sfilate del primo maggio nelle zone contaminate dalle radiazioni.
L’errore decisivo Quando vede che il Paese gli sta sfuggendo di mano, incalzato dai liberali che premono per l’instaurazione di un’economia di mercato senza palliativi, Gorbachev compie l’errore decisivo del suo mandato. I politologi l’hanno curiosamente chiamata “svolta a destra”, in realtà è un riavvicinamento alla sinistra comunista più ortodossa: negli stessi giorni in cui invia le truppe a reprimere l’indipendentismo dei Paesi Baltici, nomina uno dopo l’altro ai posti di comando gli oltranzisti che pochi mesi dopo tenteranno di esautorarlo nel golpe di agosto. La vecchia guardia torna di fatto al potere, con Pugo agli Interni, Kravchenko alla guida della televisione di Stato, Janaev alla vicepresidenza. Sarà Boris Eltsin, da un mese presidente eletto della Russia, a salvarlo dall’arresto in Crimea e a riportarlo al Cremlino ormai delegittimato dai costanti tentennamenti, fughe in avanti e penose retromarce.
La fine Mentre le repubbliche sovietiche si preparano a dichiarare la loro autonomia da Mosca, il 23 agosto Gorbachev si presenta davanti al Soviet Supremo russo in un atto di gratitudine e contrizione allo stesso tempo. Non ha capito però che il suo tempo è finito, e con lui quello dell’URSS. Eltsin interrompe il suo discorso chiedendogli di leggere i nomi dei golpisti, uno ad uno, per poi costringerlo di fatto ad accettare la sospensione delle attività del Partito Comunista russo. È una scena drammatica per un leader ormai superato dagli eventi, trasmessa in mondovisione. Da quel momento è un susseguirsi di reazioni a catena, fino alla firma del trattato di Belavezha che a dicembre decreta la fine ingloriosa del primo Stato comunista della storia. Il resto è cronaca. I primi anni di Eltsin, unica vera parentesi democratica nella millenaria tragedia russa [beh, ecco, sulla “vera democrazia” dell’alcolizzato costantemente ubriaco Eltsin io stenderei un grosso grosso grosso velo pietoso], la crisi economica e sociale degli anni della transizione [la crisi economica, giusto per polemizzare appena appena un pelino, è iniziata immediatamente dopo la gloriosa Rivoluzione d’Ottobre, e anche se è vero che anche in questo campo Gorbaciov è riuscito a combinare disastri, non sono molto sicura che la situazione fosse peggiore di quella al tempo della collettivizzazione forzata e della grande carestia fabbricata a tavolino da Stalin], il passaggio di consegne ad un ex funzionario del KGB [beh, no, non è esattamente così che stanno le cose: quando nel 1999 Eltsin lo ha nominato primo ministro, Putin non era solo un ex colonnello del KGB ma anche un politico che da tre anni lavorava nell’amministrazione Eltsin; poi dopo le dimissioni di Eltsin è stato eletto presidente della repubblica: nessun “passaggio di consegne”, dunque, bensì un semplice, normale avvicendamento secondo le regole della democrazia. Sminuire le persone antipatiche tagliandone le competenze non è mai una buona politica, come stiamo vedendo anche in Italia] per cui il crollo di quell’immensa prigione di genti chiamata Unione Sovietica rappresenta ancora oggi “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”[quell’immensa prigione di genti (e di che altro dovrebbe essere una prigione?) era anche uno stato potente, temuto e rispettato: attribuire il rimpianto alla prigione anziché alla potenza io lo chiamerei malafede preconcetta, oltre a un mai nascosto odio personale contro Putin]. Per capire la Russia putiniana, che molti si accontentano di definire semplicemente fascista, non si può non partire dal treno di Lenin finanziato dai tedeschi [io credo che per capire la Russia putiniana sarebbe meglio partire dall’impero zarista, e magari leggere qui] e da lì ripercorrere le tappe della sua successione al vertice del Cremlino, dalla prima all’ultima. RIP, Mr. Gorbachev. Enzo Reale, qui con tutti i link, che non mi è stato possibile riprodurre, in particolare quelli relativi alle feroci repressioni delle rivolte delle repubbliche baltiche, Georgia ecc..
Certo che se quest’uomo riuscisse a scrivere i suoi articoli in maniera un po’ meno prolissa sarebbe un gran bene per tutti – oltre a varie pecche qua e là che non ho potuto non segnalare, per non parlare di quella chiusa appiccicata con lo sputo. Restano comunque valide le informazioni. Io le violente repressioni degli stati baltici e di tutti gli altri che hanno provato a sollevarsi le ricordo bene, ma da quello che si legge in giro sono in parecchi ad averle dimenticate, o mai conosciuto perché troppo giovani. Aggiungo ancora un piccolo ricordo personale: nel corso di una visita a un museo, noto che ha una pessima illuminazione, che penalizza i quadri, e la guida, immediatamente: “Era così già al tempo degli zar”. Cioè, voi in sessant’anni di potere non siete stati capaci di cambiare due lampadine, ma la colpa è degli zar.