Non è uno scrittore, Ariel Yahalomi, nato Artur Dimant. Non è uno scrittore, e tuttavia questo suo libro di memorie che si snodano attraverso l’infanzia spensierata in Polonia, gli undici campi di lavoro e di concentramento, la liberazione, il trasferimento in Israele, la guerra di liberazione condotta e incredibilmente vinta da un esercito composto in discreta misura da relitti umani reduci dai campi di sterminio, l’intensa attività lì svolta e ancora in atto in tardissima età, questo suo libro, dicevo, prende, cattura, e si legge, dalla prima all’ultima pagina, con la stessa passione con cui è stato scritto. Ne voglio riportare una pagina, particolarmente significativa (ma in realtà sono tutte particolarmente significative).
La prima volta che ebbi un’arma in mano compresi il significato che aveva la possibilità di difendersi. Fino ad allora le uniche mie armi erano state il valore della persona, la presenza di spirito, la volontà di sopravvivere e la capacita di resistere. Sono stato sempre una persona amante della pace. Tuttavia, quel mio primo contatto con un’arma da guerra ebbe su di me un effetto straordinario: adesso non ero più una vittima condannata a fuggire e nascondermi… Mi era assicurato un fondamento morale, potevo tranquillamente affermare che ora operavo in difesa dei miei interessi.
Gli anni trascorsi nei campi di concentramento avevano rappresentato una battaglia senza fine per la vita, per la sopravvivenza, per la propria persona e per il proprio spirito. Nei campi di concentramento, insomma,era stata una lotta incessante per la vita.
In Europa, ad annientarmi ci avevano provato i Tedeschi, adesso in Palestina la situazione non era molto cambiata, l’unica differenza era nel fatto, che qui avevo un’arma in mano, e questa non era una differenza da poco. Ero appena riuscito a venir fuori da una situazione disperata e di nuovo ero finito in una condizione piena di rischi. Ancora una volta la guerra, e insieme tutte le nefandezze ad essa collegate.
Si sa, non esiste una guerra piacevole, una guerra delicata. La guerra, non importa di che genere, è una cosa crudele e malvagia. Per il resto, dipende dal ruolo che ti tocca assumere, se quello di vittima braccata o quello di persona libera con un’arma legale in mano. Una cosa come questa può comprenderla solo chi l’ha vissuta.
Quella e stata una guerra di pochi contro molti, guerra di persone insufficientemente esperte nell’arte della guerra di fronte ad un esercito regolare.
[…]
Per noi era assolutamente chiaro che dovevamo combattere, non avevamo scelta alcuna. Al tempo stesso, però, dovevamo costruire, lavorare, vivere, accogliere i nuovi immigrati che fuggivano dai Paesi arabi.
Tutti quelli che arrivavano dalla Germania erano ex internati nei campi di concentramento; venivano inviati direttamente tra i combattenti. Alcuni miei compagni, giunti a Hajfa in nave nel 1948, furono addestrati all’uso delle armi, mentre ancora in autobus li accompagnavano al fronte. Non ne avevano ancora una pallida idea, per loro era una pratica del tutto ignota. (pp. 98-99)
Anche se di testimonianze come questa ne abbiamo lette a decine, penso che valga ugualmente la pena di leggerlo, per arricchire anora un po’ la nostra coscienza con la conoscenza di ciò che è stato.
Ariel Yahalomi, “Finalmente salvo!”, trad. Augusto Fonseca, Deltaedit
barbara