LA STORIA DI ROBERT

Simone Pillon

Oggi vi racconto la storia di Robert Hoogland.

Questo padre canadese, nel 2017 scopre che sua figlia, a soli 12 anni, viene trattata come un maschio da tutta la scuola e che, aiutata dal suo consulente scolastico, ha scelto anche un nuovo nome maschile. Fino ad allora nessuno lo aveva informato: le direttive Sogi (Sexual Orientation and Gender Identity) alle quali il ministero della Pubblica istruzione ha imposto agli istituti della British Columbia di adeguarsi, proteggono la riservatezza dello studente e conoscere sesso genere o nome preferito della ragazza a scuola non è prerogativa del genitore.
All’insaputa del padre la ragazzina aveva infatti iniziato ad essere seguita da un celebre psicologo e attivista Lgbt che la indirizza a un ospedale pediatrico per iniziare a ricevere iniezioni di testosterone.
In teoria serviva il consenso di entrambi i genitori per procedere al trattamento, ma visto che il padre si era rifiutato, convinto che per la ragazzina fosse bene aspettare la maggiore età per prendere qualunque decisione definitiva sul suo corpo e la sua identità di genere, il BC Children’s Hospital lo informò che il trattamento sarebbe iniziato lo stesso ai sensi del BC Infants Act senza autorizzazione dei genitori: “Il team concorda che il trattamento proposto è nel suo migliore interesse (…) né lei né sua madre potete prendere questa decisione per lui”.
Robert fece causa, ma il 27 febbraio 2019, la Corte Suprema della British Columbia stabilì che la figlia, all’epoca diventata quattordicenne poteva sottoporsi a un trattamento a base di iniezioni di testosterone per cambiare sesso senza il consenso dei suoi genitori. E che se madre o padre fossero stati sorpresi riferirsi a lei utilizzando un pronome femminile, o chiamandola col suo nome di nascita, o ancora cercando di farla desistere dal trattamento, sarebbero stati riconosciuti colpevoli di violenza familiare ai sensi del Family Law Act.
Robert tuttavia non si è rassegnato a quanto stavano facendo alla sua bambina. La polizia canadese (cybercrime unit) ha stilato per i giudici un lungo rapporto che documenta ogni volta in cui l’uomo ha citato i medici e si è riferito pubblicamente a sua figlia come a una femmina e ha usato i pronomi femminili al posto di quelli maschili.
Robert è stato arrestato.
È notizia di questi giorni che Robert Hoogland ha dovuto patteggiare 6 mesi di reclusione e 30 mila dollari di multa.
“Questo non potrebbe mai accadere” dicevano quanti definivano allarmista la mia posizione contro la Bill C16», ha commentato il professore di psicologia dell’Università di Toronto, Jordan B. Peterson, protagonista di un’infuocata battaglia contro la legge voluta da Trudeau che dal 2017 aggiunge “identità o espressione di genere” all’elenco dei motivi di discriminazione vietati nel Canadian Human Rights Act e all’elenco delle caratteristiche dei gruppi identificabili protetti dalla propaganda d’odio nel codice penale, esattamente come vuole fare Zan.
Allora Peterson preconizzava un futuro in cui un canadese sarebbe stato incriminato se si fosse rifiutato di utilizzare i pronomi di genere. Gli diedero del visionario bigotto, proprio come accade a chi oggi contesta la legge Zan che al pari della Bill C-16 consegna spazio immenso alla discrezionalità interpretativa del giudice circa cosa rappresenti libera manifestazione di pensiero o condotta discriminatoria da punire in ambito pubblico o privato. «Ho letto la legge e al contrario, era inevitabile», dice Peterson del caso Hoogland. Inevitabile quanto il fatto che un padre violasse una legge bavaglio: «Voglio che mia figlia sappia che ho fatto davvero tutto il possibile, semmai tra 5 o 10 anni dovesse pentirsi di ciò che le hanno fatto subire da bambina».
Vi invito a verificare la storia, pubblicata su “Tempi” del 15 aprile 2021, ma riportata anche su “La nuova bussola” e, per chi preferisce qualcosa di più laico, su “Feministpost” del 24 marzo 2021.
Per chi mastica l’inglese vi è ampia copertura di notizie e video semplicemente googlando il nome di Robert Hoogland.
Non ho visto nulla sui giornaloni, e la cosa ovviamente non mi stupisce affatto.
Ecco spiegato, non con parole ma con la sofferenza di un padre e della sua bambina di 12 anni, perché ci opponiamo e sempre ci opporremo al ddl Zan.

Ci chiamano bigotti. Ci chiamano retrogradi. Ci chiamano oscurantisti. E trans-omofobi, naturalmente. Ma se abbiamo una legge che punisce qualunque tipo di aggressione e considera come aggravante il movente del pregiudizio, qualcuno mi spiega la necessità di una legge speciale che differenzi una particolare categoria di persone da tutte le altre e ne chieda la tutela come se non fosse già tutelata al pari di chiunque altro? Mi rispondo da sola con un commento che ho lasciato a questo post (assolutamente meritevole di essere letto)  

Fabbricare una legge che punisca chi usa violenza contro una specifica categoria di persone (posso chiederne una per gli insegnanti in pensione?) è più o meno come stabilire il coprifuoco in un’intera nazione con bar pizzerie ristoranti discoteche cinema teatri palestre piscine scuole di recitazione/musica/danza – ossia TUTTI i posti in cui la gente potrebbe andare di sera – rigorosamente chiusi: rende chiaro come il sole che lo scopo è tutt’altro.

Poi c’è sempre qualcuno che, a proposito di identità e ammennicoli vari, vuole fare il primo della classe, ma per fortuna c’è anche qualche genio che sa rispondere con adeguato perculamento. Certo che se provassero a proporre oggi la scena di Loretta,

ho idea che si metterebbe parecchio male. E sempre a proposito di identità reali, identità percepite e identità millantate:

barbara

UN COMMENTO AL COMMENTO DI DEBORAH

Chi è George Soros?
Commento di Deborah Fait

Chi è George Soros?
Uno dei più ricchi magnati del mondo, il suo capitale è stimato in 25 miliardi di Dollari. Nato a Budapest da una famiglia ebraica, completamente assimilata, che viveva anche molto male il proprio ebraismo, sopravvisse al nazismo grazie a documenti falsi. Emigrò negli USA nel 1947 si iscrisse all’università e incominciò la sua carriera di abilissimo investitore.
Quale è la filosofia di Soros?
La sua visione del mondo è monolitica, abolire i confini, essere tutti uguali, sostituire le popolazioni con una forte immigrazione. E’ fautore di una società aperta e di un nuovo ordine mondiale che in realtà limiterebbe la libertà delle persone. Per alcuni complottisti, che però a volte la imbroccano, Soros vuole omologare la società, liberalizzare le droghe, l’eutanasia e influenzare il modo di pensare di milioni di persone. Caroline Glick, giornalista e intellettuale ebrea, sionista, israelo-americana, ha scritto sul Jerusalem Post:” “La natura megalomane del progetto filantropico di Soros ha come obiettivo di sovvertire le democrazie occidentali e rendere impossibile per i governi mantenere l’ordine o per le società mantenere la propria identità e i propri valori unici”. Ha aggiunto inoltre che Soros, con le sue Ong, alimenta l’immigrazione clandestina in Europa e in Usa “per minare l’identità nazionale e la composizione demografica delle democrazie occidentali” con lo scopo di “indurre il caos”. La Glick non è certo una complottista ma tutte le ONG finanziate dal magnate sono la prova di quello che scrive.
Quali sono le maggiori ONG finanziate da Soros?
Finanzia da anni movimenti e organizzazioni palestinesi o ebraiche anti-israeliane. La sua Open Society Fundation con sede in Giordania, distribuisce soldi a palate al BDS che tutti conosciamo, a Adalah che promosse la condanna di Israele per crimini di guerra, Breaking the Silence che diffama l’esercito di Israele senza portare prove ma che è presente ormai un po’ in tutto l’occidente. Le associazioni antisemite e antisioniste che il magnate finanzia sono innumerevoli.
Perché Soros odia Israele?
Soros è contro ogni nazione del mondo, lui odia proprio l’idea di nazione, ogni realtà che difenda la propria sovranità, le proprie tradizioni, la propria identità culturale. Israele sente fortemente tutti questi valori che lui aborre perciò, unita al fatto che è la patria degli ebrei, popolo in cui non si riconosce, è forse il paese che odia di più, Israele è il nemico. Per Soros non esistono i popoli, non esiste la patria che considera una parolaccia, lui, filoislamico, vorrebbe, esattamente come l’islam, creare un enorme califfato tra MedioOriente, senza israeliani, e Europa, ripulita dagli europei. Siccome aborrisce anche le religioni questo enorme califfato dovrebbe diventare ateo (un bel problema) e assomigliare di più a un gigantesca Cina stile MaoTsè Tung, tutti uguali, vestiti di grigio, in marcia come tanti robot, senza pensieri, senza valori, senza patria.

Soros è un intellettuale?

Certamente e questo è il guaio.  E’ uno che pensa, il problema è che pensa male. Se fosse semplicemente una macchina per soldi si limiterebbe a contarli e a fare beneficienza, lui invece è, a modo suo, un idealista pericoloso, vuole cambiare il mondo, plasmarlo a modo suo. E’ un idealista nefasto che, se riuscisse a portare avanti il suo sogno, tutto il mondo occidentale sarebbe invaso dall’islam
Criticare Soros significa essere antisemiti? 
No. Innanzitutto perché lui non si sente ebreo, anzi credo che odi esserlo. Lui è criticabile perché pericoloso, ha portato al potere Obama, il peggior presidente nella storia degli Stati Uniti, finanzia tutti o quasi tutti i movimenti di protesta, quelli che vogliono dare un grande scossone alla società civile e produrre il caos. E’ lui stesso che alimenta l’antisemitismo con tutte le sue organizzazioni antigovernative filopalestinesi che vorrebbero la fine di Israele e del popolo ebraico. Soros è nemico di tutti i popoli che rivendicano le proprie tradizioni e la propria cultura. Per questo criticarlo non è antisemitismo, un’accusa che i suoi sostenitori diffondono in sua difesa e che purtroppo gode di vasta popolarità. Ebreo suo malgrado, combatterne le iniziative non solo è lecito ma doveroso.

Link di un mio precedente articolo su George Soros.

Leggendo questo articolo mi è venuto in mente Stalin: a volte accadeva che “venisse alla luce” una congiura per ucciderlo; centinaia di persone venivano arrestate, operai semianalfabeti, interrogati con le dovute maniere, confessavano di avere avuto intensi contatti con agenti nemici americani, francesi, tedeschi, di avere lungamente complottato insieme a loro e di avere ricevuto da loro la pistola per ucciderlo, grigi professori confessavano di avere per anni insegnato ai loro allievi a odiare il compagno Stalin eccetera eccetera; il tutto si concludeva, tra esecuzioni e deportazioni in Siberia, che nel 99% dei casi equivalevano a esecuzioni differite, con un migliaio di vittime. Accurati studi posteriori rivelavano che il tutto aveva avuto lo scopo di eliminare un unico nemico, confondendo le acque in modo che nessuno potesse capire quale fosse l’obiettivo. E torniamo a Soros: il sospetto, che sempre più prepotente mi si affaccia alla mente, è che l’obiettivo di cancellare popoli e nazioni e culture sull’intero pianeta, abbia in realtà lo scopo di annientarne uno in particolare, quello che gli fa ribollire il sangue e contorcere lo stomaco: il suo, il popolo ebraico, la cultura ebraica, e lo stato di Israele. Con l’aggiunta del fatto che, per quanto rinnegato, è pur sempre, per tutti gli antisemiti, “Soros l’ebreo”, che compie azioni abominevoli in modo che si possa dire: “Vedi che gentaglia immonda sono gli ebrei” (a pensar male, come diceva quel tale che di male se ne intendeva eccome…)

barbara

SOROS, IL MONDO E NOI. E ISRAELE

Ancora uno splendido pezzo di Niram Ferretti

Palindromo filantropico

ottobre 21, 2018

di Niram Ferretti  

Nei suoi Tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, Vladimir Sergeevič Solov’ëv presenta il filus perditionis come un grande filantropo venuto per unificare i popoli e instaurare una Chiesa universale, abbattendo divisioni, particolarismi e settarismi. George Soros, non è, naturalmente, l’Anticristo, ma è, come il protagonista del libro di Solov’ev, un filantropo e come tale si presenta sulla scena nella veste di guerriero del progresso che può plasmare demiurgicamente la realtà, i fatti, in virtù dell’enorme ricchezza di cui dispone. L’uomo, d’altronde, ha di sé una opinione molto alta, “diventare la coscienza del mondo” e non a caso, il suo biografo, ha intitolato il libro a lui dedicato The Life and Times of a Messianic Billionare. Di sicuro il messianismo di Soros è, come tutti i messianismi, improntato a redimere l’umano, se non dalle sue contraddizioni esistenziali sicuramente da quelle storiche sociali. A questo scopo, nel 2017, ha dirottato diciotto miliardi di dollari delle sue sostanze alla Open Society Foundations, la grande organizzazione creata allo scopo di promuovere un futuro più democratico in linea con ciò che per lui significano democrazia e progresso.
“Società aperta” è una definizione prelevata da Karl Popper che, a sua volta l’aveva mutuata da Henri Bergson, ed è, ancora una volta, uno di quegli splendidi trucchi lessicali dal sapore umanitario di cui la nostra epoca va ghiotta. Perché dichiararsi a favore di una società aperta evoca immediatamente un’immagine di maggiore libertà e tolleranza, di circolazione delle idee, di pluralismo, di altruismo, in contrasto con quella di una società chiusa ed egoista, nemica della diversità, razzista.
Solo che poi la teoria deve farsi prassi, l’idea deve incarnarsi nel concreto ed è a questo punto che l’agenda umanitaria e universalista di Soros si rivela essere radicalmente in opposizione con ogni idea di tradizione, di ordinamento consolidato, di consistenza etnica e nazionale. Per il magnate ungherese di origine ebrea nazionalizzato americano, nato Schwartz e poi trasformato in Soros da un padre innamorato dell’Esperanto,  totalitario non è solo ogni regime che come quello nazista o comunista, confischi la libertà riducendo gli uomini a meri epifenomeni di un’unica volontà collettiva superiore, ma ogni confine, ogni identità di popolo, ogni rivendicazione culturale forte da parte di una civiltà e di una nazione.
In questo senso il sentire di Soros è perfettamente allineato a quello maggioritario europeo attuale, allo scollamento identitario di cui l’Europa è portatrice, ed è altresì allineato alla teologia dell’immigrazione come destino ineludibile, di conseguenza ferocemente avverso a tutto ciò che vi si oppone. Tutti i dubbiosi o i non allineati sono nemici del progresso. Il meccanismo è sempre quello. E il progresso si dispiega in una pletora di organizzazioni non governative che nella loro diversità, tuttavia hanno tutte un comune denominatore, come sottolinea Caroline Glick:
“Cosa ha a che fare il cambiamento climatico con l’immigrazione illegale africana in Israele? Cosa ha a che fare Occupy Wall Street con le politiche immigrazioniste greche? Il fatto è che I progetti appoggiati da Soros condividono una base di attributi comuni.
Operano tutti nell’indebolire le autorità nazionali e locali all’interno delle democrazie finalizzate a sostenere le leggi e i valori delle loro nazioni e comunità. Operano tutte per danneggiare i liberi mercati, sia che essi siano finanziari, ideologici, politici o scientifici. Lo fanno in nome della democrazia, dei diritti umani, della giustizia economica, razziale e sessuale e di altri termini nobili”[1].
Lo fanno in nome di. E’ fondamentale che sia così. Il Bene va annunciato e promosso come lo scopo da perseguire, cosa comporti effettivamente perseguirlo è un altro paio di maniche. Lo sottolinea Douglas Murray:
“Nel 2015 il finanziere miliardario George Soros ha speso considerevoli somme di denaro per finanziare gruppi di pressione e istituzioni promuoventi i confine aperti e il libero movimento dei migranti dentro e intorno all’Europa. Insieme a un sito internet chiamato Welcome2EU, la sua Open Society Foundations ha pubblicato milioni di volantini allo scopo di informare i migranti su cosa fare. I volantini li informavano su come arrivare in Europa, quali fossero i loro diritti una volta lì e cosa potessero fare e non fare le autorità. I gruppi sostenevano apertamente la ‘resistenza contro il regime europeo dei confini’”[2]
Lo sfondamento dei confini, dei bordi, il loro oltrepassamento, non è solo un auspicio concreto, una precisa direttiva politica, chiaramente esplicitata da un sodale di Soros, come il defunto grand commis della UE, Peter Sutherland, “Chiederò ai governi di cooperare, di riconoscere che la sovranità è una illusione, che la sovranità è una illusione totale che deve essere messa alle nostre spalle. Il tempo del nascondersi dietro i confini e i cancelli se ne è andato da molto tempo”[3], ma è una drammatica metafora di un crepuscolo, e di una orfanità imposte.
Nella stessa intervista in cui faceva questa dichiarazione, Sutherland aggiungeva emblematicamente a conclusione del suo pensiero, “Dobbiamo lavorare insieme e cooperare insieme per rendere il mondo migliore. E ciò significa affrontare alcune delle vecchie parole d’ordine e delle vecchie memorie storiche e immagini dei nostri paesi e riconoscere che siamo parte dell’umanità“[4] (corsivi miei).
Vino vecchio in otri nuovi. Saint Simon e Auguste Comte precedono Peter Sutherland e George Soros, si stagliano alle loro spalle. Soprattutto Comte il quale si considerava “fondateur de la religion de l’humanitè”. Il progetto è sicuramente ambizioso, ma proprio per questo vale la pena intraprenderlo.
In Underwriting Democracy il suo libro del 1991, Soros non fa mistero di “avere portato con me fin dall’infanzia delle fantasie messianiche piuttosto potenti”[5].
Rifare il mondo, raddrizzarlo è una costante gnostica sempre presente in quelle che sono le sue declinazioni filosofiche politiche moderne come ha mostrato impareggiabilmente Eric Voegelin nel corso della sua monumentale opera, “La conoscenza, gnosis del metodo di alterare l’essere è la principale preoccupazione dello gnostico…La costruzione di una formula per la propria salvezza e per quella del mondo, insieme alla disponibilità dello gnostico nel presentarsi come un profeta il quale annuncerà il suo sapere a proposito della salvezza dell’umanità[6]“. E Soros il suo “sapere” lo ha annunciato senza sosta, soprattutto agendolo attraverso la Open Society Foundations, il suo lascito perenne per il manifestarsi del progresso.
L’umanità, al posto dei popoli e delle nazioni, delle memorie condivise, delle proprie radici, questa astrazione radicale figliata dall’Illuminismo radicalizzato e poi trasfusa nel positivismo e trapassata nel marxismo, questa finta essenza che nega il fatto empirico in base al quale, al di là di una comunanza umana ontologica, il fatto umano non è mai stato puro ma si è sempre declinato in una appartenenza a vincoli sociali e culturali, a tradizioni, memorie condivise, fedeltà, legami.
Nel mondo senza confini di George Soros, quello dell’Umanità, sogno rivoluzionario realizzato, poiché, “Nella prospettiva del futuro conta solo la liberazione globale e definitiva”[7], Israele è un altro ostacolo che deve essere superato insieme al grande agente del male sulla terra, gli Stati Uniti. E deve esserlo perché (come gli Stati Uniti) è uno Stato nazione e come tale è fondato su una forte coscienza di sé, su una decisa appartenenza identitaria, su una fondamentale condivisione di storia e di memoria. Nella post-histoire del “filosofo fallito” (come Soros stesso si è definito), poi diventato uno dei giocatori politico-economici più influenti del pianeta, Israele, così com’è, non ha alcun diritto di cittadinanza. Di nuovo Caroline Glick:
“Per quanto concerne Israele, Soros ha sostenuto organizzazioni finalizzate a delegittimare ogni aspetto della società israeliana come razzista e illegittimo. I palestinesi sono un punto focale dei suoi attacchi. Li usa per affermare che Israele è uno stato razzista. Soros finanzia gruppi di sinistra moderata, gruppi di estrema sinistra, gruppi di arabi israeliani e gruppi palestinesi. In vari modi complementari, questi gruppi dicono ai loro pubblico mirato che Israele non ha alcun diritto di difendere se stesso o applicare le sue leggi nei confronti di cittadini non ebrei”[8].
La recente Legge Base passata alla Knesset, che ha semplicemente certificato una tautologia, che Israele è lo Stato degli ebrei, e il clamore che ha suscitato venendo accusata di discriminazione e razzismo nei confronti delle altre minoranze, nello specifico la più cospicua, quella araba, rappresenta una ulteriore conferma della potenza pervasiva della narrativa egemone, quella che vola sulle ali dello Spirito del Tempo e che Soros promuove attraverso la sua tentacolare fondazione.
L’attacco politico-mediatico alla legge Base sullo Stato ebraico fa parte della medesima Weltanschauung secondo cui, come dichiarò Peter Sutherland in una delle sue ultime interviste, il “vecchio” deve lasciare il posto al nuovo, perché il vecchio è il male e il nuovo è il bene.
L’essenza del futuro, del progresso, non può essere che morale. Bisogna fare bene attenzione a questo imperativo, esso è un dogma, e come tutti i dogmi, chiunque osi metterlo in discussione è sospinto a forza nel regno delle tenebre della contro-reazione, di chi si oppone al cambiamento, perché il cambiamento è sempre necessariamente buono. Così, Vickor Orbán, il premier magiaro che nel 2015 critica pubblicamente Soros per “appoggiare qualsiasi cosa che indebolisca gli stati nazione”[9] e che lo ha costantemente preso di mira accusandolo di promuovere a più non posso l’immigrazione musulmana in Ungheria, diventa automaticamente, a tutti gli effetti, uno dei simboli irriducibili del male.
Il nazionalismo messianico che ha dominato gli Stati europei dall’inizio del Novecento ed è stato uno dei motori delle due grandi guerre che hanno insanguinato il “secolo breve”, si è trasformato progressivamente nel messianismo dell’Unione Europea e nel fondamentalismo post nazionalista di chi, come Soros, Sutherland e altri vorrebbe il futuro del continente ma anche quello degli Stati Uniti e di Israele, uniformato ad un unico modello di società.
Una società senza identità specifica, ibrida in cui le irriducibili differenze dei vari popoli si fonderebbero in un unico melting pot all’interno del quale dovrebbe prevalere una utopica armonia. Questo progetto essenzialmente gnostico (abolizione dei confini, delle differenze, delle autonomie e delle essenze culturali, distruzione dello “spirito” dei popoli), come sempre, con ogni progetto gnostico, al posto della realtà di primo livello (quella concreta, empirica), sostituisce una realtà di secondo livello (astratta, mentale).
Esso si fonda sulla speranza (ragionevolmente fondata) che l’Occidente dissolva la propria identità, non tenendo assolutamente conto che l’Islam, diversamente da quanto l’Occidente ha fatto, è rimasto per 1400 anni essenzialmente fedele alla propria vocazione teopolitica, cioè quella di essere un grande progetto totalizzante di società e mondo, fondato su quei presupposti identitari forti che l’Occidente ha progressivamente perso, e che Soros e i “progressisti”, sulla sua scia vorrebbero perdesse definitivamente.

[1] Caroline Glick, Soros Campaign of Global Chaos, Frontpage Magazine, 23 agosto 2016.
2 Douglas Murray, The Strange Death of Europe, Immigration, Identity, Islam, Bloomsbury, 2017, p. 184.
3 UN News Centre, “Refugees are the responsibility of the world… Proximity doesn’t define responsibility”, Intervista con Peter Sutherland, 2 ottobre 2015.
4 Ibid.
5 George Soros, Underwriting Democracy, Pubblic Affairs 1991, p.103.
6 Eric Voegelin, Science, Politics & Gnosticism, ISI Books, 2004, p.65.
7 Leszek Kolakowski, Lo spirito rivoluzionario, La radice apocalittico-religiosa del pensiero politico moderno, PGRECO Edizioni, 2013, p.15.
8 Caroline Glick, Art. cit.
9 Viktor Orbàn citato da Douglas Murray in The Strange Death of Europe, Bloombsbury, 2017, p.185

Un mondo così, insomma. E in più il fatto che purtroppo, suo malgrado – molto malgrado – Soros è ebreo. Non di religione, ma questo per qualcuno non conta: il sangue, per i nazisti, non si lava, e tanto basta per gridare al complotto ebraico. E per dare – paradosso dei paradossi – dell’antisemita a chi lo critica. Mala tempora currunt.

barbara

IL BAMBINO SENZA NOME

Vengo da una famiglia poverissima; a casa mia non c’erano libri, né soldi per comprarli. Non solo: comprare libri era considerato il modo più stupido possibile di buttare via i propri soldi, leggerli il modo più stupido possibile di buttare via il proprio tempo. Così a tre anni sapevo leggere, a quattro sarei stata perfettamente in grado di leggere libri, ma di libri da leggere non ce n’erano. Me ne è rimasta una sorta di fame arretrata perenne, e per questo leggo male, più in fretta che posso, per finire il libro il più presto possibile e attaccarne subito un altro. E non rileggo mai nessun libro. Con un’unica eccezione: questo.

Come in occasione delle nostre scappate ad Acland Street, mio padre prestava molta attenzione alle varie lingue dell’Est parlate dagli avventori: polacco, russo, persino qualche frase di yiddish. Non faceva che guardarsi attorno, cercando di scoprire a chi appartenessero le varie voci. Poi si voltò di scatto verso di me, schiarendosi la voce: sembrava che quelle parlate gli avessero innescato dentro qualcosa.
«Prima che andassi a Riga, quando ero bambino…» iniziò.
«Vuoi dire quando ti perdesti nella foresta?»
«No, ancora prima» disse sommessamente.
«Credevo che di quel periodo non ricordassi nulla.»
«Qualcosa lo ricordo.» Tacque per quella che mi sembrò un’eternità. «Ho in mente due parole che mi frullano per la testa e che non ho mai dimenticato.»
Tacque di nuovo.
«Una è Koidanov» disse infine «e l’altra è Panok
Appena le ebbe pronunciate, sembrò affascinato dal loro suono.
«Sono nomi di persone o di località? Che cosa significano?»
Si chinò verso di me, avvicinandosi ancor di più; poi scosse la testa, cupo, stringendosi nelle spalle: «Non ne ho la minima idea».
Infine, come folgorato da un pensiero improvviso: «Sai che cosa penso, figliolo? Queste due parole sono la chiave per scoprire chi ero prima di vagare nella foresta, prima che i soldati lettoni. . .».
«Quando ancora stavi con la tua famiglia di contadini russi?»
Tacque di nuovo, come immerso nei suoi pensieri. Poi sospirò: «Ammesso che sia davvero così».
«Ammesso che tu sia davvero figlio di contadini russi?» proruppi. «Che diavolo vorresti dire, papà?»
Lo guardai sbigottito, ma i suoi occhi vagavano nel vuoto, evitandomi.

Un uomo ormai vecchio, che non ricorda nulla della propria infanzia: sa solo che le SS lettoni lo hanno trovato che vagava nella foresta e lo hanno preso con sé, facendone la propria mascotte, con tanto di uniforme su misura.
Kurzem 1
Porta il nome che loro gli hanno affibbiato, non sa quale fosse il suo, né da dove provenga. Ma i fantasmi di quel passato lo tormentano con sempre maggiore insistenza, con sempre maggiore forza, e chiede aiuto al figlio per tentare di dare, a quei fantasmi, un volto e un nome.

Nel completo silenzio, il riecheggiare dei nostri passi ebbe su mio padre uno strano effetto: si irrigidì, come se avesse udito qualcosa che io non potevo sentire.
Si fermò improvvisamente e mi fissò.
«Accadde qualcosa di terribile» mormorò.
Rimasi in attesa di una qualche rivelazione. Lui continuò a fissarmi per qualche istante, poi distolse lo sguardo e si voltò verso il muro.
«No, dimentica, non è niente»
«Come niente? Hai appena detto che accadde qualcosa di terribile. Che cosa fu, papà?»
Tornò a guardarmi.
«Non farci caso, figliolo. Scordatene, non capiresti.»
Quasi abbagliato dalla luce che proveniva dall’uscita del tunnel riuscivo a scorgere solo la sua sagoma. Quando mi avvicinai, vidi che il suo viso era pallido e inspiegabilmente contratto. Respirava con difficoltà, ansimando.
«È stato terribile quello che mi hanno chiesto di fare!»
«Chi? Di chi stai parlando? Cosa ti hanno costretto a fare?»
Il suono dei passi di qualcuno che entrava nel tunnel lo colpì e lo fece irrigidire nuovamente. Ero preoccupato da quell’insolita reazione; gli afferrai istintivamente il braccio, nella speranza di calmarlo – un gesto che stupì entrambi, dal momento che nessuno dei due si era mai mostrato particolarmente espansivo.
Un uomo, vestito elegantemente, ci passò accanto a testa bassa. Mio padre gli rivolse un sorriso imbarazzato. Fermi, in silenzio, nella parte più scura del tunnel, di certo dovevamo sembrare piuttosto strani.
Prima che lo sconosciuto si fosse ormai definitivamente dileguato, mio padre sembrò riacquistare la calma.
«Papà, dimmi la verità: ti è successo qualcosa? A Melbourne hai dei problemi?»
Scosse la testa.
«No, no, niente di preoccupante. Si tratta semplicemente di un ricordo, spuntato improvvisamente dal nulla.» Ripeté “dal nulla”, e sembrò sinceramente dispiaciuto per quanto si era appena lasciato sfuggire.
«Non voglio insistere, papà, ma se volessi dirmi…»
Mi fissava con lo sguardo spento. Poi, come se nulla fosse, riprese a parlare: «Marky, avrei voglia di un gelato; dove possiamo trovarne uno?».
[…]
Ma poi, quella strana apatia svanì come per incanto. Cercando di farsi udire nel concitato viavai dei viaggiatori, mi gridò: «Sono stati Lobe e Dzenis, anni fa! Sono loro che mi hanno costretto a farlo. Dzenis mi disse di dichiarare che non avevo visto nulla, che Lobe non aveva fatto nulla. Ma non è vero! Non è vero! Ho visto molte cose!».
Le parole gli uscivano dalla bocca come acqua in caduta da una diga improvvisamente aperta. «Dzenis mi disse che loro mi avevano salvato e che ora toccava a me salvare loro. Io non volevo, ma non avevo scelta. Dzenis aveva già scritto tutto, io mi limitai a firmare. Ho fatto male, ho sbagliato.»
Mi stava accanto, scosso da un parossismo di timore e di vergogna insieme, eppure non riusciva a tacere.
L’altoparlante avvisò che le porte stavano per chiudersi.
«Papà, stai attento, fai un passo indietro!» gridai.
In realtà, prima che me ne rendessi conto, aveva già afferrato la valigetta e l’aveva fatta passare attraverso le porte, proprio mentre quelle si stavano chiudendo. Così adesso eravamo uno di fronte all’altro, separati da un vetro. Mio padre aveva gli occhi sbarrati, stralunati, sembrava sotto shock, privo di ossigeno. La pressoché involontaria rivelazione lo aveva lasciato sconvolto. La cosa mi spaventava, temevo per lui, ma non potevo fare nulla. Il fischio di un addetto alla sicurezza m’impose di scostarmi.

E dopo aver aperto la porta dei segreti, dopo aver lasciato uscire quei due nomi, Koidanov e Panok, improvvisamente, con dolorosa violenza, i ricordi cominciano ad affiorare.

Mio padre riprese a raccontare: «Finalmente i miei fratellini si addormentarono, e probabilmente mi appisolai anch’io, sulla sedia, in cucina. Quando aprii gli occhi, mia madre era seduta di fronte a me, al buio. Era immobile. Potevo vederne solo la figura, ma sentii che mi stava guardando. Mi chiamò a bassa voce, mi prese in braccio e mi tenne stretto. Ricordo che mi accarezzava i capelli, ricordo le sue dita muoversi dolcemente. E a un certo punto mi disse: “Domani moriremo tutti”».
Papà tacque. Rimase in silenzio un paio di minuti. Poi alzò gli occhi verso di me, ma appariva sconvolto.
«Sai,» disse lentamente «mia madre mi chiamava per nome, è indubbio che lo facesse, ma davvero non riesco a ricordarlo, quel nome. Posso udire ancora la sua voce, il suo modo di parlarmi, ma non riesco a sentire il mio nome.»
«Ricordi qualche altro nome? Quelli di altri familiari?»
Di nuovo scosse la testa, disperato.
«Tuo fratello e tua sorella, come si chiamavano?»
«Nessun nome. Non ricordo nessun nome, niente»
«Quanti anni avevano?»
«Erano più piccoli di me. Mio fratello cominciava appena a camminare, lo ricordo sgambettare per casa. E mia sorella era ancora in fasce.»
Tacque per un attimo, un leggero sorriso gli increspò le labbra.
«Mia madre mi disse che adesso il capofamiglia ero io, perché papà non c’era più. . .»
«Dov’era tuo padre?»
«Era morto.»
«In che modo?»
«Non lo so. Un giorno mia madre mi disse che era morto. Non ricordo altro. Ho solo la vaga impressione che a casa non ci fosse.»
«Quando?»
«Non saprei dire.»

Per cercare aiuto il figlio si rivolge innanzitutto agli storici, agli studiosi dell’Olocausto, ma nessuno gli dà credito: scottati dal recente scandalo Wilkomirski, sono tutti diventati estremamente scettici nei confronti di veri o presunti ricordi riemersi dall’oblio. Solo uno accetta di riceverlo, e gli dice chiaro e tondo che tutta la storia raccontata da suo padre non si regge. Un dettaglio in particolare, a suo avviso, ne è la prova evidente: la madre che lo informa che il giorno dopo sarebbero morti. Nessuno, spiega lo storico, poteva avere un’informazione del genere, dal momento che le “Aktionen” erano appena all’inizio e avvenivano sempre all’improvviso, senza preavvisi. E tuttavia il vecchio padre non sta né mentendo, né ricordando male…

Guardai il sergente Kulis; lui si rivolse alla piccola folla e disse solennemente: “Soldato Uldis Kurzemnieks, polizia militare lettone”.
A quel punto, molti soldati vennero verso di me, desiderosi di stringermi la mano o di farsi fotografare in mia compagnia, perché c’era anche un tale con un cavalletto e una grande macchina fotografica.
Kurzem 3
Forse era il fotografo ufficiale dell’esercito; a ogni buon conto, sistemò la macchina e mi mise in posa. Qualcuno mi sistemò un fucile sulla spalla e iniziò una sorta di gara per farsi ritrarre accanto a me. Un gruppo di soldati si mise orgogliosamente davanti all’obiettivo formando un semicerchio.
Kurzem 4
Ricordo anche che uno di loro infilò la sua pistola nella mia cintura e mi passò un braccio attorno alle spalle. Fatta la fotografia ricevettero l’ordine di andare in città e un altro gruppo prese il loro posto. Continuò così per un po’. A me non dispiaceva: era divertente essere al centro dell’attenzione.
Infine Kulis disse basta. Mi si accovacciò di fronte, mi guardò con un’espressione molto seria e pronunciò di nuovo la parola partizani. Poi mi prese per mano e ci avviammo insieme verso la città. Anche gli altri soldati si mossero in quella direzione. Poiché li vedevo passarsi una fiasca e bere grandi sorsate di samagonka senza nessuna disciplina, intuivo che stava per accadere qualcosa.
L’atmosfera era strana: i soldati erano chiassosi, ma tutto intorno regnava un silenzio spettrale. Per strada non c’era anima viva, gli abitanti si erano tutti chiusi in casa. Vidi solo qualche tendina sollevarsi appena, mentre passavamo.
Avevo paura, non volevo essere in prima fila insieme al sergente Kulis. Lasciai andare la sua mano, ma lui, troppo assorto nel guardare davanti a sé, sembrò non accorgersene nemmeno.
Rallentai il passo e a poco a poco mi trovai in fondo alla fila.
Arrivammo a un incrocio. Scrutai attraverso le gambe dei soldati e vidi che sul lato opposto della strada c’era un edificio. Era più alto e più grande di qualsiasi edificio mi fosse mai capitato di vedere, doveva essere di due o tre piani.
Nello spiazzo antistante c’erano centinaia di persone, vecchi, donne e bambini, stretti gli uni agli altri. Riuscii a distinguere solo alcune facce, simili a quelle del mio villaggio. Tuttavia, a impressionarmi fu soprattutto la paura dipinta sui loro volti, la stessa che avevo visto il giorno del massacro. Ero spaventato, ma anche confuso: Kulis li aveva definiti partizani.
Lentamente cercai di allontanarmi, e stavo quasi per fare dietro front e darmi alla fuga, quando uno dei soldati dell’ultima fila se ne accorse e mi richiamò. Tornai indietro; il soldato mi prese per le spalle e mi tenne davanti a sé.
Ero troppo impaurito per osare chiudere gli occhi e rischiare di mettermi nei guai. Cercai comunque di non guardare, fingendo che il sole mi accecasse, ma non potei evitare di scorgere quanto stava accadendo: alcuni soldati spingevano i prigionieri dentro l’edificio, mentre altri inchiodavano assi di legno contro le finestre.
Quando le porte furono sprangate, i soldati ammucchiarono rami secchi e fascine contro le pareti e appiccarono il fuoco. In pochi attimi, l’edificio fu avvolto dalle fiamme. Dapprima, tranne il crepitio del fuoco, non si udì alcun rumore; poi cominciarono le urla. I soldati tacevano, nessuno rideva, nessuno si muoveva: sembravano tutti ipnotizzati dalle fiamme che salivano sempre più alte verso il cielo. Anche il soldato che mi aveva preso per mano pareva essersi dimenticato di me. Anche lui, immobile, fissava le fiamme.»
Mio padre tacque di nuovo e inspirò profondamente.
«Chissà, forse vedevano bruciare anche la loro anima» disse infine a bassa voce.
«Poi accadde qualcosa.»
La sua voce era appena udibile. Per un attimo sembrò colto da un attacco di panico: boccheggiava come se si sentisse soffocare. Affettuosamente, lo invitai a continuare:
«Che cosa vedesti?».
«All’improvviso qualcuno uscì dall’edificio: era una donna… mio Dio!»
Emise un gemito, come se avesse la donna davanti agli occhi.
«Era avvolta dalle fiamme… e dietro di lei correvano due bambini, anch’essi avvolti dalle fiamme. Non emettevano alcun suono, come usciti da un film muto…
Poi, prima che mi rendessi conto di quanto stava accadendo, udii degli spari; la donna e i suoi bambini caddero a terra, immobili. Capii che erano morti, ma dai loro corpi continuavano ad alzarsi le fiamme.
Guardai verso il punto da cui erano giunti gli spari: il sergente Kulis e altri due soldati stavano abbassando i fucili proprio in quel momento.
Kulis si voltò per cercarmi. Anche se mi trovavo nelle ultime file, i suoi occhi mi trovarono. Sorrise e agitò la mano. “Partizani” gridò, come per giustificare le sue azioni.
Corsi via, senza riflettere. Sentii il sergente chiamarmi, ma non gli badai
[…]
«L’edificio dato alle fiamme, hai idea di che cosa fosse?»
Si strinse nelle spalle.
«Allora mi sembrò un edificio qualsiasi; adesso però mi chiedo se non fosse una sinagoga.»
«È quello cui stavo pensando anch’io.»
Pur non essendo un esperto in fatto di Olocausto, sapevo che episodi del genere si erano verificati molto spesso.
«Probabilmente si trattava di ebrei» aggiunsi.
Mio padre parve stupito.
«Il sergente Kulis usava il termine partizani
«I nazisti usavano spesso quel termine per indicare gli ebrei che si davano alla macchia. Li chiamavano anche bolscevichi
«Non lo sapevo» disse visibilmente scioccato. «In tutta sincerità, non avrei avuto la minima idea di cosa volesse dire essere ebrei, anche se erano la mia gente. Avevo solo cinque o sei anni. L’unica cosa di cui mi rendevo conto era che quelle persone assomigliavano agli abitanti del mio villaggio. Ripensandoci ora, penso proprio che fossero ebrei.»

Si tratta, con tutta probabilità, del massacro di Slonim. Ne ho cercato in rete qualche documentazione fotografica, ma pare che non ne esistano.

«Non hai fatto nulla di male» proruppi. «Se non ti accettano per quel che sei, cancellali dalla tua vita!»
Si grattò la nuca, pensieroso.
«C’è dell’altro, non è vero?» dissi.
«Cosa?»
«Sull’essere  ebreo…»
Annuì.
«Non so come spiegarlo» confessò a bassa voce.
Appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa tra le mani.
«Ti fa paura l’idea di essere ebreo?»
Sollevò di scatto la testa e mi fissò intensamente: avevo toccato un nervo scoperto.
«Non lo so, figliolo» mormorò infine. «Quando ero con i soldati ho sempre sentito parlare degli ebrei come di vermi. Gli ebrei sono il male assoluto, dicevano. A furia di sentirglielo ripetere giorno dopo giorno – e di dover tacere – mi entrò nella mente e nell’anima. Finii per vergognarmi di esserlo.»
Con i loro insulti contro gli ebrei, e – assai peggio – con le loro Aktionen, i soldati e gli altri lettoni non avevano soltanto terrorizzato il bambino che avevano accolto, lo avevano spinto a vergognarsi della sua vera identità. Così quel bambino aveva nascosto il fatto di essere ebreo anche a se stesso, oltre che agli altri, in una sorta di autoannientamento.

Perché questa è, forse, la conseguenza più drammatica in storie di questo genere: dover fare i conti con l’idea di essere quanto di più lontano, quanto di più estraneo, quanto di più ostile a ciò che si pensava di essere. (C’è un’altra pagina che voglio proporvi, ma lo farò in un altro momento)
Quanto al libro, ricordate che è l’unico, in tutta la mia vita, che ho letto per una seconda volta.

Mark Kurzem, Il bambino senza nome, Piemme
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barbara