FACEBOOK, LA SVEZIA, LA RELIGIONE DI PACE, I PENSIONATI ECCETERA ECCETERA

Durante l’interrogatorio, la pensionata ha spiegato: “Mi sono arrabbiata quando ho letto come funziona con gli immigrati e come essi evitino le punizioni per tutto ciò che fanno. Vengono assolti anche se rubano e fanno altre cose. È ingiusto che coloro che commettono gravi crimini possano essere rilasciati…”. La pensionata ha detto che non avrebbe scritto quelle parole se avesse saputo che era illegale. Evidentemente l’ha fatto con la convinzione errata di vivere ancora in uno Stato di diritto democratico. A gennaio, la donna è stata condannata a pagare un’ammenda di 4 mila corone svedesi (443 dollari). Vive con una pensione di soli 7 mila corone svedesi (775 dollari) qui.

Della Svezia prostituita alla religione di pace, della Svezia con interi quartieri in cui non entra neppure la polizia, della Svezia in cui gli stupri aumentano in maniera esponenziale, della Svezia in cui essere ebrei è altamente sconsigliato, si è scritto ripetutamente in questo blog. Adesso sappiamo che la Svezia non è neppure più uno stato di diritto. Non per gli infedeli, per lo meno; diciamo che c’era uno stock di diritti da distribuire, e si è scelto di distribuirli tutti ai fedeli della religione di pace, lasciandone totalmente sprovvisti tutti gli altri. L’aria della non equa distribuzione spira un po’ dappertutto, ma la Svezia, come sempre, è all’avanguardia.

Da noi, per il momento, anche se fortemente sconsigliato, non è, credo, ancora vietato dalla legge. A scoraggiare gli incauti provvede però quella signorina allegra di facebook. L’ultima vittima della serie è Alberto Levy, che per questo post
A. Levy
è stato sospeso per un mese. Gli amici che ne sono a conoscenza vorrebbero diffonderlo, ma non si azzardano a pubblicare il suo post per non rischiare di essere a loro volta sospesi. Per questo ho voluto fare questo post, affinché chi voglia far conoscere la sospensione di Alberto Levy e il motivo per cui è stata messa in atto, lo possa fare condividendo questo post. Come potete vedere, nel titolo e in tutta la prima parte, che compare nelle condivisioni, ho evitato il termine tabù che potrebbe scatenare l’ira del feisbucchiano Minosse che sta orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l’intrata; giudica e manda secondo ch’avvinghia.

E per non farci mancare niente, aggiungiamo la Germania, a suo tempo aiutata dalle SS musulmane, che ricambia il favore rifiutando di dichiarare terrorista Hezbollah. Come cantava quel tale, “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”.

barbara

28 MAGGIO 1974

Il centro di Brescia è quasi deserto. Contro il cielo basso, gravido di pioggia, l’alta copertura bombata di lamine grigio-azzurre del palazzo rinascimentale della Loggia pare lo scafo di un’arca capovolta che prenda il largo nel mare di nuvole. La luce stenta a farsi strada. I netturbini si muovono pigri lungo i portici. Un leggero rumore metallico echeggia nel silenzio, mentre svuotano i cestini della spazzatura attaccati alle colonne. Il grande orologio astronomico della torre che domina il lato orientale della piazza rettangolare non segna ancora le sette quando ripuliscono l’ultimo, proprio sotto il quadrante istoriato, accanto alla fontanella di marmo dalla faccia leonina. Il furgone si allontana fra i rari passanti, il motore tossicchia mescolandosi allo sferragliare delle prime saracinesche. Una mattina come tante altre, solo un po’ troppo fredda, per essere primavera inoltrata.
Sui muri di pietra chiara, da alcuni giorni i manifesti invitano i cittadini alla mobilitazione, in concomitanza con lo sciopero generale di quattro ore indetto dai sindacati.
appello
Verso le otto e mezzo la piazza comincia a brulicare di vita. Per primi arrivano gli operai incaricati di montare il palco per gli oratori. Se la cavano in meno di un’ora, vogliono finire prima che cominci a piovere. Quando hanno completato il lavoro, alcuni poliziotti si avvicinano per ispezionare la struttura. Guardano sotto la pedana di legno, dietro i panneggi del fondale. Controlli di routine. Tutto a posto. Non hanno avuto l’ordine di ispezionare a fondo la piazza, nessuna misura di sicurezza eccezionale. Per la Questura, oggi è un giorno come tanti altri.
Eppure, solo pochi giorni prima, il 21 maggio, alla redazione del «Giornale di Brescia» è arrivato un volantino che fa venire i brividi:

LE PATTUGLIE DI GUERRIGLIA SONO PRONTE, LE BOMBE E I MITRA FARANNO SENTIRE LA LORO VOCE. OGNI LAMPIONE AVRÀ IL SUO IMPICCATO ED I ROSSI AVRANNO LA LEZIONE CHE SI MERITANO . . . ENTRO IL MESE DI MAGGIO, GRAVI ATTENTATI SARANNO POSTI IN AZIONE. AL FINE DI EVITARE MORTI INNOCENTI LA POPOLAZIONE CIVILE EVITI DI TRANSITARE PRESSO LE SEDI DEI PARTITI COMUNISTA, SOCIALISTA E TUTTE LE FOGNE IN CUI HANNO SEDE I GRUPPUSCOLI ROSSI IN GENERE. LA POPOLAZIONE CIVILE EVITI I VIAGGI IN TRENO SULLA LINEA MILANO-BRESCIA PERCHÉ È NOSTRA INTENZIONE INIZIARE LO SMANTELLAMENTO DEI COLLEGAMENTI FERROVIARI.

I treni sono una sorta di simbolo della strategia del terrore neofascista, sin dai suoi primi vagiti. Al principio di agosto del 1969, nel giro di due giorni, la cellula padovana di Ordine nuovo, coordinata da Franco Freda e Giovanni Ventura, aveva piazzato ben otto bombe su diversi treni. Altre due erano state rinvenute, inesplose, nelle stazioni di Milano e di Venezia. Il bilancio, per fortuna, fu di soli dodici feriti. Venne poi l’attentato alla stazione di Gioia Tauro, nel 1970, in concomitanza coi moti di protesta capitanati dai neofascisti a Reggio Calabria. Un gruppo legato a Ordine nuovo tornò a prendere di mira i treni nell’aprile del 1973. La minaccia, dunque, merita d’essere presa sul serio.

DATO CHE LA POLIZIA E I CARABINIERI CONTINUANO IMPERTERRITI A PROTEGGERE I ROSSI, SI EVITI DI TRANSITARE VICINO ALLE CASERME E AI COMANDI DI TALI FORZE. LE MACCHINE DI TALI FORZE POTRANNO ESSERE IN OGNI LUOGO SOGGETTE A TIRI DI ARMI AUTOMATICHE.

Firmato: Partito nazionale fascista, sezione «Silvio Ferrari». Nonostante la preghiera di dare diffusione all’ultimatum, il quotidiano («foglio che consideriamo il solo informatore», precisa l’anonimo autore, non come «il bugiardo “Bresciaoggi” servo dei rossi»), d’intesa con la Prefettura, non ha ritenuto di darne notizia, per non creare ulteriore allarme nella popolazione. Più sorprendente, non sono stati allertati nemmeno i rappresentanti del Comitato unitario antifascista, promotore della manifestazione del 28 maggio, né i leader sindacali che hanno indetto per quella stessa mattina lo sciopero generale, sebbene le minacce siano indirizzare in primo luogo ai «rossi». Nemmeno gli agenti in servizio, né i colleghi dell’Arma presenti in piazza, gli altri obiettivi designati, sono informati di nulla.
Eppure, la manifestazione è stata indetta proprio contro l’escalation di violenze di matrice neofascista («fascista», dicono tutti all’epoca, a sottolineare, nel bene o nel male a seconda di chi parla, la continuità ideale con il Ventennio) che ha colpito la città. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata per l’appunto la morte di Silvio Ferrari, il giovane terrorista di destra (appena ventuno anni) cui è intitolata la sezione di un redivivo Pnf. Nel cuore della notte del 19 maggio, sostando sulla propria Vespa in via Mercato, una strada del centro non lontana dalla Loggia, Ferrari è rimasto ucciso dalla carica di tritolo che trasportava sul pianale, scoppiata, evidentemente, prima del previsto; attorno al cadavere, volantini bruciacchiati firmati «Anno Zero», una nuova sigla della destra radicale. Non si sa per certo dove fosse destinata la bomba (qualcuno parla della sede locale del «Corriere della Sera») né si riesce a stabilire nell’immediato se si tratti di un incidente, oppure se qualcuno dei suoi complici abbia manomesso la bomba per uccidere il giovane.
Per onorare le esequie, i camerati di Anno Zero mandano una bizzarra corona funebre: un’ascia bipenne – il simbolo del gruppo neonazista Ordine nuovo – di fiori bianchi, a ribadire il legame con l’ala più dura dell’estrema destra. Il giorno dei funerali Brescia è scossa dai disordini, gli extraparlamentari di sinistra danno addosso ai camerati, e questi incolpano i «rossi» dell’assassinio di Silvio (visto che il terrorista è stato ucciso dalla propria bomba, per allontanare i sospetti dai suoi sodali comincia a circolare, già nel volantino di minacce del 21, la voce che l’ordigno fosse nascosto nel bauletto, anziché appoggiato sul pianale tra le gambe del ragazzo). Cinque neofascisti veronesi vengono arrestati per aver provocato incidenti. La tensione è alle stelle, quando, il 22 maggio, il Comitato antifascista d’intesa con i sindacati decide di indire una manifestazione per ribadire il rifiuto della violenza da parte della cittadinanza.
Nessuna precauzione speciale, nessun segnale di allerta, anche se la minaccia viene reiterata il giorno prima della manifestazione. La sera del 27 viene spedito alla Questura, al «Giornale di Brescia» e, questa volta, anche a «Bresciaoggi» un secondo volantino, firmato «Ordine Nero – Gruppo Anno Zero – Brixien Gau», che suona come una sezione locale («Brixia» era il nome latino di Brescia) del gruppo cui apparteneva Silvio Ferrari, «vittima inconsapevole delle trame rosse», scrivono. Nuove minacce di ritorsioni per la sua morte e un disperato tentativo di annacquare la matrice nera, evidentissima, del mancato attentato del 19 maggio.

NOI EREDI DI UN GLORIOSO PASSATO, NATI UOMINI E NON DECISI A MORIRE SCHIAVI, AVENDO VALIDI MOTIVI PER CREDERE CHE TUTTE LE AZIONI IMPERNIATE SULLE PISTE NERE ALTRO NON SIANO CHE ABILISSIMI MOVIMENTI DELLA PEGGIOR CANAGLIA COMUNISTA, AL CUI SERVIZIO SI SONO POSTI I PEGGIORI DELINQUENTI COMUNI IN COMBUTTA CON POLIZIA E GIUDICI, PER SCREDITARE L’UNICA PARTE SANA DI UN POPOLO, ABBIAMO DECISO DI SOSTITUIRCI AD ESSI, A TUTELA DELLA NOSTRA ITALIA FASCISTA… LA SENTENZA È DA OGGI ESEGUIBILE.

A Brescia e provincia le violenze di marca neofascista sono andate in crescendo.
[…]
Le divise scure degli agenti di pubblica sicurezza e dei carabinieri si materializzano sotto le volte dei portici, presso la Torre dell’Orologio. Sono meno del solito, stamattina. Gli ufficiali dell’Arma locale sono in gita a Mantova, dovevano andarci il sabato precedente, ma l’escursione è stata posticipata al 28. A presidiare la postazione è rimasto solo il tenente Ferrari con una manciata di uomini e i soliti immancabili agenti in borghese, che ormai tutti conoscono benissimo. Quando la pioggia si intensifica, i carabinieri liberano lo spazio sotto i portici per dare modo ai manifestanti senza ombrello di ripararsi.
Gli ultimi cortei sono confluiti in piazza. Si contano circa 2500 persone: un successo, considerato il tempo inclemente. Alle dieci in punto Franco Castrezzati sale sul palco e prende la parola a nome del sindacato unitario.  […] Approccia la folla con la grinta del tribuno di razza, anche se non ha praticamente chiuso occhio: dopo aver lavorato fino a tardi, s’è svegliato alle quattro del mattino per stendere gli appunti dell’intervento che si accinge a pronunciare. La voce possente riverbera dagli altoparlanti, la piazza si tace:

«Amici e compagni, lavoratori, studenti, siamo in piazza perché in questi ultimi tempi una serie di attentati di marca fascista ha posto la nostra città e la nostra provincia all’attenzione preoccupata di tutte le forze antifasciste. E le preoccupazioni sono tanto più acute ove si tenga conto che la macchina difensiva delle istituzioni democratiche della Repubblica si è messa in moto solo dopo che alcune fortuite circostanze hanno rivelato l’esistenza di una organizzazione eversiva ampiamente finanziata e dotata di mezzi micidiali sufficienti comunque a creare terrore e sbandamento».

I giornali cittadini, Castrezzati lo sa bene, da settimane non parlano d’altro che del Mar, Movimento d’azione rivoluzionaria, un’organizzazione eversiva venuta alla luce con l’arresto di due giovani «neri», Kim Borromeo e Giorgio Spedini, intercettati da un posto di blocco dei carabinieri mentre trasportavano cinquantasette chili di esplosivo su una stradina statale in provincia di Brescia. Il fatto desta scalpore perché Borromeo risulta essere uno dei ragazzi già arrestati per l’attentato al Psi del febbraio 1973, ma tornati subito in libertà, perché non furono nemmeno incriminati per detenzione e trasporto illegale di esplosivi: a proposito di indulgenza e impunità. l due ragazzi fanno parte della fitta rete di neofascisti che fa capo all’ex partigiano Carlo Fumagalli. Anticomunista di ferro, questi non ha esitato ad arruolare gli epigoni del vecchio nemico per attuare il proprio piano: una serie di attentati destinati a culminare in un focolaio insurrezionale in Valtellina, per spingere la classe politica verso una svolta autoritaria che mettesse in sicurezza il Paese rispetto all’avanzata delle sinistre.

Redento è al centro di piazza Loggia col suo drappello ad ascoltare il comizio, quando un compagno attira la sua attenzione verso l’assembramento ai piedi della Torre dell’Orologio:
– Guarda, c’è un «gambaletto», – cioè un fascista, – gli dice, – lo conosco, lavora all’Eni -. Presenza insolita, puzza di provocazione. Redento punta dritto verso il tipo. Riesce a tenerlo d’occhio facilmente perché porta una giacca sahariana e dei pantaloni color carota, strani persino per la moda degli anni Settanta. Ma quando arriva nelle vicinanze lo perde di vista per via della folla. Controlla che non abbia lasciato una bomba carta o qualcosa di peggio nei pressi del luogo dove l’ha avvistato. Guarda nella piccola vasca di marmo della fontana, dietro la colonna, sui gradini dei negozi. Verifica persino se le grate dei tombini siano state smosse. Niente. Il cestino dei rifiuti non lo controlla. Perché non lo vede. È già completamente nascosto dai manifestanti. Resta ad ascoltare il comizio nei pressi della fontana, accanto a due vecchi operai in pensione.

«Il drammatico episodio di piazza Mercato ha imposto un colpo di acceleratore alle trame nere. Sono così venuti alla luce uomini di primo piano già legati alla Repubblica di Salò… Si scopre così un fortino alle porte della città, una sorta di campo di addestramento messo a disposizione dall’ingegnere di Collebeato ufficialmente povero in canna, ma in realtà accasato in una villa principesca. Vengono pure alla luce bombe, armi, tritolo, esplosivi di ogni genere, perfino cannoncini anche se rudimentali».

L’ingegnere di Collebeato, un paesino a pochi chilometri da Brescia, si chiama Ezio Tartaglia, un reduce di Salò con la mania di collezionare armi. È uscito dal Msi deluso dal grigio moderatismo dei dirigenti e da tempo si dedica a addestrare nel suo castelletto i più irrequieti tra i giovani camerati, infiammandoli con grandiosi progetti di rivalsa. […]
Dopo le vicende locali, Castrezzati passa a enumerare lo stillicidio di violenze che hanno sconvolto l’opinione pubblica nazionale, da piazza Fontana in poi.

Mentre l’atto d’accusa tocca il culmine, una signora sulla cinquantina, stretta nel suo impermeabile, si affretta lungo vicolo Beccaria, dietro la Torre dell’Orologio. La manifestazione non le interessa, i comizi nemmeno, è appena uscita dalla banca in piazza Duomo e corre verso un altro appuntamento. Oh no, ormai è tutto pieno, pensa, quando sbuca in piazza Loggia. Prova a farsi largo tra i manifestanti accalcati sotto il portico. Supera la cartoleria Zanelli, arriva davanti alle vetrine di Tadini e Verza, lo storico negozio di tessuti, vicino alla fontana.
– Hai pronta la bomba? – dice una voce maschile, giovane.
Quando sente questa frase la donna, pur nella fretta, si blocca. Si gira. A parlare è stato un ragazzo a poca distanza da lei, capelli castano chiaro, molto corti, jeans e camicia azzurra. Dimostra sì e no vent’anni. Un tipo fine, distinto: il classico studente di buona famiglia. Parla con un altro giovane che però la signora non riesce a vedere. Pronuncia la frase con tale tranquillità che la donna si convince di aver frainteso. Sarà solo un modo di dire, magari parlano di macchine. O di ragazze. Prosegue fendendo decisa la folla, perché si sta facendo tardi. Ragazzi giovani, giovanissimi. Come Silvio Ferrari, come le reclute di Fumagalli, come gran parte della manovalanza nera. Castrezzati sta parlando proprio di loro.

«All’insegna del nazionalismo e del razzismo la Repubblica di Salò ha intruppato nelle Brigate Nere giovani, spesso ancora adolescenti, inviandoli alla carneficina mentre deliranti e farneticanti urlavano slogan insensati. .. a pagare per le colpe, i crimini e i misfatti del fascismo erano normalmente i meno responsabili. Gli stracci, così venivano definiti. E a me sembra che la storia si ripeta, e cioè che anche oggi non si scavi in profondità, non si affondi il bisturi risanatore fino alla radice del male».
[…]
Manlio e Livia si affrettano nella ressa di piazza Loggia tenendosi per mano, mentre Castrezzati si infervora sempre più. Hanno individuato gli amici, posizionati al coperto nei pressi della fontanella, davanti alla colonna col cestino dei rifiuti. Alberto alto, il bel sorriso aperto, il braccio attorno alle spalle di Clem. Mentre camminano verso di loro, un compagno blocca Manlio per chiedergli qualcosa. Lascia la mano di Livia. – Vai avanti, ti raggiungo tra un attimo, – dice. La testa di lei, piccolina, si perde tra gli ombrelli.

«Oggi ancora si insiste su questa strada profittando dell’inesperienza, ed è così che i mandanti, i finanziatori dell’eversione possono seminare distruzione e morte senza scoprirsi, possono camuffare le loro trame con tinte diverse da quella nera, come è avvenuto per l’attentato di piazza Fontana».
[…]

Prima di andare dal Piero, Livia e Manlio si erano fermati un momento dalla mamma di lei, che abita al piano di sopra, perché la sapevano un po’ in apprensione,  «non temete che domani possa succedere qualcosa?» ma loro l’avevano tranquillizzata. Figurarsi! Nella loro piazza, casa comune, non può succedere nulla di male.
La voce di Castrezzati si trasforma in un ruggito:

«La nostra Costituzione, voi lo sapete, vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto Partito fascista. Eppure il Movimento sociale italiano vive e vegeta. Almirante, che con i suoi lugubri proclami in difesa degli ideali nefasti della Repubblica sociale italiana ordiva fucilazioni e spietate repressioni, oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e perciò costituzionale».

Manlio si è liberato. Alza gli occhi, vede il suo gruppetto, Alberto si è spostato avanti, Clem copre appena Lucia. Piero. Giulietta. Livia. Incrocia lo sguardo della moglie mentre Castrezzati prende un respiro e dopo una pausa drammatica, riprende

«A Milano…»

Occhi negli occhi, lei gli fa un cenno con la mano.
Proprio allora, la bomba esplode.
(Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio, pp. 35-51)

Manlio-Livia
Manlio accanto al corpo di Livia. Sta chiedendo aiuto per sollevarla, perché non si è accorto che è già morta

Arnaldo-Alberto
Arnaldo Trebeschi accanto al corpo del fratello Alberto. Sarà lui ad accogliere nella propria famiglia il piccolo Giorgio, figlio di Alberto e Clem, che i genitori solitamente portavano con sé alle manifestazioni ma che quel giorno, a causa del maltempo, avevano lasciato a casa per non rischiare che prendesse un malanno.

Giulietta Banzi Bazoli, anni 34
Giulietta-Banzi-BazoliLa foto del “dopo” ve la risparmio

Livia Bottardi Milani, anni 32
Livia-Bottardi-Milani

Clementina Calzari Trebeschi, anni 31
Clementina-Calzari-Trebeschi

Alberto Trebeschi, anni 37
Alberto Trebeschi

Euplo Natali, anni 69
Euplo-Natali

Luigi Pinto, anni 25
Luigi-Pinto

Bartolomeo Talenti, anni 56
Bartolomeo-Talenti

Vittorio Zambarda, anni 60
Vittorio-Zambarda

Poi, dopo anni, dopo lustri, dopo decenni di indagini effettuate, di documenti raccolti, di fatti accertati, di processi celebrati, viene sentenziato che non c’è nessun colpevole. E sul manifesto che invitava alla manifestazione, e che da allora è rimasto in Piazza della Loggia a perenne ricordo della strage perpetrata durante la manifestazione stessa, i cittadini di Brescia hanno apposto quest’altro cartello:
successo niente

E me lo ricordo, me lo ricordo bene quel giorno, camminavo per strada e piangevo, di strazio per le vittime, di rabbia impotente nei confronti di tanta efferata barbarie. E ancora più grandi diventano, e lo strazio e la rabbia impotente, alla lettura di questo libro, alla scoperta delle tante cose che non sapevo e che hanno fatto da sfondo a questa tragedia, che l’hanno favorita, e che hanno garantito l’impunità a tutti gli assassini.

barbara

LIBERTÀ DI STUPRO GARANTITA PER LEGGE

Lo stupro impunito del branco di Montalto:
“Io, stanca di combattere per avere giustizia”

MONTALTO DI CASTRO – Sei anni fa, esattamente in questi giorni, in questa stessa pineta che si affaccia sul mare e dove di notte nessuno sente e nessuno vede. Forse era già primavera, mentre oggi il cielo è incerto: la stuprarono in otto, per tre infinite ore, M. aveva 15 anni, gli altri, il branco, poco di più.
“Mi hanno preso la vita e rubato il futuro, ho sperato ogni giorno di avere giustizia, ma se avessi saputo che finiva così non li avrei mai denunciati. Ora sono stanca, non ho più la forza di combattere”, racconta oggi M. L’hanno chiamato lo “stupro di Montalto di Castro”, dal nome di quel paese tra Lazio e Toscana che ha continuato testardamente a difendere i suoi “bravi ragazzi”, che nella notte tra il 31 marzo e il primo aprile del 2007 abusarono selvaggiamente di M., Maria, un nome che non è il suo ma le assomiglia. Oggi dopo sei anni e due processi, quella ferocia di gruppo è diventata il paradigma di quanto in Italia la violenza sessuale resti di fatto ancora impunita. E le vittime relegate nell’ombra di vite spezzate.
“Aveva la minigonna”, fu l’incredibile capo d’accusa del paese schierato in piazza davanti alle telecamere di Canale 5 per insultare Maria, che aveva la media del 9 a scuola, e quella sera di marzo aveva accettato dalla sua amica del cuore l’invito ad una festa in una discoteca di Montalto di Castro. Qualcuno poi l’aveva convinta ad uscire dal locale, per prendere un po’ d’aria nella pineta, gli altri erano sbucati dal buio.
Il resto è incubo, vergogna, paura, l’avevano lasciata lì pesta, sanguinante, con le calze rotte.
Per quindici giorni Maria si tiene il segreto, poi in lacrime racconta tutto al preside del liceo di Tarquinia che allora frequentava, e che l’aveva convocata per capire perché quell’allieva così brillante non facesse altro che piangere in classe. Sei anni e due processi dopo, nonostante la richiesta di 4 anni di carcere avanzata dal Pubblico ministero, e pur riconoscendo che il racconto di Maria è del tutto veritiero, il 26 marzo scorso il tribunale per i minori di Roma ha deciso per la seconda volta di affidare i colpevoli – alcuni lavorano, altri sono diventati padri, mai nessuno ha chiesto scusa a Maria – ai servizi sociali. Sospendendo così ancora una volta il processo.
E allora bisogna salire su una strada ripida alle porte di Tarquinia, trenta chilometri da Montalto di Castro, attraversare un ballatoio rigoglioso di fiori curati, e sedersi accanto ad Agata, la madre di Maria, 59 anni, quattro figli, Salvatore, Gianluca, Cinzia e Maria, gemelle, emigrata qui dalla Sicilia 23 anni fa, un marito camionista, lei stiratrice in lavanderia. E c’è tutto il dolore di una madre nei grandi occhi azzurri di Agata, un pudore violato, “per farla visitare la portai dalla ginecologa che l’aveva fatta nascere, ma alle cinque del mattino, per non incontrare nessuno”.
Nel salotto che odora di pulito, con le foto in cornice e i buoni mobili di famiglia, Agata racconta. “Quello che hanno fatto a Maria lo sento ogni giorno sulla mia pelle, sono ferite aperte, era poco più che una bambina, oggi vive quasi nascosta, a casa di un’amica dove fa la baby sitter, ha smesso di andare a scuola, è l’ombra della bella ragazza che era, ha paura del buio, da quella notte maledetta non ha mai più messo una gonna, e in tutti questi anni nessuno dei suoi aguzzini, o dei loro genitori, mi si è avvicinato per dirmi mi dispiace, mio figlio ha sbagliato. Anzi, durante le udienze i ragazzi ridevano”.
Ci avevano già provato i giudici, nel 2009, a recuperare gli otto del branco, alla fine rei confessi, difesi da buoni avvocati e con famiglie abbienti alle spalle. Addirittura il sindaco di Montalto di Castro, Salvatore Carai,
salvatore carai
ancora oggi iscritto al Pd, contro ogni procedura aveva prelevato dalle casse comunali 40mila euro per difendere i violentatori.
Una “messa in prova” fallita, durante la quale uno degli otto era stato addirittura arrestato per stalking contro la fidanzata, tanto che la Corte di Cassazione aveva revocato quel provvedimento, imponendo un nuovo processo di primo grado.
Continuerebbe a combattere Agata, vorrebbe impugnare quella “messa in prova” che non ha reso giustizia a sua figlia. Insieme a lei, da sempre, un’altra donna tenace, Daniela Bizzarri, ex consigliera delle Pari Opportunità di Viterbo. Una solidarietà che diventa amicizia. “L’affidamento ai servizi sociali di questi ragazzi, oggi tutti maggiorenni, si è già rivelato un fallimento la prima volta. Perché riproporlo e far passare il concetto che lo stupro è un delitto minore? Così passa il messaggio dell’impunità”.
E basta affacciarsi in uno dei tanti chioschi semiaperti sul litorale di Montalto, per capire perché Agata e Maria si sentano sole. “C’avete rotto i co…, è stata una ragazzata, e se l’hanno fatto vuol dire che lei li incoraggiava. Lasciateci vivere”. Agata liscia con gesto di sempre la tovaglia inamidata sul tavolo. “Quelli vanno in giro, sono liberi, li vedi nei bar, si sono sposati. Maria ha perso venti chili, è dovuta andare via, a lei chi restituirà il futuro? Per questo vorrei ancora avere giustizia”. Ma è Maria invece che come tante altre donne vittime di stupro, ha deciso di ritirarsi. Delusa. Stanca. “Non posso sostenere un nuovo processo – sussurra – ad ogni udienza sto male, vomito, ricominciare daccapo, vedere le loro facce… Li dovevano condannare, ma mi basta che i giudici mi abbiano creduto, che io sono una ragazza perbene. Ora cerco soltanto un po’ di pace”.

07 aprile 2013,  MARIA NOVELLA DE LUCA, qui

Come ho già avuto modo di dire in altra occasione, s’i fossi foco, garantito che l’eruzione del Vesuvio del 79 diventerebbe un giochino da bimbi dell’asilo. E per il sindaco, un bello spiedo arroventato. Sperando che abbia le emorroidi.
parte-lesa
barbara