MUTISMO SELETTIVO

Come già spiegato una volta, Greta intende il suo mutismo selettivo nel senso che “parlo solo quando ho qualcosa da dire” (ehm…) L’osservazione delle sue esibizioni sembrerebbe però dirci qualcosa di molto diverso, è cioè che Greta parla unicamente quando qualcuno le ha scritto un testo da leggere, a volte anche quando si tratta di chiacchierare del più e del meno, ma la capacità di parlare scompare istantaneamente nel momento in cui qualcuno le pone una domanda, una qualsiasi, a proposito del clima o di qualunque argomento serio. L’abbiamo già vista in questo video che ora vi ripropongo

e qui potete leggere l’articolo con le spiegazioni in merito. E rivediamo esattamente la stessa scena ora: assolutamente incapace di rispondere alla domanda più semplice e banale, addirittura incapace, si direbbe, di comprendere la domanda, totalmente persa se non ha un testo davanti:

Perfettamente capace di rispondere alle accuse di Greta sembra invece Luca Donadel

E anche Adriano Scianca.

Cara Greta, se cerchi chi ti ha rubato i sogni, guarda al Terzo mondo

Di Adriano Scianca -27 Settembre 2019

Roma, 27 set – Chi ha rubato i sogni di Greta Thunberg? Qualche giorno fa, l’adolescente svedese a cui è stato affidato il compito di neutralizzare ogni discorso serio sull’ambientalismo ha tuonato così davanti ai capi di Stato mondiali riuniti all’Onu: “Mi avete rubato i sogni”. Accettando solo per un secondo questa grottesca impostazione empatico-virale del problema, resta comunque un dubbio: chi ha rubato i sogni di Greta? Chi è responsabile dell’emergenza climatica?  Chi deve cambiare modello? La risposta del qualunquismo ecologico è semplice: “i governanti”. Se non, direttamente, “l’uomo”. Come se tutti i governi, le comunità umane, i modelli di società fossero identici. E invece, elevandosi appena un pochino al di sopra del livello zero del discorso, si scopre che così non è. Proviamo quindi, senza alcuna velleità di completezza, a mettere insieme un po’ di dati in ordine sparso.

I fiumi più inquinati sono in Asia e Africa

Secondo dati della Banca Mondiale, risalenti al 2014, i 10 Paesi (11, in realtà, dato che all’ottavo posto ci sono due Stati ex aequo) del mondo che emettono più anidride carbonica pro capite sono: Qatar, Curaçao, Trinidad e Tobago, Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi, Brunei, Arabia Saudita, Saint Martin, Lussemburgo, Stati Uniti. Si tratta di una statistica che lascia il tempo che trova, dato che non si può pensare che il problema del mondo siano le emissioni di Trinidad, ma in cui spicca l’assenza quasi totale di Stati europei. Secondo un recente un rapporto di IQAir AirVisual e Greenpeace, invece, è in India che si trovano 7 delle 10 città più inquinate al mondo, che salgono a 22 se si guarda alle 30 località peggiori.

Passando dall’aria alle acque, sappiamo che ogni giorno circa 8 milioni di tonnellate di plastica entrano negli oceani. Ma, cosa significativa, l’80% di questa materia inquinante proviene da solo 10 fiumi. Che, secondo un report del 2017, sono: lo Yangtze (Cina), lo Hai He (Cina), il Fiume Giallo (Cina), il Mekong (6 Paesi attraversati, tutti in Asia), il Pearl (Cina e Vietnam), l’Indo (Cina, India e Pakistan), il Gange (India e Bangladesh), l’Amur (Russia e Cina), il Nilo (7 Paesi attraversati, tutti in Africa), il Niger (7 Paesi attraversati, tutti in Africa). Ma allora perché si continua a dire che abbiamo un problema con “i politici” o con “l’uomo”, quando è cristallino che in realtà abbiamo un problema con i Paesi emergenti? Forse perché prendersela con i governanti in generale non disturba nessuno, mentre cercare di far cambiare politica ambientale alla Cina richiede qualche risorsa politica che vada oltre le capacità di una liceale indignata?

L’agricoltura italiana emette meno gas serra

Ma non è solo fra macroaree e continenti che si registrano significative differenze nell’impatto ambientale delle attività antropiche. Anche all’interno dell’Ue, per esempio, ci sono modelli e modelli. Con 569 tonnellate per ogni milione di euro prodotto, la nostra agricoltura emette per esempio il 46% di gas serra in meno della media Ue e fa decisamente meglio di Spagna (+25% rispetto al nostro Paese), Francia (+91%), Germania (+118%) e Regno Unito (+161%). Passando a un altro dogma del qualunquismo ambientalista, ovvero l’eterno “mangiamo troppa carne e così facendo distruggiamo il pianeta”, si può rintracciare l’origine di questo tipo di argomento in un rapporto allarmistico della Fao del 2006, in cui si stimava che le produzioni animali contribuissero per il 18% alle emissioni globali di gas serra e che fossero responsabili della produzione del 35-40% del totale di metano generato dalle emissioni legate all’attività antropica. Stime più recenti della stessa Fao, tuttavia, riducono al 14% il contributo degli allevamenti animali alle emissioni globali dovute alle attività antropiche. Laddove esiste una zootecnia tecnologicamente sviluppata (tanto per farla finita con l’idea che la tecnica sia sempre nemica dell’ambiente), gli allevamenti producono dal 2 all’8 % del totale delle emissioni.

Ed è poi vero che ne consumiamo troppa? Gli ultimi studi segnalano che in Italia il consumo reale pro-capite di carni totali corrisponde a 104 grammi al giorno (e non a quasi 300 gr come invece si pensava) pari a 728 g alla settimana e 37,9 kg all’anno. È la metà dei famosi 71 chili che spesso sentiamo citare nelle discussioni allarmistiche. E ben al di sotto dei 125 chili annui attribuiti dalle statistiche a ciascun americano (ma bisognerebbe vedere l’attendibilità della statistica). Considerando solo la carne bovina, il consumo reale scende a 29 grammi al giorno pro capite, una quantità che si piazza al di sotto delle raccomandazioni dell’Oms che fissano a 100 gr il consumo giornaliero di carne rossa.

Contro il qualunquismo ambientalista

E così via, si potrebbe continuare all’infinito. Come detto, non si pretende di voler fornire qui uno studio organico, esauriente e definitivo sull’argomento. Non si vuole nemmeno sostenere la posizione reazionaria che intende negare sic et simpliciter l’esistenza di un problema. Ma la questione resta più complessa di come non la faccia la propaganda ambiental-qualunquista e andrebbe impostata tenendo conto di tutti i dovuti fattori geopolitici. Certamente anche lo stile di vita italiano ed europeo ha bisogno di una rivoluzione integrale. Ma l’insistenza del pensiero unico nel mettere sotto processo solo esso, laddove il cuore del problema ambientale è palesemente altrove, rivela una cattiva fede politica e un vizio di forma spirituale che non possono passare sotto silenzio.

Adriano Scianca (qui)

E per concludere un’interessante riflessione del noto climatologo Franco Battaglia.

Se il Gretinismo fosse nato nel 1920…

Forse possiamo provare a riflettere sul Gretinismo – questa nuova faccia dell’ambientalismo che sembra aver obnubilato le menti del pianeta, comprese quelle più raffinate e insospettabili – guardando le cose da un altro punto di vista. Bisogna essere consapevoli che la legittimità d’esistenza che si dà oggi a Greta e ai Gretini, questi avrebbero potuto averla anche un secolo fa, diciamo nel 1920, quando le emissioni di CO2 erano attive già da almeno mezzo secolo e il possibile problema oggi sollevato da Greta era già allora ben noto.

Supponiamo ora che la richiesta pressante della ipotetica Greta del 1920 di raggiungere le emissioni – zero fosse stata effettivamente esaudita, e nel 1950 si fosse raggiunto l’agognato obiettivo. Oggi non avremmo auto, autobus, metropolitane, autostrade, fabbriche, industrie, televisione, telefonia mobile, internet, ambienti riscaldati d’inverno e rinfrescati d’estate. Non ci sarebbero frigoriferi né lavatrici, aerei o navi da crociera e neanche treni, né lenti né, tanto meno, ad alta velocità (almeno la Tav non sarebbe stata un problema; neanche lessicale di genere, circostanza che ci avrebbe evitato questa caduta nel ridicolo). In pochi anni, l’umanità sarebbe tornata allo stile di vita del 1850. Chissà, forse la schiavitù avrebbe smesso di essere quel tabù che era nel 1920, e che non era tale nel 1850, quando invece era pratica legittima nell’America di allora, popolata da 30 milioni d’abitanti con 4 milioni di schiavi.

Ecco questo è ciò che ci aspetta se davvero dovesse raggiungersi il livello-zero d’emissioni. Perché, piaccia o no, quasi il 90% di ciò che facciamo lo facciamo emettendo CO2. Né sappiamo farlo diversamente. Non è vero, direbbe il Gretino d’oggi: per esempio, col fotovoltaico produrremmo energia elettrica. No, se dovessimo affidarci a esso, le televisioni potrebbero chiudere: i massimi ascolti sono quelli della prima serata, ma di sera il sole non brilla. E anche i treni di notte si fermerebbero. E anche di giorno, in tutti quei momenti che, col cielo coperto, il sole insiste a non brillare. E col vento non è diverso. Se avete mai assistito alla Barcolana, la spettacolare regata di barche a vela che si svolge la seconda domenica d’ottobre a Trieste, avrete visto che se il vento si ostina a non soffiare, le barche biancheggianti sulle acque come branchi di pecore pascenti – direbbe il poeta – rimangono sconsolatamente ferme.

Viste le cose da questa prospettiva, mi chiedo se i vari Gretini che hanno tanto pontificato sugli organi d’informazione d’ogni ordine e grado torneranno in qualche modo sui propri passi. Temo di no, perché l’essenza del Gretinismo è la granitica incapacità a distinguere il sogno dalla realtà. A differenza dei Gretini, la piccola Greta – o chi per lei – se n’è accorta, e s’è definita essa stessa “una che sogna un mondo migliore”. Il verbo è sapientemente pesato: non “desidera”, non “spera”, non “s’impegna per”, ma “sogna”. I Gretini sono quelli che hanno preso per realtà concreta ciò che la loro sacerdotessa li ha avvertiti essere sogno.

Quanto a Greta, quello suo all’Onu non era un discorso accorato e men che meno pensato: parlava una arrabbiata. Indemoniata, direi. Invece di ringraziare la generazione che l’ha partorita e che le ha consentito di stare al caldo in un Paese decisamente inospitale per il freddo che fa, essa inspiegabilmente ha sputato astio e veleno sui propri genitori, nonni e bisnonni. Ma le spiegazioni neanche c’interessano: essa non è così importante da meritare alcuna nostra ricerca nelle làtebre della sua mente per cercare di capire cosa vi è nascosto. Dovrebbero però indagare, a nostro avviso, gli attivisti di Telefono Azzurro e i magistrati, per capire perché nessun adulto protegga dai trafficanti di bambini questa ragazzina, la cui patologia la rende così vulnerabile – ci dice la medicina – a monotematiche fissazioni.

Franco Battaglia, 28 settembre 2019, qui.

Questa espressione, “trafficanti di bambini”, Franco Battaglia l’ha usata anche in televisione, inducendo “NeXt quotidiano” a scrivere: “Il professor Franco Battaglia ha dato spettacolo ieri a “Otto e mezzo” da Lilli Gruber” (La veritààà ti fa maaleee, loo sooooo)

barbara

MINISTRA AVVOCATA SINDACA INGEGNERA

Mi raccomando, signore femministe, continuate a battere il chiodo sulle questioni lessicali, non stancatevi mai. Approfittate di questa fortunata assenza di problemi più importanti per lottare contro la spaventosa (effrayant, espantosa, frightening, ungeheuer) violenza perpetrata contro le donne usando un lessico maschilista (clic, clic).

In India Le Donne Sono Costrette A Rimuovere L’utero Per Poter Lavorare Di Più, Ed È Una Cosa Atroce

Il numero di isterectomie nello stato del Maharashtra cresce esponenzialmente, e vederci chiaro a questo punto è d’obbligo
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Lavorare come raccoglitore di canna da zucchero a Beed, città indiana nello stato del Maharashtra, è estremamente faticoso e sconfortante. Durante la mietitura, che avviene tra ottobre e marzo, la sveglia suona alle 4 del mattino, il lavoro dura più di 12 ore al giorno sotto il sole cocente (e senza assicurazione sanitaria) con le ore di riposo in tendopoli vicino ai campi senza servizi igienici, il tutto per un’aspettativa di guadagno tra le 30.000 e 35.000 rupie, ovvero 380 e 450 euro, per l’intera stagione di raccolto. Per ogni giorno di assenza, a prescindere dalla motivazione, è prevista una multa di 500 rupie e per questo qualsiasi malattia e/o malessere non è contemplabile. In questo scenario, non è difficile immaginare come il ciclo mestruale delle donne sia un ostacolo. Come denunciato dalla ONG Tathapi sul quotidiano locale First Post, sarebbero circa 4500 le donne lavoratrici nel corso degli ultimi tre anni, “spinte” dal datore di lavoro a rimuovere l’utero per poter lavorare senza interruzioni e non rallentare la raccolta. Un ulteriore affronto per le lavoratrici già vittime di discriminazioni di genere sia in termini di salario sia di molestie sessuali.
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Come spiegato da Le Figaro, il numero delle isterectomie nello stato del Maharashtra ha raggiunto numeri tragici e preoccupanti, il che ha portato l’ONG ad allertare le autorità. Nel dettaglio, due indagini condotte dal governo regionale nel 2018, hanno stabilito che il 36% delle raccoglitrici di canna da zucchero ha subito l’intervento di rimozione dell’utero mentre la media nazionale è solo del 3,2%. Ma non è tutto qui. Dietro a questi numeri agghiaccianti ci sarebbe una “piccola industria locale” nata dal sodalizio tra i datori di lavoro e medici, che forti della loro posizione di esperti consigliano l’operazione (nell’85% dei casi l’operazione si è svolta in una clinica privata) ventilando il rischio di cancro cervicale solo per spingere le donne ad accettare la procedura e intascare tra le 20.000 e 40.000 rupie previste per l’intervento (molto più del guadagno di una stagione). “Abbiamo un obiettivo da raggiungere in un limitato lasso di tempo e perciò non vogliamo donne che potrebbero avere le mestruazioni durante la raccolta”, ha spiegato Dada Patil, un appaltatore, a The Hindu Business Line, come riportato da Il Corriere della sera, anche se la maggior parte dei datori di lavoro nega le accuse sostenendo che siano le donne stesse a volersi operare per non perdere giorni di lavoro. Come se non fosse esattamente la stessa cosa, come se portare una donna a dover scegliere tra il suo diritto di riprodursi, e l’unico guadagno possibile, e quindi alla sopravvivenza di tutta la sua famiglia, fosse meno atroce. (qui, via Fulvio Del Deo)

Allora, avete capito bene? Ministra, avvocata, sindaca, ingegnera. Non lasciatevi intortare dagli imbecilli che vorrebbero raccontarvi che i problemi sono ben altri, come se voi foste così stupide da cascarci. Ministra, avvocata, sindaca, ingegnera, ministra, avvocata, sin…

barbara

SICCOME PER ME LA COSA PIÙ IMPORTANTE È LA VERITÀ

Vedo che su FB sta dilagando ovunque quella volgare, squallida, penosa – absit iniuria verbis – battuta secondo cui il motivo per cui gli arabi sposano delle bambine è che ce l’avrebbero così piccolo da poter godere solo nel minuscolo spazio offerto da una bambina. Avendo una discreta cognizione di causa, spaziando per quattro stati e due continenti, posso affermarlo a chiare lettere: no, gli arabi ce l’hanno assolutamente normale. A volte anche qualcosa di più – esattamente come qualunque altro gruppo etnico. Piuttosto, il fatto che qualcuno cerchi la spiegazione a un’autentica tragedia quale quella delle spose bambine nelle dimensioni dell’uccello, mi fa sospettare che si tratti di un banale caso di proiezione, ossia che sia l’inventore della storiella ad avere penose – absit iniuria verbis – carenze in materia. Oltre, beninteso, ad averle nel cervello – la testa, appunto – se non riesce a farsi venire in mente niente di meglio (che poi, a dirla tutta, le spose bambine ci sono anche in India. E in una certa misura anche tra gli zingari: tutti ipodotati anche lì? Non è che alla fine viene fuori che ce l’avete grande solo voi? Mamma mia quanto fate schifo).
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(sarà un caso la posizione delle mani di entrambe le bambine?)
barbara

IL BAMBINO CON I PETALI IN TASCA

Esiste l’inferno? Sì, esiste; non in un qualche eventuale, possibile, ipotetico aldilà bensì in un fin troppo concreto aldiqua. Nel caso di questo – molto realistico – romanzo di tratta di Bombay, ma potrebbe essere qualunque altro posto dove gli “scarti” della società tentano di sopravvivere destreggiandosi tra regole del gioco non stabilite da loro ma da chi meglio degli altri ha saputo annientare in se stesso ogni residuo di coscienza e di sentimenti umani. Ed ecco dunque questa folla di reietti, bambini che mendicano e rubacchiano, quelli più grandi che rubano e spiano e a fine giornata versano al capo tutto il ricavato del loro “lavoro”. Tentare di imbrogliare costa caro: un occhio (non in senso metaforico), un pezzo di lingua, un orecchio, uno squarcio su tutta la faccia, o magari anche di peggio. Tutti laceri e sporchi, tranne il bambino bello, sempre pulito e ben vestito, che viene portato al “lavoro” in auto, e sempre in auto riportato poi alla base, dove si accascia sfinito coi pantaloni macchiati di sangue. E una cosa è chiara fin dall’inizio, fin dal momento in cui un nuovo dannato vi inciampa dentro: non esistono uscite. Non esiste la possibilità, neppure teorica, di uscirne. Non esiste la speranza di uscirne, di andare altrove, di cambiare vita.
Buio assoluto, dunque, senza un barlume di luce, senza riscatto? Forse no. Forse, dopotutto, no.

Anosh Irani, Il bambino con i petali in tasca, Piemme
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barbara

LE PREOCCUPAZIONI DEL MINISTRO

Per tirarli fuori dal carcere Enrico Letta ce la sta mettendo tutta
Un giudizio i cui toni «sgradevoli» hanno sorpreso Palazzo Chigi. Il presidente del consiglio italiano si è preso a cuore la vicenda.
tentativo di sbloccare al più presto la situazione giudiziaria
il capo del governo ha detto che la nostra opinione pubblica è «molto preoccupata» per il loro destino, ha chiesto una «attenzione particolare» e la «massima accelerazione possibile» per risolvere il caso. «Ti prego di fare tutto ciò che è in tuo potere – ha scandito “con calore” Letta – perché questi obiettivi siano raggiunti».
Dopo il bilaterale tra i due governi, Letta ha incontrato in ambasciata i genitori dei ragazzi arrestati. A tutti ha stretto la mano, poi si è chiuso per un quarto d’ora con un padre e una madre. «Vi sono vicino e seguirò gli sviluppi con la massima attenzione», ha promesso. (Corriere della Sera, 06/12/12, articolo di Monica Guerzoni)

I marò quasi sicuramente innocenti e illegalmente trattenuti in India, per i quali si profila di nuovo una condanna a morte? No: i teppisti laziali, sicurissimamente colpevoli, legittimamente trattenuti in Polonia.
Signor ministro, vada a cagare.
armi laziali
le armi trovate ai “tifosi” laziali, (qui)

barbara

LA MAESTRA BAMBINA

C’è un racconto ebraico: un mendicante va dal suo rabbino e chiede, spiegami rabbino, che io non capisco: busso alla porta di un povero che in casa non ha altro che un pezzo di pane, e lui prende il pezzo di pane e lo divide con me; busso alla porta di un ricco che ha la dispensa piena, e quello mi caccia in malo modo: perché? Il rabbino lo invita ad andare alla finestra e descrivergli quello che vede, e il mendicante comincia a dire: vedo la strada, due alberi, una donna con un bambino per mano, un uomo in bicicletta… Poi il rabbino lo manda davanti a uno specchio e, ugualmente, gli chiede di descrivere quello che vede. Perplesso per una richiesta che gli appare assurda, il mendicante risponde: la mia faccia vedo, e che altro dovrei vedere? Vedi – spiega il rabbino – è sempre vetro, ma appena ci metti dietro un po’ d’argento, non vedi più altro che te stesso.

Povera tra i poveri è Fula; povera e per giunta appartenente ai rifiuti dell’umanità, i dalit, i fuori casta, quelli che gli altri “Se potessero, non starebbero neppure sotto la stessa pioggia che scende dal cielo, con gente come noi”. E non è una donna sterile con vuoti da riempire: ha già tre figli, lei. E tuttavia non esita un solo istante a raccogliere quella neonata urlante e sanguinante abbandonata presso i binari, ignorando le perplessità del marito, a stringersela al petto e decidere di tenerla con sé. La bambina è di pelle più chiara, ma vivendo con la famiglia dalit diventa automaticamente parte dei fuori casta, ossia persona priva di ogni diritto, cominciando da quello allo studio. Al villaggio, a dire la verità, una scuola ci sarebbe, ma il maestro, quando non dorme perché troppo ubriaco, oltre a bastonare furiosamente i bambini non fa altro che far loro ripetere fino allo sfinimento pezzi di alfabeto e qualche numero, cosa che fa disperare Bharti, per la quale lo studio è la passione più grande, ma le scuole private, le uniche in cui c’è la possibilità di imparare davvero, costano, e nessun dalit se ne può permettere la retta.
Bar ama baro, “impara o insegna”, dice un proverbio somalo, con la saggezza concreta dei popoli che per sopravvivere possono contare solo sulle proprie forze. La mente non deve sostare, se non sei impegnato a imparare, provvedi a trasmettere ciò che hai imparato. E questa sembra essere la filosofia della piccola Bharti, messa immediatamente in pratica: appena esce dalla scuola, alla fine di quelle noiosissime e inutili lezioni, si siede all’ombra del grande mango, e i bambini più piccoli si siedono intorno a lei e ne ricevono a loro volta il poco sapere che è riuscita ad acquisire. A segnare la svolta sarà un imprevisto e tragico evento, che cambierà la vita di tutti, e aprirà a Bharti la via del sapere.

Dalla postfazione

In India, più di un bambino su cinque non va a scuola. Metà degli allievi lascia gli studi alle elementari, prima degli undici anni. L’analfabetismo riguarda più di ottanta milioni di bambini. Cifre allarmanti, che tuttavia non devono offuscare l’evoluzione che il paese ha conosciuto dopo aver ottenuto l’indipendenza nel 1947.
Nel suo discorso del primo aprile 2010, il primo ministro indiano Manmohan Singh annuncia che la scuola diventa obbligatoria per tutti i bambini dai sei ai quattordici anni. Ufficialmente, la misura riguarderebbe più di dieci milioni di bambini delle aree sfavorite, fino a quel momento esclusi dal sistema scolastico. Ma la cifra, secondo gli esperti, è molto più alta.
Se questa nuova legge riflette intenzioni nobili e sincere, la sua applicazione si scontra con numerosi ostacoli, in particolare la carenza di insegnanti preparati e di scuole adatte ad accogliere l’ondata di nuovi allievi, soprattutto nelle zone rurali.
Dopo anni di campagne di sensibilizzazione,  condotte in principal modo dalle organizzazioni umanitarie o dalle Nazioni Unite, gli adulti sembrano aver compreso l’importanza di dare un’educazione ai loro figli. Anche nelle regioni più isolate e arretrate, ormai sono in pochi a non realizzare le conseguenze benefiche di una scolarizzazione continua. Però, nella vita quotidiana, mandare un bambino a scuola costituisce spesso una difficoltà insormontabile, soprattutto per le famiglie più povere. Per loro, il costo della scuola è ancora troppo elevato: le rette, anche minime, a volte rappresentano quanto spende la famiglia per mangiare una settimana. Inoltre il retaggio coloniale impone ai bambini di portare l’uniforme: altre centinaia di rupie supplementari da reperire. Senza dimenticare le spese di trasporto per arrivare alla scuola più vicina. È vero che esistono sovvenzioni regionali e nazionali, ma molto spesso la corruzione impedisce a questi aiuti cruciali di arrivare ai beneficiari.
Gli adulti inoltre preferiscono far lavorare i bambini. Una consuetudine difficile da estirpare da parte delle autorità perché spesso sono i parenti, uno zio, una zia, che impiegano i loro figli e nipoti. Una manodopera gratuita, esclusiva e disponibile. Un droghiere userà suo figlio per fare le consegne, un agricoltore come manodopera durante il raccolto e la semina… E cosa dire delle ragazze attirate da un salario da donna delle pulizie, o che aiutano regolarmente la loro madre con le incombenze quotidiane quando invece dovrebbero essere sui banchi di scuola?
Nel caso delle famiglie più povere, capita che siano i bambini stessi i primi a voler contribuire alle spese per la propria sussistenza. Hanno così l’impressione di non essere più un fardello e di responsabilizzarsi, una qualità incontestabile in una società fondata sul rispetto e l’accettazione della gerarchia familiare.
Esiste inoltre una grande disuguaglianza tra ragazzi e ragazze. Se al ragazzo spetta il compito di perpetuare il nome di famiglia e di vegliare sullo svolgimento dei riti induisti, la ragazza, che porterà il nome del marito, è considerata un peso. Un proverbio indiano dice che “avere una figlia è come annaffiare il giardino del vicino”. Significa che una ragazza deve essere nutrita e cresciuta per anni, ma alla fine sarà la famiglia dello sposo a trarne profitto. E la pratica della dote, che è sempre diffusa nonostante sia vietata, costituisce un carico finanziario supplementare per i genitori. Il fenomeno è ben noto, così come le sue derive, per esempio l’aborto. L’ecografia prenatale è proibita in India proprio per prevenire l’aborto selettivo. Ma anche in questo campo, la corruzione consente di aggirare le leggi. I medici, per esempio, consegnano i risultati delle analisi in buste rosa o azzurre, secondo il sesso del bambino. Non appena si denuncia un’astuzia, ne viene escogitata un’altra.
Questo fenomeno ingiusto e pericoloso – in alcuni stati la carenza di donne in rapporto al numero di uomini è ormai una piaga – riguarda tutti gli indiani, indipendentemente dalla loro origine e dal loro stato sociale.
Il sistema delle caste risale a millenni fa. Casta significa “puro, non mischiato”. Concepito inizialmente per definire il ruolo di ciascuno nella società, secondo le competenze e l’abilità nel lavoro, oggi si basa esclusivamente sull’ereditarietà delle origini. In caso di matrimonio misto, relativamente raro, gli sposi adottano la casta più elevata.
In cima a questa gerarchia sociale c’è il bramino (”cuore puro e intelletto superiore”), al gradino più basso i dalit, gli intoccabili che rappresentano l’impurità. La loro possibilità di ascesa sociale è molto limitata: essi sono relegati ai lavori sporchi, come la raccolta degli escrementi. In India se ne contano quasi centosessanta milioni e sono le prime vittime di questo sistema di discriminazione, oggi proibito dalla Costituzione indiana, redatta peraltro da un intoccabile. Gandhi li chiamava harijan (”figli di Dio”). Gli intoccabili preferiscono il termine politico più appropriato di dalit (oppressi).

Questo testo non è dell’anteguerra: è di due anni fa. Nella narrazione in prima persona della vita quotidiana di Bharti, è possibile trovare una rappresentazione concreta di ciò che è ancora oggi, almeno nelle zone rurali, la vita di un intoccabile.

Bharti Kumari, La maestra bambina, Piemme
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barbara

E NON FINISCE MAI

India, violentata e uccisa a sei anni.
Rabbia in piazza, scontri con la polizia

NEW DELHI – Un altro caso di violenza sessuale e omicidio, stavolta su una bambina di 6 anni, scuote l’India. Il corpo della bambina, stuprata e strangolata, è stato poi gettato in una discarica di Aligarh, nello Stato di Uttar Pradesh, scatenando l’ira della popolazione locale che ha lanciato pietre contro la polizia e bloccato il traffico per ore.
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La famiglia aveva avvisato la polizia della scomparsa della bambina. Dopo ore di ricerche il corpo è stato ritrovato nella discarica. Secondo quanto denunciano i genitori, è stata violentata prima di essere uccisa, ma la conferma ufficiale arriverà soltanto dall’autopsia i cui risultati saranno resi noti nei prossimi giorni.
Negli scontri con la polizia sono state ferite almeno sette persone. Le autorità indiane hanno anche sospeso due poliziotti che hanno preso a bastonate alcune donne presenti alla manifestazione di protesta che è durata diverse ore e che ha anche bloccato la principale strada per New Delhi.
Lo scioccante omicidio ha sollevato la rabbia dei residenti del quartiere dove viveva la bambina che hanno marciato sul locale commissariato e preso a sassate dei veicoli della polizia. Le immagini diffuse dalle televisioni hanno mostrato la brutale repressione della polizia dell’Uttar Pradesh che con lunghi bastoni di bambù ha picchiato diverse donne anche quando erano ormai a terra.
India-repressione
In seguito alle scene shock, il governo locale ha chiesto l’apertura di una inchiesta per accertare le responsabilità.
(18 aprile 2013, qui)

Alla pena di morte sono e resto contraria, sempre e senza eccezione. Però un bel linciaggio fatto bene… (E quella polizia che invece di preoccuparsi di cercare l’assassino si dedica alla brutale repressione delle donne che protestano e chiedono sicurezza e protezione?)

barbara

 

UNA PICCOLA DOMANDA

Anni fa L’Italia ha respinto una richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti; la motivazione: per il reato di cui era responsabile la persona in questione, negli Stati Uniti è possibile comminare la pena di morte. Poiché l’Italia non ammette la pena di morte, era inammissibile condannare un reo, sia pure indirettamente, a tale pena. Ora, se è inammissibile che l’Italia si renda responsabile di una condanna a morte di un cittadino straniero provatamente colpevole, con quale logica ora la stessa repubblica italiana espone al rischio della medesima pena due cittadini italiani la cui colpevolezza è tutta da provare? E con quale logica li rimette in mano a uno stato che fin dal primo momento di questa vicenda ha sempre giocato sporco che più sporco non si può? E con quale dignità prima dice che non li fa rientrare e poi, di fronte al ricatto della presa in ostaggio dell’ambasciatore, cala le braghe facendo fare all’intera nazione una figura da peracottari?
MARO': OK SENATO TRATTATO CON INDIA, E' LEGGE
barbara