CHE COSA CI AVETE FATTO?

Che cosa ci avete fatto, voi popoli amanti della libertà, custodi della giustizia, difensori degli alti principi della democrazia e della fratellanza tra gli uomini? Che cosa avete permesso che si perpetrasse contro un popolo indifeso, mentre voi stavate a guardare lasciando che morisse dissanguato, senza offrire aiuto o soccorso, senza chiedere ai demoni di fermarsi nel linguaggio della punizione, l’unico che avrebbero capito? Perché profanate il nostro dolore e la nostra ira con vuote espressioni di comprensione che suonano irridenti alle orecchie dei milioni di dannati dello stabilimento di tortura dell’Europa nazista? Perché non avete nemmeno rifornito di armi i nostri ribelli dei ghetti, come avete fatto per i partigiani e i combattenti clandestini di altre nazioni? Perché non ci avete aiutato a stabilire contatti con loro, come avete fatto nel caso dei partigiani in Grecia e Iugoslavia e dei movimenti clandestini altrove? Se, invece di ebrei, fossero stati migliaia di donne, bambini e vecchi inglesi, americani o russi a venire ogni giorno torturati, bruciati vivi, asfissiati nelle camere a gas, vi sareste comportati nello stesso modo?

Ben Gurion, 10 luglio 1944, quarantesimo anniversario della morte di Theodor Herzl.

Oggi, al posto di quelli che hanno girato la faccia, ci sono i loro nipotini che versano la loro brava lacrimuccia politicamente corretta sui poveri ebrei morti e starnazzano come oche spennate quando gli ebrei vivi si rifiutano di farsi scannare come conigli. Finiranno, gli uni come gli altri, nel letamaio della storia.

barbara

NO, SANTITÀ

Questa sorta di genocidio attualmente in atto contro i cristiani non è causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino che esclama: ‘A me che importa?’; ‘Sono forse io il custode di mio fratello?’ Caino, Santità, non è quello che tace complice: Caino è quello che uccide (sta scritto nella Bibbia: non gliel’hanno detto?) L’indifferenza è una bruttissima cosa, Santità, su questo siamo perfettamente d’accordo. E il silenzio complice è una bruttissima cosa, Santità, anche su questo siamo perfettamente d’accordo. Indifferenza e silenzio facilitano sicuramente il compito degli assassini, ma non sono indifferenza e silenzio a uccidere: chi uccide sono, appunto, gli assassini, individui con una faccia, un nome, e soprattutto UN’IDENTITÀ. Perché, santità, perché ancora una volta le è mancato il coraggio di chiamare le cose col loro nome? Perché dopo avere avuto il coraggio di sfidare il satrapo turco chiamando genocidio il genocidio armeno, non ha avuto anche quello di chiamare per nome gli assassini dei cristiani, TERRORISTI ISLAMICI? Perché, Santità, questa oscena mistificazione? Perché, Santità, questo suo silenzio complice che copre gli assassini e annacqua le colpe e le responsabilità in un indistinto minestrone di vaghe formulette e frasi fatte?

barbara

IO VI DICO BUONA FORTUNA

(Il Nino Ferrer che non conoscevate, quello del famoso “lato B” dei 45 giri, che nessuno ascoltava. Questa è stata scritta nel 1967, alla vigilia di quella guerra che gli arabi avevano voluto, organizzato, preparato per cancellare Israele e “ributtare gli ebrei a mare”)

Je vous dis bonne chance !

Ça fait bientôt vingt siècles
Qu’ils cherchent la Terre Promise
Ça fait bientôt vingt siècles
Et ça fait trop longtemps.
Dans le désert ils ont planté des oliviers
Et les autres, pour les arracher,
Se mettront bien trente contre un
Moi je vous dis bonne chance
Moi je vous dis bonne chance
Moi je vous dis bonne chance
Et j’ai des larmes dans les yeux
Car je ne peux pas oublier que…

Ça fait bientôt vingt siècles
Et tant de mort pour rien
Et toute cette souffrance
On s’en est lavé les mains.
Jusqu’à quand faudra-t-il laisser couler le sang
De ces Justes et de leurs enfants
Les bras croisés le cœur indifférent
Je vous en demande pardon
Je vous en demande pardon
Je vous en demande pardon
Et j’ai des larmes dans les yeux
Car je ne peux pas oublier tout ça
Et je vous crie bonne chance
Et je vous crie bonne chance…

Sono quasi venti secoli
che cercano la terra promessa.
Sono quasi venti secoli:
e questo è  troppo.
Nel deserto hanno piantato degli ulivi
e gli altri, per strapparli,
si metteranno trenta contro uno.
Io vi dico buona fortuna
io vi dico buona fortuna
io vi dico buona fortuna
e ho le lacrime agli occhi
perché non posso dimenticare che…

Sono quasi venti secoli
e tanta morte per niente
e di tutta questa sofferenza
ci si è lavati le mani.
Fino a quando bisognerà lasciar scorrere il sangue
di questi giusti e dei loro figli
con le braccia incrociate e il cuore indifferente
io vi chiedo perdono
io vi chiedo perdono
io vi chiedo perdono
e ho le lacrime agli occhi
perché non posso dimenticare tutto questo.
E vi grido buona fortuna
E vi grido buona fortuna…

(trovata qui)

barbara

UNA COSA DA NIENTE

Trasse fuori dal cassetto una scheda e la inserì nella macchina da scrivere.
“Nome e cognome.”
Della Pergola glie li disse, ma vide la mano del Responsabile bloccarsi sopra i tasti.
L’uomo sollevò lentamente lo sguardo su di lui e arricciò il naso per manifestare tutta la sua perplessità.
“Razza?”
Della Pergola scosse il capo senza parlare.
Il Responsabile sospirò. Era sconcertato. Un contegno responsabile da parte di quell’ebreo, avrebbe evitato a entrambi l’imbarazzo di una scena penosa.
“Questa è una scuola ariana,” disse con sussiego, “non accettiamo studenti di razza ebraica.”
Estrasse di tasca le cinque banconote e le dispose di nuovo sul tavolo, una accanto all’altra.
Della Pergola non le toccò.
“Voglio solo imparare un po’ di inglese. Non vi creerò alcun problema.”
Il Responsabile intrecciò le mani e socchiuse gli occhi, sospirando.
“Vi prego di non insistere. Abbiamo delle disposizioni ministeriali.”

Già: le disposizioni. Le norme. Le regole. La legge. Niente di personale, per carità, ma se sei di razza ebraica non puoi pretendere di essere trattato come una persona normale. Anzi, se avessi un maggiore senso di responsabilità, eviteresti di creare situazioni così penose e imbarazzanti.
Gli italiani e le leggi razziali, questo il tema dei dodici bellissimi racconti di Mario Pacifici (che i miei lettori più fedeli conoscono bene per averne già letti, in questo blog, uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto): gli italiani di fronte ai propri connazionali colpiti dalle leggi razziali, estromessi dalla scuola, dall’esercito, dai ministeri; estromessi, a poco a poco, da tutta la vita sociale ed economica e, alla fine, dalla vita tout court. E, ad onta della consolidata fama di “italiani brava gente”, il comportamento della maggior parte di loro non è stato propriamente esemplare. Più per pigrizia e indifferenza, che per vera e propria ostilità, nella maggior parte dei casi, o per comodità: se si libera una cattedra, o un primariato, perché non approfittarne? Non le ho mica fatte io queste leggi, no? E se vogliamo costruire l’Impero varrà pur la pena di fare qualche piccolo sacrificio. E poi, cosa saranno mai queste leggi, queste limitazioni per gli ebrei? Una cosetta da niente, appunto, come non troppo tempo fa ha saggiamente spiegato, quasi con le stesse parole, il nostro amato Sovrano, il pretendente al Trono d’Italia, Sua Maestà Vittorio Emanuele IV, ora felicemente rientrato nel Patrio Suolo.
Dodici racconti bellissimi: l’ho già detto, ma lo voglio ripetere. E credo proprio che li dovreste leggere.

Mario Pacifici, UNA COSA DA NIENTE e altri racconti, Edizioni Opposto


barbara

MONACO ’72: L’INDIFFERENZA DEL MONDO

Immaginatevi un campus olimpico più o meno come quello che si è visto nelle scorse settimane alla televisione: gli atleti, belli e abbronzati dall’estate appena trascorsa, chiacchierano nelle ore di riposo davanti alle costruzioni approntate apposta per loro. Alcuni raccontano e ridono, altri scambiano fotografie della loro casa e della loro famiglia con giovani provenienti dalle più svariate parti del mondo, altri giocano a carte o a ping pong, altri prendono il sole in bikini o in mutandine, oppure mangiano un gelato in compagnia. Adesso provate a immaginare che pochi prefabbricati più avanti, da quella casetta bianca a due piani, si affacci sulla terrazza, e non è carnevale, un uomo mascherato, con un mitra sottobraccio. Si fa vedere più volte, con una certa ostentazione, gli atleti intorno gli lanciano poco più che occhiate distratte. Continuano ad abbronzarsi, devono riposarsi intensamente, perché fra poche ore gareggeranno. Pensano al record da raggiungere, al grande pubblico festoso che fra poco li accoglierà allo stadio. Tutto questo, mentre gli atleti israeliani muoiono nelle mani dei terroristi palestinesi. Non è un incubo, è una storia vera sulla quale non è stata spesa neppure una parola di commemorazione all’apertura delle Olimpiadi. Gli israeliani l’hanno commemorata da soli per l’ennesima volta, la strage dei loro undici atleti; da soli si sono ricordati l’indifferenza del mondo e la colpevole connivenza che accompagnò l’evento. E il dolore è stato attizzato da un documentario di Arthur Cohen dal titolo “Un giorno di settembre” che si è visto alla televisione israeliana nel giorno della ricorrenza del sequestro. Un documentario spietato, in cui si vedono gli atleti riversi nel loro sangue, si assiste alle conferenze stampa dei palestinesi travestiti da ‘Che Guevara’ antimperialisti, didascalici, sicuri di sé stessi, a contatto continuo fuori della baracca israeliana con i giornalisti senza che ci sia un tentativo di cattura, un autentico sforzo di aiutare le vittime. Lo spettacolo doveva assolutamente continuare mentre gli ebrei morivano. Una faccenda non nuova soprattutto a Monaco, in Germania, dove nel 72 si svolgevano le Olimpiadi che avrebbero dovuto dimostrare la completa riconciliazione della Germania col Mondo.
Alle quattro e mezzo di mattina del 5 settembre avvenne il sequestro: otto feddayn penetrarono oltre il filo spinato e poi nella casetta degli undici atleti israeliani. Due ragazzi israeliani furono immediatamente uccisi. I terroristi chiesero come merce di scambio la liberazione di un gruppo di prigionieri palestinesi in Israele contro le loro vittime innocenti. Le autorità tedesche cominciarono a tremare all’idea che le Olimpiadi potessero trasformarsi in un lago di sangue, o semplicemente all’idea che i giochi potessero fermarsi. Non riuscirono a mettere a punto un solo piano, o non vollero: né mentre fornivano cibo ai terroristi con continui contatti, né mentre la polizia incontrava senza tregua il loro capo, abbigliato con un drammatico cappello sessantottino, i capelli lunghi e l’aria soddisfatta, né quando finalmente salì sul tetto (fu filmato dalla televisione) un commando di teste di cuoio e all’improvviso, un minuto prima dell’operazione, la annullò senza motivi evidenti. Intanto i giochi andavano avanti. Israele insistette per tentare un’operazione di salvataggio in proprio, ma la Germania rispose senza esitazione con un diniego. Quando i terroristi chiesero un paio di elicotteri e un aereo per andarsene con gli ostaggi, la strada fu loro lastricata senza intoppi. Sembra incredibile che non fosse tentato nessun agguato, dato che la situazione era evidentemente disperata comunque. Solo all’aeroporto si appostò un misero gruppo di cinque cecchini su un tetto e un altro commando dentro |’aereo. Quest’ultimo, quando si avvide che i terroristi erano otto e non cinque, cancellò l’operazione e si ritirò. I cecchini cominciarono a sparare alla cieca nel buio, mentre un altro minuscolo gruppetto si dava da fare incongruamente. Il risultato dell’operazione fu che tutti gli atleti israeliani furono bruciati, smembrati. I feddayn furono uccisi in cinque, chissà come, mentre i tre che rimasero in vita furono imprigionati in Germania. Poco dopo un aereo della Lufthansa fu sequestrato da un commando palestinese che chiese l’immediata liberazione dei loro compagni, ciò che avvenne prontamente. Su quell’aereo che, guarda caso, era della Lufthansa, non vi erano, guarda caso, donne e bambini. Dei tre, due furono uccisi probabilmente dal Mossad, e l’ultimo invece – nel film di Cohen – ancora si vanta, in una lunga intervista dal suo nascondiglio in Sud America, dei magnifici risultati propagandistici ottenuti con l’operazione Monaco. E a giudicare dalla solidarietà che i palestinesi hanno ottenuto nonostante atti di questo genere, probabilmente ha ragione. Probabilmente la perversione dell’opinione pubblica è grande.
Forse Israele avrebbe dovuto agire comunque, forse gli atleti avrebbero potuto marciare compatti, tutti insieme, sul prefabbricato sequestrato sfidando il fuoco cui erano esposti i loro colleghi. Certo la Germania avrebbe dovuto mostrare un minimo di quella famosa efficienza che in questo caso, invece, si trasformò in assenza.
Quello che la memoria tramanda della realtà è soltanto che Andrei Spitzer, il campione israeliano di scherma, come prima cosa una volta giunto al Campus andò, fra lo stupore generale, a trovare gli atleti libanesi. Lo accolsero amichevolmente, contro ogni previsione. Parlarono, scherzarono, si dettero la mano. Spitzer tornò radioso: “Le Olimpiadi servono appunto a questo. A unire tutto il mondo intorno all’ideale di una grande collettività”. Durante il sequestro, il suo lungo viso triste, con gli occhiali scuri e il ciuffo liscio sulla fronte fu visto per l’ultima volta dalla moglie alla finestra della baracca per un secondo. La donna aveva in braccio la loro neonata, che non ha mai conosciuto il padre.

No, non è l’ennesimo articolo di contorno alle olimpiadi di Londra, fuori tempo massimo e con qualche dettaglio discordante: questo articolo di Fiamma Nirenstein, pubblicato su Shalom, è di dodici anni fa. Tocca, per l’ennesima volta, constatare, che intorno a Israele il tempo sembra essersi congelato. Ma chi si illude che questo congelamento sia la premessa per la morte definitiva, troverà pane per i suoi denti.

barbara

NESSUN GIUSTO PER EVA

Eva e Ada e Giovanna ed Ester ed Emma e il rabbino e soprattutto Sara, per ben due volte sfuggita alle fauci fameliche e due volte riacciuffata, perché a chi ha sangue giudeo nelle vene non è consentito sfuggire al destino assegnatogli.
Questa accurata e appassionante ricerca storica riporta alla luce le vicende dei 71 ebrei padovani – solo tre i sopravvissuti – cui non è stato dato in sorte di incontrare un giusto nel proprio travagliato cammino. E, come sempre in questo genere di storie, colpisce, almeno quanto la cattiveria dei cattivi, l’indifferenza di chi cattivo sicuramente non si definirebbe: quell’indifferenza che ha fatto sì che una manciata di fanatici riuscisse a impossessarsi di un’intera nazione e da lì partire per la devastazione di un intero continente e che, nel piccolo di una cittadina di provincia, quasi un centinaio di concittadini venisse portato al macello senza provocare reazioni di sorta. E grazie dunque a chi, non potendo restituire a loro la vita, si è impegnato per restituire almeno a noi la memoria.

Francesco Selmin, Nessun “giusto” per Eva, CIERRE edizioni

(E indifferenza e complicità, come siamo quotidianamente costretti a constatare, continuano ancora oggi)

barbara