LO STATO DI PALESTINA

Cioè quella cosa che non c’è. E il fatto che non ci sia è la causa di tutti i mali del mondo, di tutte le guerre, di tutto il terrorismo, di tutti gli sfracelli che si verificano in giro per il mondo, che se solo si decidessero a farlo nascere regnerebbe la pace universale e tutti gli uomini si abbraccerebbero e si amerebbero all’istante. Quello. E volete sapere perché non c’è? Ecco, guardate qui.
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E poi vi invito a leggere questo testo di Yair Lapid, precisando che Lapid è all’opposizione, vale a dire che non fa parte di quella compagine politica che le anime belle amano chiamare fanatici di estrema destra. Ecco il testo:

Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, di cui ora l’Italia fa parte, recentemente ha approvato una risoluzione che dichiara illegali gli insediamenti israeliani – compresa la nostra capitale Gerusalemme e la spianata delle Moschee, dove sorgeva il Tempio – e chiede a Israele di lasciarli. Quando i membri del Consiglio si sono resi conto che la decisione ha indignato la grande maggioranza degli israeliani, compresa l’opposizione, hanno fatto finta di non capire. «Non è una decisione contro Israele» ci hanno detto i capi di governo di diversi Paesi, «riguarda solo gli insediamenti». È come se Israele annunciasse il suo appoggio alla Lega Nord che rivendica l’indipendenza del Nord Italia. «Non è una decisione contro l’Italia» potremmo dire ai nostri amici italiani, «si tratta solo di Milano». Credo che perfino i simpatizzanti della Lega Nord ci direbbero che è una grave interferenza negli affari interni italiani. L’ambasciatore israeliano sarebbe convocato dal ministro degli Esteri italiano e cortesemente invitato a non immischiarsi più in argomenti di cui non sa nulla. Ed è proprio così che ci sentiamo. Ci sono molti ostacoli che bloccano il processo diplomatico tra Israele e i palestinesi. Quello centrale è che per almeno tre volte i palestinesi hanno rifiutato di accettare uno Stato che comprendeva il 90% del territorio. Se davvero volevano uno stato bastava dire: «Sì». Invece hanno detto «No». Perché? Perché il Consiglio di Sicurezza dell’Onu li ha convinti che non c’è motivo di fare uno sforzo per raggiungere un compromesso che porterà alla pace. Tutto quello che devono fare è dire «no» e le pressioni su Israele cresceranno ancora. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha dimenticato che ogni volta che ai palestinesi è stata data l’opportunità di autogovernarsi hanno preferito ripiegare sul terrorismo. L’ultima volta è stato nel 2005 quando Israele si è ritirato dalla Striscia di Gaza senza lasciarvi nemmeno un soldato o un colono. I palestinesi hanno risposto eleggendo Hamas, un’organizzazione terroristica, e lanciando oltre 15 mila razzi sui civili israeliani. Se rivolgiamo lo sguardo a Nord, al nostro confine con la Siria, vediamo cosa accade ai Paesi che hanno perso il controllo della loro stessa sicurezza. Più di 400 mila persone sono state uccise in quella guerra civile e il Consiglio di Sicurezza si è limitato a esprimere educatamente il suo disappunto. Per qualche motivo il Consiglio di Sicurezza ha ritenuto più urgente attaccare Israele, un Paese che vuole la pace ed è ligio alla democrazia. Israele era, e rimane, intenzionato a cercare una soluzione diplomatica; semplicemente non vogliamo obbedire a ultimatum che arrivano dall’estero. I membri del Consiglio di Sicurezza probabilmente non si fanno problemi a mettere a rischio la nostra sicurezza ma se perdono la scommessa nessuno lancerà i prossimi 15 mila razzi sui bambini italiani. I bersagli saranno i bambini israeliani. I nostri figli. Per il futuro ci aspettiamo dall’Italia, nostra stretta amica e alleata, l’apporto di una voce più equilibrata e ragionevole in seno al Consiglio di Sicurezza. (La Stampa, 07/01/17, Traduzione di Carla Reschia)

Qualcuno ha detto che c’è un solo modo per far nascere lo stato di Palestina: obbligare i palestinesi con la forza ad accettarlo. Io, per la verità, conoscendo la loro ferrea determinazione a rifiutarlo, pronti da sempre a combattere fino alla morte per impedirne la nascita, sono convinta che non ci si riuscirebbe neanche in quel modo lì.

barbara

GLI INSEDIAMENTI SONO IL PIÙ GRANDE OSTACOLO ALLA PACE

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E visto che a guardare l’immagine non avete perso tempo, spendiamone un po’ per tornare ai fatti di attualità, restando sempre in tema di balle e bufale.
La prima riguarda un “eroe”: vi ricordate quando, dopo la strage all’Hyper Cacher i giornalisti avevano fabbricato la favoletta dell’eroe musulmano che aveva salvato un bordello di gente dalla mattanza? Bene, contando sull’alloccaggine e sulla memoria corta del loro pubblico, adesso ne hanno fabbricata un’altra identica per lo stadio di Parigi: ogni volta che si scatena una mattanza ad opera del terrorismo islamico, ci viene fabbricato il “musulmano buono” chiavi in mano, che rischia la vita per salvare gli innocenti, e mentre le sinagoghe vengono lasciate sguarnite, la guardia repubblicana presidia la grande moschea, non sia mai che a qualche malintenzionato venga in mente di andare a fare la bua ai poveri musulmani. E poi date un’occhiata anche a queste altre balle qui e qui.
Post scriptum: e mentre l’Europa si diletta a “etichettare”, In Iran perfino la solidarietà è un reato che costa la galera.

barbara

LA CAUSA DEI MALI DEL MONDO

In occasione dell’ennesima farsa dei “colloqui di pace”, si scatena la solita sarabanda di proclami sulle cause del conflitto, le cause degli infiniti fallimenti, le cause del progressivo allontanamento della speranza della pace, le cause di tutti i guai dell’intero pianeta. Naturalmente fra le cause fondamentali ci sono le “colonie”, e in particolare le “nuove costruzioni”: NON, si noti bene, ampliamenti degli insediamenti, ma semplicemente nuove abitazioni costruite al loro interno. Sono loro il motivo per cui la pace non c’è, non i missili sui civili, non gli accoltellamenti per strada, non gli sgozzamenti di neonati nella culla, no, il motivo per cui non c’è la pace è la costruzione di case. Quella costruzione che Netanyahu aveva irresponsabilmente sospeso per dieci mesi, per aderire alle condizioni poste dalla controparte per accettare di sedersi intorno a un tavolo, salvo poi aspettare, la suddetta controparte, che passassero tutti i dieci mesi senza che niente succedesse.
Vi ripropongo questa lettera scritta quattro anni fa da Sherri Mandell.

Sono io la ragione per cui non c’è la pace nel mondo!

Eccomi, sono io il problema. Il leader del mondo libero ha fatto riferimento a me personalmente, e alla mia famiglia, come la causa dei guai di tutto il mondo. Con la scopa in una mano, mentre cerco eroicamente di spazzare i pop-corn lasciati in giro dal festino televisivo di mio figlio, eccomi qua: io sono il motivo per cui non c’è la pace nel mondo. Obama ha messo nelle mie mani il destino del mondo. Mi ha detto: “Se la smetti di costruire, se la smetti di crescere, tutto si aggiusterà in Medio Oriente. Lascia stare l’Iran e il Darfour e gli ‘omicidi d’onore’ delle donne nella vostra regione. La causa dei conflitti sono i lavori di ristrutturazione in casa tua”.
Ebbene sì, sono una colona. Se mi spostassi otto chilometri verso Gerusalemme, allora cesserei di essere una colona. Suppongo. Ma sarei ancora una israeliana, e anche quello è un bel problema.
Gli architetti della pace ci assicurano che, se solo lasciassimo le nostre case, scoppierebbe la pace. E non solo la pace in Israele e nei territori palestinesi. La pace in tutto il mondo arabo. La pace nel mondo intero. “Quel bullo di Ahmadinejad, non preoccuparti di lui. Tu, Sherri la colona, abbandona la tua casetta dalle finestre azzurre e il vento della pace spirerà su tutta la terra”.
Poco importa se ben prima che vi fosse un solo insediamento, già c’era l’Olp. Poco importa se i palestinesi hanno rifiutato tutte le più generose offerte di compromesso da parte dello stato d’Israele compresa quella del 97% della Cisgiordania, come riportato dal Washington Post lo scorso 29 maggio. Poco importa se c’è spazio per arabi ed ebrei in Cisgiordania e se uno stato palestinese che non può permettere ad ebrei di abitare entro i suoi confini sarebbe chiaramente un regime fascista. Poco importa se Israele stesso ha più di un milione di cittadini arabi che vivono al suo interno. Poco importa.
Non c’è praticamente nessuno al mondo, oggi, più vituperato di un colono israeliano. Siamo considerati dei razzisti col mitra in spalla, estremisti del tutto omologhi agli estremisti dell’altra parte. Poco importa se è straordinariamente raro che un ebreo sia un terrorista. Poco importa se gli estremisti dell’altra parte assassinano spesso e volentieri con le loro mani dei bambini ebrei, come il mio Koby, per il solo fatto che sono ebrei. Poco importa se gli estremisti dell’altra parte mandano i loro stessi figli a commettere attentati suicidi come “martiri”. Poco importa se gli estremisti dell’altra parte spediscono la loro stessa gente davanti al plotone d’esecuzione per il solo sospetto che “collabori” con Israele. Poco importa se gli estremisti dell’altra parte tiranneggiano le loro donne. Poco importa se gli estremisti dell’altra parte non tollerano omosessuali nelle loro comunità. In ogni caso il problema sono i coloni.
Sono stata a un talk-show televisivo dove una signora di Tel Aviv ha parlato di me come del “cancro del popolo ebraico”. Non c’è nessuno cattivo e malvagio quanto un colono. Noi siamo il capro espiatorio di tutto il mondo. Si potrebbe persino dire che siamo l’ebreo degli ebrei. Siamo il più comodo oggetto da odiare.
(Da: Jerusalem Post, 6.07.09, qui)

Per chi non conoscesse, o non ricordasse, le vicende in questione, riporto il mio post di sei anni fa.

KOBI E YOSSI, SEI ANNI FA

Avevano 13 anni. Doveva essere una bella mattinata, quella dell’8 maggio 2001 e, come a volte capita ai ragazzini, non avevano tanta voglia di andare a scuola. Così decisero di andarsene un po’ in giro, a passeggiare, a godere della natura. I loro corpi furono ritrovati il giorno dopo in una grotta del deserto della Giudea: erano stati massacrati a colpi di pietra da dei terroristi palestinesi. Le pareti della grotta erano coperte di sangue, brandelli dei corpi dei due ragazzini erano sparsi ovunque. Ricordiamo Kobi Mandell e Yossi Ish-Ran con questa lettera scritta dalla mamma di Kobi.

Perché stiamo in Israele

Adesso sembra da pazzi vivere in Israele. Alcuni se ne vanno. Li capisco. È orribile vivere con la violenza e con l’angoscia e con lo stress che provocano. Siamo vulnerabili, noi israeliani: in macchina o sull’autobus, prendendo un caffè al bar o addirittura stando a casa. Tutto è circondato dal terrore. Tutto il tempo, di giorno e di notte, siamo coscienti di essere obiettivi da colpire.
Un venerdì notte, all’una, siamo stati svegliati dagli altoparlanti installati nella nostra comunità. Ci hanno avvertito che c’era un terrorista in Tekoa. “Chiudete porte e finestre a chiave, dormite con le armi, badate ai bambini e spegnete le luci.”
Abbiamo velocemente spento le luci, nonostante il fatto che siamo osservanti dello Shabat.
Abbiamo chiuso a chiave porte e finestre. Abbiamo messo una sedia davanti alla porta dell’entrata. Poi suonò il telefono. Era il nostro vicino che controllava se avevamo sentito l’annuncio.
I bambini erano spaventati, tremavano. Ho detto loro che li avremmo protetti, che stavamo vicini. Che dovevano andare a dormire.
Loro si sono addormentati, tutti nel nostro letto. Ho pregato e poi mi sono addormentata, sperando che la mattina arrivasse presto.
Circa alle tre di nuovo l’altoparlante: l’emergenza era finita.
Per adesso. Ma, come ho detto ai miei figli, è raro che i terroristi ti avvisino.
Sicuramente non hanno avvisato mio figlio Koby, di 13 anni, prima di ammazzare lui e il suo amico Yosef, prendendoli a sassate prima di schiacciare i loro crani e renderli irriconoscibili*. Koby e Yosef erano in giro vicino a casa nostra a Tekoa. I due ragazzi volevano scoprire la valle dietro le nostre case. Sono stati ammazzati per il loro amore per questa terra. Sono stati ammazzati perché ebrei.
Una mia amica era al cinema a Gerusalemme, sabato notte, per vedere un film, la notte dell’attentato al Moment Caffè che ha ucciso 11 persone. Il direttore del cinema ha fermato il film per dire al pubblico cosa era accaduto e per chiedere se volevano continuare a vedere il film. Non hanno voluto. Tutti sono andati a casa.
Perché la gente continua a stare qui nonostante siamo cacciati come bestie dai terroristi? Perché tanti di noi qui sentono un forte senso di appartenenza, al nostro paese, alla nostra cultura e storia.
Questo senso di appartenenza si manifesta in molti modi diversi. Oggi sono andata a fare la spesa al mio minimarket e lì un uomo stava riempiendo una scatola di cose buone per suo figlio nell’esercito. L’uomo prende una tavoletta di cioccolato al latte, e la commessa, Ranet, dice: “a tuo figlio non piace il cioccolato al latte, Noam preferisce quello amaro.”
Un’altra storia. Ruth, una mia amica, è al banco frigo per comprarsi una bibita Una bambina timida arriva e chiede al negoziante “Cosa posso prendere con 2 shekl?” E lui dice: “Niente.” Poi le dà un shekl. “Ma adesso ne hai tre. Puoi comprare una gomma o una caramella.” Ruth pesca uno shekl dalla sua tasca. “Adesso ne hai quattro.”
Qui c’è una sensazione di essere in famiglia. Qui, nonostante il dolore e la sofferenza, non ci sentiamo soli. Ci sentiamo parte di una rete, di un tessuto che, nonostante sia pieno di buchi, è abbastanza forte per tenerci su.
Se facciamo un buco, il tessuto si indebolisce. Può essere riparato, naturalmente, ma non sarà mai più come prima.
Noi non vogliamo bucare il tessuto. Noi non vogliamo lasciare il posto dove è seppellito nostro figlio. Non vogliamo lasciare l’unico posto al mondo dove il tempo è misurato con il calendario ebraico, dove le celebrazioni coincidono con le festività ebraiche, dove la lingua è quella della Bibbia. Noi non vogliamo lasciare il centro della storia ebraica. Adesso facciamo parte di questa lunga storia dolorosa, siamo noi quel popolo ebraico che lotta per poter finalmente vivere sulla propria terra.
Mio figlio è morto perché ebreo. Io voglio vivere da ebrea!
Sherri Mandell

* “Renderli irriconoscibili” non è un modo di dire: hanno dovuto ritardare i funerali a causa del tempo occorso per ricostruire quali pezzi erano di Kobi e quali di Yossi. Ma se la pace non c’è, naturalmente, è per via degli appartamenti costruiti dagli israeliani. E se questi ennesimi “colloqui” alla fine si riveleranno per quella farsa che sono, la colpa sarà sempre di tinelli e cucine.
kobi     yossi
barbara