UN’EBREA ITALIANA CITA PER DANNI MORALI MONI OVADIA E IL MANIFESTO

Alla cortese attenzione del direttore de Il Manifesto

Le scrivo riguardo al Commento di Moni Ovadia pubblicato ieri, 26 aprile, sul suo giornale.
Non le scrivo il merito al contenuto dell’articolo. Il libero arbitrio è alla base della fede ebraica, ognuno è libero di vivere e pensare come preferisce, ognuno può andare incontro al proprio destino come meglio crede.
Ma è sulla forma di uno scritto pubblicato sulla sua testata che dovrebbe, in quanto direttore, riflettere.
L’articolo di Moni Ovadia non spiega al lettore cosa sia successo, cosa gli abbia causato di svegliarsi al mattino del 26 aprile in preda a un tale cattivo umore.
E così senza una introduzione né spiegazione che contestualizzino gli eventi, si viene annegati fin dalle prime righe da aggettivi violenti, da descrizioni nervose, da frasi grondanti di rabbia e paragrafi sovrabbondanti di furore.
La scena si apre con la parola ‘pantomima’ accostata alle azioni e decisioni delle comunità ebraiche. Pantomima è definita come ‘esibizioni false, con le quali convincere, impietosire o commuovere’. E’ questo il giudizio che il giornale dei comunisti, quale viene definito Il Manifesto, esprime su chi la pensa in maniera diversa?
A questa pantomima Ovadia fa seguire ‘deliranti motivazioni’ degli ebrei che non desiderano sfilare accanto a chi inneggia alla loro morte. Delirante è uno stato di alterazione mentale di chi immagina realtà inesistenti. Il Manifesto ritiene deliranti le motivazioni dei parenti di Mireille Knoll, dei genitori dei quattro ragazzi uccisi nell’Hypercasher, delle famiglie distrutte dall’attentato alla scuola ebraica di Tolosa, della madre di Ilan Halimi torturato e assassinato nelle periferie di Parigi? Pensa che sia delirante chi teme per la propria vita quando accompagna i figli alla scuola ebraica ogni giorno?
Moni Ovadia prosegue raccontando che Netanyahu fa una ‘propaganda pagliaccesca’, facendo dimenticare al lettore che questo premier è stato eletto democraticamente da milioni di persone o forse pagliacci.
Le comunità ebraiche non vogliono sfilare accanto ai palestinesi. ‘E perché no?’ si domanda l’attore. ‘Per pedissequo ossequio allo scellerato progetto segregazionista e razzista del premier israeliano Netanyahu’. E’ possibile definire scellerato un progetto che prevede un milione di arabi integrati all’interno dello stato? E’ segregazionista un progetto secondo il quale nel parlamento siedono arabi accanto ad ebrei? Oppure scellerato e segregazionista è il progetto che ha reso quasi tutti gli stati arabi judenfrei?
Il Manifesto desidera che il lettore si faccia l’idea che in Israele ci sia ‘un’alleanza con i peggiori fanatici religiosi’ come dice Ovadia, che si immagini un regime teocratico mentre Israele è una democrazia come l’Italia?
Il Manifesto è d’accordo con il definire gli ebrei che si rifiutano di sfilare accanto a persone che urlano ‘a morte gli ebrei’, ‘ufficio stampa e propaganda del governo ultrareazionario e segregazionista oggi in carica in Israele’?
No, Moni Ovadia, non pensiamo che ‘questi siano i pensieri del solito estremista, veterocomunista, ebreo antisemita solo perché condanna la politica di Netanyahu e dei suoi fanatici alleati colonizzatori compulsivi’ come lei conclude nell’articolo.
Pensiamo che se Il Manifesto si considera ancora una testata giornalistica e crede nel confronto civile tra parti che la pensano in maniera diversa, i suoi direttori dovrebbero delle scuse agli ebrei italiani.
Non siamo ‘degli imbecilli che scambiano critiche politiche ed etiche per antisemitismo’. Siamo persone che crediamo nella libertà di pensiero, nel libero arbitrio di pensarla diversamente da lei, da voi, persone che hanno verso il proprio vissuto, verso la storia e gli eventi recenti, una opinione e dei sentimenti diversi. Non siamo imbecilli. E sappiamo ancora distinguere tra un pezzo degno di venire pubblicato su un giornale che si definisca tale e un insieme di righe dettate dall’odio, dalla rabbia e dalla mancanza di rispetto assoluta.

Gheula Canarutto Nemni

qui di seguito l’articolo di Moni Ovadia

Il Manifesto 26 aprile 2018

Moni Ovadia

La pantomima delle comunità ebraiche (di Roma e non solo) che non partecipano alla Manifestazione unitaria del 25 aprile, giorno della liberazione dal nazifascismo, si ripete mestamente. Uguale il gesto sdegnato, uguale la delirante motivazione.
E la delirante motivazione è che «nella manifestazione sfilano le bandiere di coloro che settanta anni fa furono alleati dei carnefici nazisti». Quali? Quelle dei risorgenti partiti neonazisti est europei polacchi, ungheresi, ucraini?
No, quelle dei palestinesi, che secondo la pagliaccesca propaganda di Benjamin Netanyahu avrebbero convinto il «mansueto» Führer Adolf Hitler, contro la sua volontà e disponibilità verso gli ebrei, a sterminarne invece sei milioni.
Anche 500.000 Rom e Sinti, tre milioni di slavi, decine di migliaia di disabili (inferiori rispetto alla «razza pura»), di antifascisti, migliaia di omosessuali, testimoni di Geova e di socialmente emarginati, senza dimenticare milioni e milioni di civili sovietici. Ma costoro poco interessano ai dirigenti delle comunità ebraiche. Che accetterebbero volentieri i vessilli di ogni altro popolo oppresso che volesse sfilare nelle manifestazioni del 25 aprile per rivendicare i propri diritti. Ma i palestinesi no! E perché no? Per pedissequo ossequio allo scellerato progetto segregazionista e razzista dle premier israeliano Netanyahu.
Che in alleanza con i peggiori fanatici religiosi intende far sparire i palestinesi in quanto popolo e nazione, per dare legittimità alla grande Israele fondata sul logoro mitologema della «Terra promessa» e poi ridurli in minuscoli bantustan concessi dall’effendi israeliano.
Ho già scritto a questo proposito, proprio sul manifesto in occasione della stessa manifestazione dello scorso anno.
Ma in questo anniversario vorrei aprire una prospettiva altra. Gli organizzatori dell’evento del 25 aprile dovrebbero disinteressarsi delle decisioni della comunità ebraica di Roma o di altre comunità ebraiche. Dichiarino la piena e naturale apertura alla partecipazione del mondo ebraico ma non si facciano condizionare da esso su chi debba partecipare o meno al corteo. Il 25 aprile è soprattutto e più di tutto il giorno degli antifascisti di qualsivoglia orientamento.
Le comunità dell’ebraismo siano le benvenute in quanto tali, ma se non tali e se si comportano da ufficio stampa e propaganda del governo ultrareazionario e segregazionista oggi in carica nello stato di Israele, non hanno motivo di sfilare con l’antifascismo.
Un governo antifascista non opprimerebbe mai un altro popolo, non lo deprederebbe delle sue legittime risorse, non ruberebbe il futuro ai suoi figli, non colonizzerebbe le terre assegnategli dalla legalità internazionale come sistematicamente e perversamente fa il governo Netanyahu sorretto dal presidente americano Trump che si appresta all’affronto di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme (occupata a Est).
E se qualcuno pensa che questi siano i pensieri del solito estremista, veterocomunista, «ebreo antisemita», si legga le dichiarazioni del presidente del Congresso Mondiale Ebraico, Ronald Lauder, ebreo americano aderente al partito repubblicano, pubblicate dal New York Times in questi giorni con questo titolo: Israel’s self inflicted wounds (le ferite autoinflitte di Israele), nel quale cui dopo una premessa fatta di dichiarazioni d’amore legittimo per Israele e captazio benevolentiae, condanna la politica di Netanyahu e dei suoi fanatici alleati colonizzatori compulsivi come suicidaria e invisa alla vasta maggioranza di ebrei della diaspora.
Alla faccia degli imbecilli che scambiano critiche politiche ed etiche per antisemitismo. (qui)

Aggiungo il commento che ho lasciato al post di Gheula.

Veterocomunista ideologizzato? No, niente del genere. Che cos’è M.O. l’ho capito la volta che, parlando dei miei eterni drammatici problemi finanziari, mi ha suggerito di trovarmi un amante ricco. Non credo di avere attitudine alla prostituzione, ho detto. No, ha risposto, quale prostituzione, intendevo un amante fisso. Avevo capito che intendeva un amante fisso, ovviamente, solo che per me darmi a un uomo in cambio di qualcosa che non sia amore o piacere, è prostituzione: che sia su un marciapiede a dieci uomini per sera, o in un appartamento a uno solo, sempre lo stesso, una volta la settimana, non vedo differenze. E’ stato allora che ho capito: se non è prostituzione andare a letto con un settantenne decrepito repellente ricco per farmi mantenere, allora non è prostituzione neanche svendere il proprio popolo, svendere la verità, svendere la dignità in cambio di un ricco ingaggio e di un applauso in più. Questo è moni ovadia: un prostituto in vendita al miglior offerente. E se gli offerenti sono quelli che sgozzano i neonati nella culla, pazienza: Parigi val bene qualche messa nera.
Ah, dimenticavo: vorrei che fosse chiaro che non ho assolutamente niente contro le oneste prostitute che si guadagnano onestamente il pane su un onesto marciapiede, senza atteggiarsi a maestre di virtù, senza spacciarsi per combattenti per la giustizia, senza vomitare veleno su chi, avendo già avuto il piacere, a lasciarsi un’altra volta giustiziare non ci pensa proprio.

Aggiungo ancora un’annotazione, a proposito della cosa che porta in testa. È stato un po’ più di vent’anni fa che, vedendola, ho notato la stranezza di quella kippà: no no, ha risposto, non è una kippà, è una berretta da integralista islamico. Se lo cercate in google immagini, potrete vederne almeno una quindicina di esemplari.
E concludo riportando una mail inviata a Deborah Fait diciassette anni fa

Intanto ti racconto questa. In luglio tutti gli anni c’è il festival di musica klezmer di Ancona, presidente onorario Moni Ovadia, e io ci vado sempre. Quest’anno il festival era dedicato alla pace, e lui, che si esibiva l’ultima sera, ha dedicato tutta la sua serata alla pace: gruppo musicale arabo e cantante palestinese. E io mi sono preparata all’incontro: mi sono comprata una sciarpa bianca, un barattolino di colore per stoffa azzurro, un pennello …
Lo spettacolo poi è stato il perfetto emblema di quello che lui intende per pace: una decina di canzoni arabe, in una delle quali lui ha rivendicato l’onore di cantare in arabo, tre canzoni sefardite e due ebraiche, nelle quali il cantante palestinese NON ha rivendicato l’onore di cantare in ebraico o in giudeo-sefardita. L’ultima era una canzone di Simchat Torah: lui ha cantato in ebraico e il palestinese ha cantato – suppongo le stesse cose – in arabo. Solo che il palestinese aveva la voce otto volte più potente della sua e così l’ebraico è stato totalmente sommerso dall’arabo. Fine della serata e applausi scroscianti per il politically correct Moni Ovadia e per i suoi amici. E io sono andata a salutarlo, con al collo la mia doppia bandiera israeliana (l’ho dipinta ad entrambe le estremità) raccogliendo un’infinità di sguardi tra lo schifato e il furibondo da parte del pubblico che andava in senso contrario per uscire – manifestare così spudoratamente simpatia per Israele è decisamente politically incorrect! Poi avevo una stella di David di strass appuntata alla scollatura del vestito e da mettermi al collo ho scelto quella che mi ha portato la mia amica Paola da Parigi perché ha i colori giusti: in argento smaltato, fondo azzurro e stella bianca. Per un attimo gli si è vetrificato lo sguardo, poi ha diplomaticamente ignorato il tutto, ma almeno un crampo allo stomaco sono sicuramente riuscita a farglielo venire.

barbara

IL TRADITORE

All’inizio, dico la verità, avevo pensato di mollarlo, perché davvero, non è che sia tanto facile reggere tutta quella melensa retorica a base di “demolizioni di case a Gaza. Famiglie che diventavano profughi per la terza o la quarta volta” e “coloni che sparano sui bambini eccetera. Case bombardate con carri armati e aerei” e “bambini morti sotto le macerie. Immagini di bambini ancora vivi con sassi in mano, in lotta per la Palestina con pezzi di Palestina. […] E ogni giorno foto di funerali” (compresi quelli in cui il “cadavere” cade dalla barella e poi si rialza e ci risale sopra. O, stufo di fare il morto, si tira su a sedere proprio nel momento in cui il fotografo scatta, ndb)
miracolo Qana
e una perla come “Nell’aprile 2000 però Hezbollah cacciò dal Libano gli occupanti israeliani. Era la prima vittoria araba a memoria d’uomo” (anche se in effetti lo sapevamo da prima che quelli l’avrebbero inteso così, ndb), e l’immancabile feticcio di “Muhammad ad-Durra, il bambino ferito e poi ucciso mentre il padre urlava alle truppe israeliane di cessare il fuoco. Rannicchiati sotto un inutile muro. Il padre umiliato che subiva l’umiliazione della suprema umiliazione. Quando alla fine il bambino morì, venti minuti dopo, il padre abbandonò la testa nel sangue, il proprio e quello rappreso del figlio, gli occhi spenti, ciechi alla sofferenza o al terrore o a qualsiasi altra cosa non essendo riuscito a salvare suo figlio. Ucciso dal fuoco incrociato, dicevano i notiziari inglesi”. (Ora, a parte che è di pochissimi mesi dopo l’episodio un’inchiesta della televisione tedesca che ha dimostrato al di là di ogni possibile dubbio che quella posizione poteva essere raggiunta unicamente dai proiettili palestinesi e non da quelli israeliani. A parte che quando è uscito il libro c’erano già sufficienti prove del fatto che il bambino non è affatto morto. A parte che immediatamente dopo l’episodio il povero padre umiliato era già in giro per mezzo mondo a “testimoniare” sul povero piccolo martire e a raccattare su montagne di soldi. A parte la spassosa annotazione del sangue del bambino che appena uscito sarebbe già rappreso – ma come resistere alla suggestione di un’immagine così potentemente poetica come quella del sangue rappreso? [coltiviamo per tutti un rancore che ha l’odore del sangue rappreso, ciò che allora chiamammo dolore è soltanto un discorso sospeso].  A parte tutto questo, dicevo, il fatto è che per quanto attentamente si guardino quelle immagini, non vi si trova una goccia di sangue neanche a pagarla oro! ndb)
al-dura-faux
E naturalmente non possono mancare quei cani figli di cani e puttane figlie di ruffiani e puttane che sono gli ebrei. E poi centinaia di migliaia di milioni di miliardi di canne e montagne di coca e pasticche di ogni sorta e mastodontici sballi che percorrono tutto il libro…
E poi invece no: è un libro bello. Sul serio. Bello e ricco e denso e intenso. È un momento di vita di un uomo – parziale alter ego dell’autore – alla ricerca di una propria identità: un anglo-siriano cresciuto da un padre ateo nel più assoluto disprezzo per le religioni in generale e per l’islam in particolare, stravolto e in parte travolto dalle vicende dell’11 settembre e dintorni. E c’è dentro davvero di tutto: Saddam Hussein e Assad padre e figlio, il carcere e le torture, il massacro di Hama e la gassazione dei curdi, Fratelli Musulmani ed ebrei in fuga dai pogrom, e complotti e narrative e gli attentati del Dolphinarium e di Sbarro e l’incontenibile tripudio per quei due aerei che entrano nelle torri e le fanno crollare e poesia e pittura e preghiere e menzogne e l’onnipresente ossessione palestinofila e israelofoba (ma anche giudeofoba) – e d’altra parte dove lo trovi un giornale o un canale televisivo che non ne sia impregnato – ma anche gli antisemiti degli anni Venti che strepitavano “L’Inghilterra agli inglesi! Ebrei fuori dai piedi! Tornatevene in Palestina!” (eh sì: non è chiaro se l’autore condivida le sparate sopra riportate o se le abbia messe per inquadrare il clima, ma evidentemente non ignora che c’è stato un tempo in cui il mondo intero riconosceva quella terra come la terra degli ebrei). E l’improvviso – o forse non era stato poi così improvviso? – esplodere e dilagare dell’integralismo islamico, barbe e hijab come rivendicazione di un’identità, e chi vi fa resistenza e chi segue la corrente e chi addirittura vi si butta. E pagine deliziose come questa

Nelle sue origini non c’era niente di cui andasse fiero, non almeno prima degli anni da studente, quando riconfigurò l’arabismo di Mustafa come proprio. Vista dal cortile di scuola tutte le origini tranne la sua avevano qualche prerogativa. Una certa credibilità. Gli inglesi bianchi per la forza dei numeri, e perché era lo standard normale. I neri erano ancora più forti. C’erano persino i convertiti: molti bianchi adottavano la parlata, i gusti e le acconciature dei neri, nei limiti del possibile, almeno quando erano a scuola. C’era una reciproca fascinazione fra i bianchi e i neri, che si studiavano e si imitavano a vicenda, si picchiavano e si scopavano, mentre i musulmani si aggiravano in punta di piedi nei tristi spazi attorno ai letti e alle piste da ballo dove andava in scena la rappresentazione. I musulmani erano un intralcio. Rovinavano la bianchezza della città, e anche la sua nerezza.
l neri che sovvertivano e arricchivano l’Inghilterra con il reggae e l’hip hop, il carnevale, il fumo degli spinelli. In cortile faceva scalpore.
I sikh. I sikh avevano il bhangra e, in tempi più recenti, le bande. Nessuno si faceva più problemi ad andare a letto con i sikh.
Gli irlandesi. Erano spiritosi, duri e incazzati. Vivevano nei pub in Kilburn Road. Erano tatuati e avevano, come si diceva, la parlantina sciolta.
Gli ebrei non erano poi così invidiabili. Nessuno dei suoi compagni sfoggiava un inglese con coloriture yiddish per farsi bello in cortile. E anche l’acconciatura con i due dreadlock non andava più di moda. Nella scuola di Sami non c’erano ebrei, almeno non che lui sapesse. Vivevano più a nord. Ma l’idea degli ebrei era attraente. Avevano inventato praticamente da soli tutto ciò che faceva dell’Occidente l’Occidente piuttosto che il Medio Oriente. Modernismo, psicologia. Marxismo, bombe atomiche. Erano i depositari della cultura non meno degli inglesi. Non erano né integrati né outsider. A meno che non lo ostentassero, era difficile distinguerli dai nativi. Sami aveva sentito dire che era quello a renderli pericolosi. Di sicuro li rendeva acuti. Conoscevano Londra, e l’Europa, dall’interno, e le guardavano con occhi europei da conquistatori. Ma erano sempre sul chi vive. Non sonnecchiavano mai. Non diventavano mai grassi e aristocratici.
I musulmani invece. In Gran Bretagna musulmano significava pakistano, che significava fabbriche fatiscenti e negozietti all’angolo. Che significava eskimo, pessimo accento e ristoranti etnici. Miserabili città su al Nord dove il giorno spuntava solo per modo di dire. Avevano un ruolo proletario nell’economia e un conservatorismo borghese. Né sexy né forti. Vestiti malamente e con un’istruzione penosa. Ragnatele islamiche sulle ciglia e muffa sulla lingua.
«Così lei è di famiglia musulmana?»
«Magari originariamente. Molto tempo fa. Ora non più.»
Sami non era pakistano. Ma come lui ce n’erano così pochi che non li si poteva certo definire una comunità. Almeno prima che arrivassero gli iracheni. Gli arabi visibili erano gli arabi del Golfo, turisti e principini, obesi, ricchi, stupidi.
«Così lei è arabo?»
«Più o meno. Ma non come gli arabi che si vedono alla tv».

E c’è la saggezza, impersonata dalla moglie (figura straordinaria!)

I figli maschi ereditano in misura doppia rispetto alle femmine perché devono provvedere ai loro familiari, mentre il denaro della donna rimane in suo possesso. L’islam funziona quando gli uomini si comportano in modo nobile. Diversamente invece la normativa appare discutibile. Una volta dato fondo ai soldi del padre morto, Sami viveva alle spalle della moglie. E dello stato.
(E poi anche: «C’erano delle persone, su quegli aerei»)

E una perla preziosa arriva anche dall’anarchico pazzoide complottardo

«Un’ultima cosa» disse. «Una lezione dai campi di concentramento. A sopravvivere non sono necessariamente i più forti, ma coloro che vedono uno scopo nelle proprie sofferenze»

E dunque, in conclusione, sono contenta di averlo letto. E secondo me lo dovreste fare anche voi. (Chi è il traditore? No, non ve lo dico. Che poi comunque è una pessima invenzione dell’edizione italiana: il titolo originale era The Road from Damascus, che è una strada lunga, in effetti, e spesso dolorosa, e percorrerla tutta non è per niente facile. Per niente)

Robin Yassin-Kassab, Il traditore, Il Saggiatore
iltraditore
barbara

ASSAD MORTO?

Secondo alcune indiscrezioni, sabato sera il dittatore siriano sarebbe stato gravemente ferito da una guardia del corpo iraniana. Sarebbe stato trasportato all’ospedale Shami di Damasco, i cui locali sarebbero stati sigillati dall’esercito. L’esercito siriano libero (ASL) avrebbe smentito la morte del suo nemico numero uno, mentre i programmi televisivi siriani sono stati interrotti. Alcuni parlano della morte di Assad, altri dicono che sarebbe tra la vita e la morte. (da un’agenzia francese, traduzione mia)

Se fosse morto due anni fa sarebbe stata festa grande, perché ci sarebbe stata la speranza dell’avvento della democrazia, o almeno qualcosa che un po’ le assomigliasse. Oggi c’è solo la certezza dell’avvento dell’integralismo islamico, e poche speranze della fine dell’opera di bassa macelleria in atto, e da festeggiare c’è ben poco.

barbara