E SE L’EMERGENZA CLIMATICA

fosse il fumo che ci viene gettato negli occhi per impedirci di vedere questo? Vale la pena di leggere questo articolo di Giulio Meotti, anche se lungo, per cercare di capire quale sia il pericolo reale che incombe su di noi.

“L’immigrazione islamica è la grande minaccia alla pace civile in Europa”

Si tratta del testo più impressionante, più articolato e più scenaristico che abbia letto finora da parte di un alto dirigente europeo della sicurezza sulla disintegrazione del continente. Nessun ex capo dei servizi segreti italiani ha mai usato parole tanto oneste e coraggiose.
L’ex capo dei servizi segreti francesi Pierre Brochand (Direction générale de la sécurité extérieure) ha tenuto una drammatica conferenza al Senato di Francia. Ne rende conto in esclusiva Le Figaro e lo pubblico per gli abbonati alla newsletter. Ci vuole pazienza e leggerla tutta. Perché c’é tutto: cosa abbiamo sbagliato, cosa accadrà, cosa possiamo e dobbiamo fare… Niente non è un’opzione, ma un suicidio. Riguarda i francesi, gli italiani, tutti gli europei. O almeno tutti coloro che hanno a cuore il futuro dell’Europa. Quella vera, non della lingua di legno.
Signore e signori senatori,
È un grande onore per qualcuno che ha iniziato a servire la Francia sotto il generale de Gaulle. Mi avete chiesto di parlare di immigrazione e io ho suggerito di aggiungere “questione centrale”.
Per due motivi:
da un lato, credo che, tra tutte le sfide che dobbiamo affrontare, l’immigrazione è l’unica che minaccia la pace civile e, come tale, la vedo come un prerequisito per tutte le altre. D’altra parte, l’immigrazione ha un impatto trasversale su tutta la nostra vita collettiva, che considero generalmente negativo.
L’immigrazione in generale non è affatto un male in sé, ma lo è l’immigrazione molto particolare a cui siamo sottoposti da 50 anni.
Chi sono io per suonare la campana?
Col tempo, mi sono reso conto, non senza angoscia, che le dure lezioni, tratte dalle mie esperienze all’estero, si rivelavano sempre più rilevanti all’interno, poiché, attraverso il gioco dell’immigrazione, questo “fuori” era diventato il nostro “dentro”.
Quali sono questi insegnamenti o queste verità che non sempre è bene dire?
Primo, che la realtà del mondo non è né bella né gioiosa e che è suicida prendersene gioco, perché, come un boomerang, si vendica centuplicata. Poi, che, nell’azione, il peggior peccato è assumere i propri desideri per realtà. Che, se il peggio non è sempre certo, è meglio prevederlo per prevenirlo. Che le società “multi” sono tutte destinate a disgregarsi. Che non siamo più “furbi” dei libanesi o degli jugoslavi nel far “convivere” persone che non vogliono.
Per prima cosa, non mi impantanerò nei numeri. Perché, con quasi mezzo milione di ingressi annui e un tasso del 40 per cento di bambini da 0 a 4 anni di origine immigrata, la questione mi sembra ovvia su questo piano.
D’altra parte, è chiaro che a questo livello, non siamo più nell’addizione di singoli casi – tutti singolari -, ma nella riattivazione di potenti forze collettive, ancorate nella Storia. Sicché procedere a ragionevoli generalizzazioni – quello che si grida in genere sotto il nome di amalgama – non ha infatti, per me, nulla di scandaloso.
Cominciamo torcendo il collo alla “papera”, secondo cui la Francia è sempre stata un paese di immigrazione. Per mille anni, dai Carolingi a Napoleone III, non è successo niente.
Dal 1850, tuttavia, abbiamo vissuto tre ondate:
La prima è durato un secolo. Di origine eurocristiana, discreta, laboriosa, grata, regolata dall’economia e dalla politica, ha rappresentato un modello insuperabile di riuscita fusione.
La seconda è iniziata negli anni ’70 e da allora è solo cresciuta. È l’esatto opposto della prima.
È un’immigrazione di insediamento irreversibile, che non è calibrata né dal lavoro né dalla politica, ma generata dai diritti individuali, soggetti all’unico giudice nazionale o sovranazionale. Siamo, quindi, travolti dai flussi col pilota automatico, “a ruota libera”.
Tutti provengono dal “terzo mondo”, da società fortemente fallimentari, e la maggior parte sono di religione musulmana, oltre che originari delle nostre ex colonie. Inoltre sono, come si dice oggi, “razzializzati”.
La terza ondata è stata innescata dieci anni fa dalla cosiddetta “primavera araba”, di cui è una delle nefaste conseguenze.
Non possiamo capire molto dell’immigrazione attuale se non abbiamo percepito fin dall’inizio che essa era virtualmente conflittuale, che questi conflitti non erano quantitativi ma qualitativi – quindi insolubili – e che facevano parte in ultima analisi del dolorosissimo contraccolpo antioccidentale innescato dalla globalizzazione.
Fingendo di ignorare questo determinismo, siamo stati così sciocchi da reintrodurre nelle nostre società gli ingredienti delle tre tragedie che hanno causato le nostre peggiori disgrazie in passato:
Discordia religiosa, antagonismo coloniale e razzismo, da cui pensavamo di esserci liberati dal 1945.
Per quanto riguarda la religione, cioè l’islam, questa confessione, interamente importata dall’immigrazione, non è un corrispettivo del cristianesimo, radicato in noi quindici secoli fa e da tempo addomesticato da una laicità tagliata su misura.
Da un lato, come fede, l’Islam è una religione “antiquata”, un codice onnicomprensivo di pratiche apparenti, un patchwork di certezze comunitarie, precipitato improvvisamente dal cielo nello stagno di un post-moderno dove la società, che non crede più a niente, è completamente spiazzata da questa devastante irruzione (oggi in Francia ci sono 25 volte più musulmani che negli anni ’60).
D’altra parte, come civiltà totale, orgogliosa, guerriera, offensiva, militante, l’Islam ha preso male per due secoli l’umiliazione dell’Occidente. Non appena la globalizzazione gli ha offerto l’opportunità, si è svegliato come un vulcano.
Conosciamo le manifestazioni di questa esplosione: jihadismo, salafismo, islamismo, reislamizzazione culturale. Tutti sintomi ormai presenti sul nostro suolo, come tante espressioni crisogene dell’insoddisfazione di un agente storico “anti-status quo”, che aspira all’egemonia là dove è presente, e, quando ci riesce, non condivide la nostra deferenza verso le minoranze.
Per questo bisogna avere un “cervello da colibrì” – come diceva de Gaulle – per dimenticare che musulmani ed europei non hanno smesso di battersi, da 13 secoli, per il controllo della sponda settentrionale e meridionale del Mediterraneo e bisogna essere piuttosto ingenui per non percepire, negli odierni andamenti demografici, un risorgere di questa secolare rivalità che, va ricordato, è sempre finita male.
Siamo stati così stupidi da immaginare che ricostituendo, sotto lo stesso tetto metropolitano, il faccia a faccia con persone che avevano appena divorziato all’estero, saremmo riusciti a rimetterle assieme. Errore fatale.
Di qui il fatto, mai visto da nessuna parte, di un’immigrazione con tendenza al vittimismo e alla rivendicazione, portata tanto al risentimento quanto all’ingratitudine e che, consapevolmente o no, si presenta come creditore di un passato che non passa.
Quanto al divario razziale, è dovuto alla visibilità dei nuovi arrivati ​​nello spazio pubblico, anch’essa senza precedenti. Il che porta, ahimè, a instillare nella mente delle persone una griglia di lettura etnica delle relazioni sociali, dove, per contaminazione, ognuno finisce per essere giudicato dall’aspetto. Che spostamento fraudolento e scandaloso, poiché porta i nostri immigrati a pensare che anche loro siano discendenti di schiavi.
Ma, non contenti di aver ravvivato questi tre fuochi mai spenti (religioso, coloniale, razziale), siamo riusciti nell’impresa di accenderne tre nuovi, sconosciuti alla nostra storia recente:
Il primo è dovuta all’incongrua intrusione di costumi comunitari d’altri tempi, ereditati dai paesi di origine e perpendicolari al nostro modo di vivere: primato dei legami di sangue, sistema di parentela patrilineare, controllo della donna, sorveglianza sociale della sessualità, endogamia, cultura dell’onore e suoi corollari (giustizia privata, diritto del taglione, omertà), ipertrofia dell’autostima, incapacità di autocritica. Senza dimenticare la poligamia, l’escissione, la stregoneria, ecc.
Un altro incredibile dissenso: l’alter nazionalismo dei nuovi arrivati, che, a differenza dei loro predecessori, intendono conservare la nazionalità giuridica ed affettiva del paese di origine, in gran parte mitizzata. Con tutti i danni che può causare questa rara dissociazione tra passaporto e fedeltà.
Infine, “ciliegina sulla torta”, queste comunità di altrove non solo hanno dispute con la Francia, ma anche tra di loro: nordafricani/subsahariani; algerini/marocchini; turchi/curdi e armeni; afghani, ceceni, sudanesi, eritrei, somali, pakistani, pronti a dare battaglia, ognuno dalla propria parte. Senza dimenticare lo spaventoso paracadutismo di un antisemitismo di tipo orientale. Così, una sorta di “bonus regalo”, assistiamo all’insolito spettacolo di un territorio, trasformato in campo chiuso per tutte le beghe del pianeta, che non ci riguardano.
I flussi di immigrazione sono cumulativi. Oltre agli effetti di flusso, ci sono effetti di stock, che a loro volta generano nuovi flussi. Queste correnti obbediscono anche agli effetti di soglia. Oltre un certo volume, cambiano natura e segno. Da possibilmente positivi, cambiano in negativi.
Questa soglia di saturazione viene raggiunta tanto più rapidamente quanto più profondo è il divario tra la società di partenza e quella di destinazione.
Lo scenario secessionista è la pendenza più naturale di una società “multi”.
Quando i gruppi sono ripugnati dal vivere insieme, si formano quelle che vengono chiamate diaspore, costituite da popolazioni extraeuropee, né assimilate né integrate e con una tendenza non cooperativa.
Una specie di controcolonizzazione, dal basso, che non dice il suo nome.
Di conseguenza, tra questo “arcipelago” e il resto del Paese, sta crollando la fiducia sociale, fondamento stesso delle società felici. Dove la sfiducia diventa sistema, l’altruismo presto scompare al di là dei legami familiari, cioè la solidarietà nazionale. A cominciare dal suo fiore all’occhiello: il welfare state, la cui perpetuazione richiede un minimo di empatia tra contribuenti e beneficiari. L’economista Milton Friedman diceva, a mio avviso giustamente, che il welfare state non era compatibile con la libera circolazione degli individui.
Tuttavia, di fronte a queste micro-contro-società, siamo paralizzati. Vi scorgiamo, non senza ragione, tante pentole a pressione, che temiamo soprattutto possano esplodere contemporaneamente. Siamo pronti a passare di compromesso in compromesso. Si tratta di ciò che viene chiamato, per antifrase, “accomodamento ragionevole”, che non è altro che negazioni della libertà di espressione, della giustizia penale, dell’ordine pubblico, della frode sociale e del laicismo o sotto forma di clientelismo agevolato.
Tutti questi accordi quotidiani possono moltiplicarsi, ma non bastano per comprare la pace sociale ed è allora che “accade ciò che deve accadere”: quando più poteri sono in aperta competizione, sullo stesso spazio, per ottenere il monopolio della violenza ma anche dei cuori e delle menti, questo è lo scenario che si verifica.
Il confronto. Quella che noi modestamente designiamo con l’espressione “violenza urbana” e di cui conosciamo bene la scala ascendente. Rivolte che ora degenerano in guerriglie a bassa intensità, una sorta di intifada alla francese o “remake” minori delle guerre coloniali. Con il culmine di questo continuum che è il terrorismo jihadista.
Alla luce di questo bilancio, la mia sensazione è che, se restiamo a guardare, andiamo incontro a grandi disgrazie.
Dove stiamo andando? Cosa fare?
Se si vuole affrontare un problema, è fondamentale definirne la reale dimensione. Tuttavia, l’apparato statistico, centrato sul criterio della nazionalità, non consente di valutare tutte le ripercussioni di un fenomeno che in gran parte gli sfugge. Per questo è imperativo orientarsi verso statistiche e proiezioni cosiddette “etniche”.
Per quanto riguarda il discorso intimidatorio, è l’incredibile predicazione che i media, le ONG, il “popolo” ci servono e il cui unico scopo è organizzare l’impotenza pubblica. Questi elementi di linguaggio sono, ai miei occhi, solo il riflesso di un’ideologia che, come tutte le ideologie, non ha nulla di sacro. Tranne che è stato dominante per 50 anni.
Il suo dogma centrale, come tutti sappiamo, è quello di far prevalere, ovunque e sempre, i diritti individuali e universali degli esseri umani che si presumono intercambiabili, rimovibili a piacimento, in un mondo senza confini, dove tutto sarebbe perfetto, senza l’ostacolo anacronistico dello stato nazionale, l’unico teoricamente capace di dire no a questo scempio. Per questo abbiamo lavorato molto attentamente per riabilitarlo, amputando le sue braccia regali per conformarlo al nuovo ideale: lascia andare, lascia correre.
La cosa più grave è che questa utopia si difende dall’assalto della realtà solo con un mezzo spregevole: il ricatto. Il ricatto del razzismo che, attraverso le fatwa, promette la morte sociale a tutti coloro che osano mettere la testa fuori dalle trincee. Tuttavia, questa doxa, in forma di fiaba, non dobbiamo temere di proclamarla falsa e incoerente.
Falsa, perché, se è vero che gli immigrati entrano come individui, non è meno vero che si stabiliscano come popoli. Ed è proprio questa limpida evidenza che la narrazione ufficiale ci vieta di vedere.
Ci viene detto contemporaneamente che l’immigrazione non esiste, che esiste ed è una benedizione, che esiste da sempre ed è inevitabile, che accoglierla è un dovere morale, ma che ci pagherà le pensioni e ci darà lavori che noi non vogliamo.
Ma, alla fine, si finisce sempre per imbattersi nello stesso argomento: “non gettare benzina sul fuoco, perché stai facendo il gioco del tal dei tali”. Argomento che è, probabilmente, il più stravagante di tutti, in quanto riconosce che c’è davvero un incendio in corso, ma che è meglio tacere per motivi che non hanno nulla a che fare con esso.
Portati a un tale livello di assurdità, ci troviamo di fronte a una triforcazione:
– O prendiamo sul serio queste sciocchezze e lasciamo che tutto scivoli via: rotoliamo verso l’abisso, premendo l’acceleratore.
– O ci limitiamo ad accompagnare il fenomeno, votando, ogni 3 o 4 anni, leggi che fingono di occuparsi dell’immigrazione, ma che, di fatto, rientrano nella sua gestione amministrativa e tecnocratica. È solo fare un passo indietro per saltare meglio.
– O riusciamo a toglierci la camicia di forza e a riprenderci, mostrando finalmente volontà politica, il volante del camion impazzito che da 50 anni guida da solo.
Avete indovinato che la mia scelta è ovviamente l’ultima. Ma più precisamente?
L’immigrazione – è facile intuirlo – funziona come una pompa che spinge indietro da una parte e risucchia da un’altra. Non possiamo fare nulla, o quasi, per impedire la partenza. Possiamo fare qualsiasi cosa per scoraggiare l’arrivo.
Quindi 6 passi principali:
Lanciare, urbi et orbi, il messaggio che la marea è cambiata di 180 gradi, attaccando frontalmente l’immigrazione legale, che dovrebbe essere divisa almeno per dieci.
L’accesso alla nazionalità deve cessare di essere automatico.
Contenere l’immigrazione irregolare, dividendo per 20 o 30 i visti, compresi gli studenti, concessi ai Paesi a rischio, non accogliendo più alcuna domanda di asilo sul nostro territorio, abolendo ogni premio per la frode (soccorso medico di Stato, alloggio, regolarizzazioni, sbarco delle navi di “soccorso”).
Attenuare l’attrattiva sociale della Francia, eliminando tutte le prestazioni non contributive per gli stranieri e limitando a 3 figli, per famiglia, gli assegni familiari, rivalutati senza condizioni di reddito.
Sgonfiare le diaspore, riducendo tipologie, durate e numeri dei permessi di soggiorno ed escludendo i rinnovi quasi automatici.
Rafforzare la nostra laicità cristiana per adattarla alla ben diversa sfida dell’Islam, non neutralizzando più solo lo Stato e la scuola, ma anche lo spazio pubblico, le università e il mondo delle imprese.
Se queste proposte rientrano nel quadro del diritto esistente, tanto meglio, altrimenti dovrà essere modificato a qualunque costo. Poiché l’inversione proposta è ora una questione di sicurezza pubblica, la sua ferocia è solo la controparte del tempo perduto.
Vi ho appena fatto una diagnosi. Vale a dire, se persistiamo nella nostra cecità, andremo verso un paese dove, al minimo, la vita non sarà più degna di essere vissuta, o, al massimo, in un paese dove, a forza di esplosioni, non saremo più in grado di vivere affatto.
Potremmo non condividere questa valutazione e, in questo caso, avrei parlato per non dire nulla. Ma possiamo aderirvi e, in questo caso, le misure avanzate sono la nostra ultima possibilità.
Sono consapevole che alcuni di voi potrebbero avermi trovato eccessivo, allarmista, irrealistico, senza sfumature, o generosità, cos’altro so.
Vi concedo volentieri altri due difetti. Da un lato, il mio carattere può essere descritto come ostinato, in quanto non accetterò mai di affermare che è notte in pieno giorno. D’altra parte, è vero, sono ossessionato, ma la mia ossessione è rivolta unicamente ai nostri figli e nipoti, verso cui il nostro dovere elementare non è lasciare in eredità un paese caotico, quando lo abbiamo ricevuto dai nostri anziani come un magnifico dono.
Ultima domanda, che suppongo che tutti ci poniamo di tanto in tanto: cosa farebbe il generale de Gaulle?
Nessuno lo sa, ma sono personalmente convinto di due cose: se fosse stato al potere non ci avrebbe mai messo nei pasticci che ho descritto stasera, e se fosse risorto, temo che mi prenderà per un moderato.
Grazie per avermi ascoltato.

Non vi sembra che sia qualcosa di un po’ più concreto della fantomatica emergenza climatica a causa della quale da oltre mezzo secolo ci stanno raccontando che ci restano ancora dieci anni? E ci fosse un cane che ci spiegasse che cosa succederà fra dieci anni se non cambiamo rotta.

barbara

ALLA PERIFERIA DELL’ATTENTATO

I vigliacchi occidentali se la fanno sotto sull’Islam

Le 15 coltellate a Salman Rushdie e i benpensanti che non chiamano più alla difesa della libertà di parola perché l’hanno già persa. Ho paura anch’io dei fanatici di Allah, ma anche dei nostri fifoni

Il 26 settembre del 1988 apparve presso la casa editrice Viking Penguin il romanzo dello scrittore anglo-indiano Salman Rushdie, I versetti satanici. Quindici giorni dopo arrivarono le prime minacce di morte. A Bolton, in Inghilterra, il libro fu bruciato in piazza il 2 dicembre. Il 4 dicembre alla moglie di Rushdie arrivò la prima telefonata: “Ti prenderemo stasera al 60 di Burma Road”. Era il loro indirizzo di casa. Il 28 dicembre arrivarono le minacce di pacchi bomba negli uffici della Viking Penguin. Il Capodanno trascorse senza incidenti. Il 1989 cambia tutto. Era il giorno di San Valentino, quando dall’Iran arrivò la fatwa di Khomeini: “Informo l’orgoglioso popolo dell’Islam che l’autore dei ‘Versetti satanici’ che è contro l’islam, il Profeta e il Corano, e tutti coloro che sono implicati nella sua pubblicazione sono condannati a morte”. Il giorno stesso Rushdie e la moglie furono prelevati dalla loro casa a Islington, a nord di Londra, dal servizio segreto inglese, per essere portati nelle oltre cinquanta “case sicure” in cui lo scrittore avrebbe vissuto per dieci anni. I due sono protetti da un apparato di sicurezza gigantesco e costosissimo, simile a quello riservato a un capo di stato. Per anni nessuno sapeva dove vivesse. Quando Rushdie dovette tenere una lezione all’Institute of Contemporary Arts in London, fu l’amico e premio Nobel Harold Pinter a leggerla al posto suo. Per intervistarlo, il regista David Cronenberg alla vigilia dell’appuntamento riceve una telefonata di uno 007 inglese. “Un agente ti incontrerà nella lobby del tuo albergo”, disse, “il suo nome è Sinclair. Prenderete un taxi insieme che vi condurrà a un luogo top secret”. Come ha scritto Daniel Pipes, l’ufficio di Londra assomigliava a “un campo di battaglia”, con la polizia di guardia, i metal detector e una scorta per i visitatori. Nella sede di New York, i cani addestrati annusavano i pacchetti della posta e gli uffici furono definiti un “luogo sensibile”. Molte librerie furono attaccate e molte altre si rifiutarono di vendere il libro. Rushdie scomparve, come in una nuvola. Fu la prima volta che, in nome dell’Islam, uno scrittore veniva condannato a evaporare dalla faccia della terra, lui e il suo libro. Da allora molta strada è stata fatta, mentre Rushdie “rientrava” in società.
Rushdie sembrava averla scampata, fino a ieri, quando è stato pugnalato 15 volte al collo da un islamista mentre stava per tenere una conferenza a New York. Perderà un occhio, come minimo. Ieri a New York gli islamisti ci hanno ricordato che le loro fatwe non cadono in prescrizione.
Per questo l’autocensura dilaga…Già al tempo della fatwa molte case editrici occidentali si piegarono alle intimidazioni. Christian Bourgois, una casa editrice francese, si rifiutò di pubblicare il libro dopo averne acquistato i diritti e lo stesso fece l’editore tedesco Kiepenheuer. Anni in cui il traduttore giapponese di Rushdie fu ucciso, quello norvegese si prese una pistolettata e quello italiano della Mondadori una coltellata a Milano. Il film di Theo Van Gogh Submission, a causa del quale è stato assassinato, è scomparso dai festival del cinema. Le vignette su Maometto pubblicate da Charlie Hebdo sono state celate alla sfera pubblica: dopo la strage, pochi media le hanno ripubblicate. Il Metropolitan Museum of Art di New York ha rimosso da una mostra le immagini di Maometto, mentre la Yale Press ha pubblicato un libro sulle vignette del Profeta senza riprodurle. The Jewel of Medina, un romanzo sulla moglie di Maometto, è stato censurato. A Rotterdam, in Olanda, cancellata un’opera su Aisha, una della mogli di Maometto. In Inghilterra, il Victoria and Albert Museum ha ritirato un ritratto di Maometto. In Germania, la Deutsche Opera ha cancellato l’Idomeneo di Mozart, perché c’era Maometto. “I critici dell’Islam devono temere per la propria vita: minacce di morte e attacchi”, racconta il magazine Tichy. “Chiunque critichi l’islamismo deve aspettarsi di essere violentemente attaccato in questo Paese e senza che nessuno si offenda”, ha affermato il giornalista Jan Aleksander Karon. “In Germania è sempre più pericoloso criticare l’Islam”. Tamerlano il Grande di Christopher Marlowe, che contiene un riferimento in cui Maometto è descritto come “non degno di essere venerato”, è censurato al Barbican di Londra. I vignettisti, i giornalisti e gli scrittori “islamofobi” sono i primi europei dal 1945 a doversi ritirare dalla vita pubblica per proteggere la propria incolumità. Per la prima volta in Europa da quando Hitler ordinò di incenerire i libri nella Bebelplatz di Berlino, film, quadri, poesie, romanzi, vignette, articoli e opere teatrali sono letteralmente messi al rogo.
In Francia ci sono 120 persone sotto la protezione della polizia a causa delle minacce islamiche. Sotto scorta c’è una semplice studentessa come Mila, portata via anche dalla scuola militare dove si era rifugiata a seguito delle 50.000 minacce di morte che ha ricevuto da quando ha “offeso” l’Islam sui social. Sotto scorta c’è Eric Zemmour, l’uomo più coraggioso d’Europa, e il romanziere Michel Houellebecq. Sotto scorta ci sono una decina di professori, da Trappes a Grenoble. Molte di loro hanno visto le proprie carriere, vite e nomi distrutti. Sotto scorta c’è tutta la redazione di Charlie Hebdo, protetta da 85 agenti di polizia e 6 porte blindate. L’ex direttore Philippe Val vive in una casa dalle finestre antiproiettili, agenti di polizia e una “safe room” blindata in cui c’è una linea telefonica per avvisare i soccorsi. 
Sgozzano a morte un parlamentare inglese in una chiesa? Non parliamone.
Sgozzano a morte un medico davanti a una scuola? Non parliamone.
Bruciano le chiese, riempiono di cristiani le fosse comuni, selezionano chi uccidere se sappia o meno recitare la Shahada in Africa come in Medio Oriente? Non parliamone.
Condannano a morte Asia Bibi, che oggi deve persino nascondersi come Rushdie in Canada? Non parliamone. “Non sono riuscita a farmi degli amici e non voglio ancora farlo, quando diventi amico di qualcuno vengono fuori molte cose sulla tua vita”, racconta Bibi al Globe and Mail. Gli islamisti hanno messo una taglia sulla sua testa di 678.000 dollari. Asia ha vinto la sua battaglia. L’Occidente sta perdendo la sua guerra.
Al Qaeda nel 2012 pubblicò una terrificante most wanted list, come quelle dell’FBI. Titolo: “Yes we can. Un proiettile al giorno leva l’infedele di torno…”. Il vignettista svedese Lars Vilks (qui la mia intervista che gli feci al tempo), è morto con gli uomini della sua scorta in un terribile incidente stradale. Carsten Juste, che da direttore del giornale danese Jyllands Posten pubblicò le vignette su Maometto, ha chiesto scusa e lasciato il giornalismo. Flemming Rose, il redattore del Jyllands che commissionò le caricature, con i Talebani che gli hanno messo una taglia sulla testa, ha rassegnato le dimissioni e pubblicato un libro dal titolo eloquente: La tirannia del silenzioKurt Westergaard, il vignettista della più famosa delle caricature, è morto nella sua casa-bunker dove hanno cercato di assassinarlo. Molly Norris, vignettista del Seattle Post, è diventata un “fantasma”. Ha cambiato nome, non si è fatta più vedere in giro. Di lei non si sa più niente dopo che l’FBI la inserì in un programma di protezione dei testimoni. Uno dei suoi datori di lavoro al Seattle Weekly ha scritto: “Paragona la situazione al cancro. Potrebbe non essere niente, potrebbe essere urgente, potrebbe andare via e non tornare mai più, o potrebbe spuntare di nuovo quando uno meno se lo aspetta…”. Geert Wilders è vivo soltanto grazie al fatto che è protetto da una unità militare dell’esercito olandese generalmente addetta a garantire la sicurezza di una ambasciata in Afghanistan. Wilders deve indossare il giubbotto antiproiettile anche nei dibattiti televisivi. Stephane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, è stato ucciso con otto colleghi e agenti di scorta. Ayaan Hirsi Ali, che con Theo Van Gogh realizzò il film Submission, ha lasciato l’Olanda e cercato riparo negli Stati Uniti, dove è sotto protezione. Rushdie è stato accoltellato ieri a New York…
Direi che quella lista è stata completata. “Yes, we can…”.
Ma l’autore de I Versetti satanici lo aveva un po’ previsto. “All’interno del movimento progressista c’è l’accettazione del fatto che certe idee dovrebbero essere soppresse e penso che sia preoccupante” ha detto Rushdie all’Irish Times. “Mettiamola così: il tipo di persone che mi hanno difeso negli anni brutti – in altre parole, le persone nelle arti liberali e di sinistra – potrebbero non farlo ora”.
Per questo nessun benpensante chiama più alla difesa della libertà di parola dalle grinfie dell’Islam. Perché l’hanno già persa. “Non ve lo sareste mai aspettato di ritrovarmi dalla parte del Papa, eh?”, disse Rushdie. “Neppure io, però è così: chiedergli di scusarsi per il discorso di Ratisbona è stato profondamente sbagliato. Ratzinger ha il coraggio di dire ciò che pensa, e noi dovremmo difendere il suo diritto di farlo”. Perché Papa Ratzinger fu abbandonato da tutta l’intellighenzia occidentale quando disse la verità sull’Islam. Nell’area sottoposta controllo dell’Autorità palestinese, le chiese cristiane furono bruciate e i cristiani presi di mira. Gli islamisti britannici invocarono “l’uccisione” del Papa. In Somalia, una suora italiana venne uccisa. In Iraq, un prete siro-ortodosso fu decapitato e mutilato dopo che i terroristi avevano chiesto alla Chiesa cattolica di scusarsi per il discorso. I Fratelli musulmani in Egitto annunciarono rappresaglie contro il Papa. Nella sua lectio, Benedetto XVI ha chiarito le contraddizioni dell’Islam, ma ha anche offerto un terreno di dialogo con il Cristianesimo e la cultura occidentale. Il pontefice ha parlato della radici ebraiche, greche e cristiane. Chi le difende più? Due anni dopo, a Ratzinger fu impedito di parlare alla Sapienza.
L’Islam ha infilato il suo dito ossuto nelle parti molli degli intellettuali occidentali e ha trovato soltanto cartilagine. Il celebre drammaturgo Simon Gray ha detto che Nicholas Hytner, il direttore del National Theatre, potrebbe mettere in scena un’opera satirica sul Cristianesimo, mai una sull’Islam. Anch’io ho paura. Chi non ne avrebbe, quando dopo trent’anni accoltellano su un palco uno scrittore che ha vissuto dieci anni come un fantasma? Ho paura della violenza islamica, ma anche della viltà di questi intellettuali e giornalisti “perbene” che dopo il primo colpo sono andati al tappeto per salvarsi la pelle. Ci hanno messi tutti in pericolo.
Giulio Meotti

E tutti quelli che non conosciamo.

Quei Rushdie d’Europa, fantasmi della nostra libertà

Gli hanno sparato, vivono con le guardie del corpo, cambiano spesso casa, si spostano su auto blindate e se si mette male scompaiono. L’islamizzazione fa a pezzi la nostra tolleranza di cartapesta

Non sappiamo neanche che esistono perché la nostra stampa conformista e timorata non racconta mai le loro storie incredibili. Vivono in mezzo a noi, a Parigi, a Londra, a Oslo, a Copenaghen, a Berlino, ad Amsterdam e in tutte le altri capitali europee. Vivono secondo un dispositivo di sicurezza militare: devono dire in anticipo alla polizia cosa faranno durante la giornata, chi vedranno e quali locali intendono frequentare e, nel caso non sia ritenuto sicuro, sono costretti a cambiare programma. Spesso, se c’è una minaccia nuova, cambiano anche casa, scompaiono per un po’, protetti dall’anonimato. Non sono pentiti di mafia, sono accademici, attiviste, scrittrici, giornalisti, intellettuali. Parliamo di oltre cento personalità in Europa. La loro “colpa”? Aver criticato l’Islam. Le loro precauzioni per proteggersi non sono mai troppe. Salman Rushdie aveva smesso di essere protetto da molti anni.
Un professore di origine iraniana, Afshin Ellian, lavora all’Università di Utrecht, in Olanda, dove è protetto da guardie del corpo. Al secondo piano del dipartimento di Diritto, dove insegna, si arriva attraverso un corridoio con accesso elettronico e vetri blindati; sembra una banca, più che in un normale dipartimento di Diritto. Quando gli ho fatto visita mi ha aperto un poliziotto, che mi ha fatto entrare dopo avermi controllato lo zaino e avermi perquisito. In Danimarca è sotto protezione Lars Hedegaard, il direttore della International Free Press Society, sopravvissuto miracolosamente a un attentato sotto casa. Un uomo lo ha avvicinato vestito da postino e gli ha sparato alla testa, mancando di un pelo il bersaglio. Una esecuzione in piena regola di fronte alla casa dell’intellettuale in un quartiere borghese di Copenaghen.
La scrittrice turca Lale Gül, racconta Le Monde, per aver denunciato le scuole coraniche della Turchia in Olanda è finita sotto scorta. Siamo nel paese dove l’artista iraniana Sooreh Hera doveva esporre in un museo dell’Aia una serie di opere fotografiche che ritraevano Maometto e Alì. “Ti bruceremo viva”, “abbiamo ucciso una volta siamo pronti a farlo una seconda…”. Kadra Yusuf, giornalista somala, si è infiltrata nelle moschee di Oslo per denunciare gli imam e vive sotto protezione. La giornalista francese Zineb El Rhazoui ha più guardie del corpo di molti ministri di Macron. “Bisogna uccidere Zineb El Rhazoui per vendicare il Profeta“, recita una fatwa. Non è difficile capire perché a Le Point Rhazoui abbia confessato: “Sono arrivata in un momento del mio viaggio in cui sento l’urgente bisogno di uscire dal combattimento”. 
Un accademico francese è finito sotto la protezione per aver voluto discutere un argomento tabù in Francia: il concetto di “islamofobia”. Alla celebre Università Sciences Po a Grenoble, definito “islamofobico” e “fascista”, l’accademico Klaus Kinzler è sotto scorta. Fra le accuse, quella di “ricordare le origini cristiane della Francia”.
Il nuovo indirizzo del giornale Charlie Hebdo è sconosciuto e, come ha rivelato uno dei sopravvissuti alla strage del 7 gennaio 2015 Fabrice Nicolino (era accanto a Bernard Maris, ucciso nell’attacco), oggi la sede di Charlie ha sei porte blindate, un sistema a raggi X e una panic room, in cui devono entrare se sentono rumori sospetti. Come tutti i giornali, Charlie non può permettersi di perdere copie. Ma per un motivo diverso dagli altri. “E’ normale per un giornale di un paese democratico che più di una copia su due venduta in edicola finanzi la sicurezza dei locali in cui i giornalisti lavorano?”, ha chiesto il direttore, “Riss”. Lo stato francese  non protegge i locali, è responsabile esclusivamente della protezione delle persone. Ogni dipendente di Charlie è sempre accompagnato da un’auto con a bordo due poliziotti. E se la minaccia sale, arriva un’altra moto o auto blindata.
In Germania ci sono decine di personalità sotto scorta, come il sociologo Hamed Abdel Samad. Non ricopre cariche pubbliche, ma questo intellettuale di origine egiziana vive sotto la più stretta protezione della polizia come i più alti vertici della politica, sorveglianza a 360 gradi 24 ore su 24. Nessuna residenza permanente, spostamenti in veicoli blindati, ufficiali armati. Non si muove senza scorta Mina Ahadi, che ha fondato il Consiglio degli ex musulmani, coloro che hanno abbandonato l’Islam compiendo “apostasia”, reato passibile di pena di morte in decine di paesi musulmani. Il sociologo tedesco Bassam Tibi è sotto sorveglianza. Come Fatma Bläser, vittima di un matrimonio forzato e autrice del romanzo Hennamond, protetta dalla polizia. L’avvocato di origine turca Syran Ates è protetta da sei agenti della polizia a Berlino. “Riceve tremila di minacce”, ha rivelato l’avvocato. Ates non è nuova alle minacce. Chiuse il suo studio legale a Kreuzberg, il “quartiere turco” di Berlino, sospendendo la collaborazione con i due consultori che offrivano assistenza alle donne musulmane dopo che, fuori dal metrò, venne aggredita dal marito di una cliente che voleva divorziare. Le gridò “hure!”, puttana. Seyran Ates si è beccata anche una pallottola alla gola (i segni di quell’attentato se li porta ancora dietro). I lupi grigi volevano mettere a tacere questa splendida dissidente islamica nata a Istanbul e cresciuta a Berlino. Ma Ates non era destinata a finire come il giornalista armeno Hrant Dink. Il proiettile si fermò tra la quarta e la quinta vertebra. Ates ci ha messo cinque anni per riprendersi dalle ferite. Quando Can Dündar, il più coraggioso giornalista turco, corsaro direttore di Cumhuriyet (l’unica testata turca che ha espresso solidarietà con Charlie Hebdo), ha lasciato Ankara alla volta della Germania, non avrebbe mai immaginato di aver bisogno anche a Berlino della protezione della polizia. Con la differenza che, in Turchia, i poliziotti perquisivano la sua casa in cerca di articoli compromettenti, mentre a Berlino sono a guardia della sua abitazione.
In Danimarca c’è un giornale, il Jyllands Posten, la cui redazione assomiglia oggi a un bunker militare. Nel 2006 pubblicò le vignette su Maometto. Circondata da una barriera di filo spinato, sbarre, lastre metalliche e telecamere che circondano per un chilometro il giornale, la redazione è protetta dallo stesso meccanismo delle chiuse dei fiumi. Si apre una porta, entra una macchina, la porta si richiude e si apre quella di fronte. I giornalisti entrano uno alla volta, digitando un codice personale (una misura che non ha protetto i giornalisti di Charlie Hebdo). Numerosi dipendenti del quotidiano hanno dovuto lasciare il giornale a causa di un forte stress psicologico. I loro vignettisti sono scampati a numerosi attentati, anche dentro casa.
Sotto scorta è Mohammed Sifaoui, giornalista franco-algerino, la sua foto e il suo nome pubblicati sui siti jihadisti accanto alla scritta “apostata”. “Non potrai ritardare la tua ora”. Molte scortate sono donne, da Marika Bret, “esfiltrata” di casa, e la turca Claire Koc. O la giornalista Ophélie Meunier, la reporter di Zone Interdite che ha filmato in prima serata tv l’islamizzazione di Roubaix assieme al giurista Amine Elbahi, che ha ricevuto minacce di decapitazione. 
Non si tratta solo di politici come Marine Le Pen o di giudici come Albert Lévy, titolare di inchieste sui fondamentalisti islamici. Ci sono semplici insegnanti come Fatiha Agag-Boudjahlat, che ha rimproverato alcuni studenti di non aver rispettato il minuto di silenzio durante l’omaggio a Samuel Paty. E imam come Hassen Chalghoumi, inserito in “Uclat 2”, il programma di protezione di cui beneficiano gli ambasciatori di Stati Uniti e Israele a Parigi. Un professore ha raccontato la sua ultima visita a Trappes per un documentario tv: “Mi è stata concessa solo una ripresa di cinque minuti davanti alla stazione di polizia, circondato da una dozzina di agenti. Il resto del tempo sono dovuto rimanere nascosto in auto. Uno dei poliziotti mi ha detto: ‘Se tirano fuori i kalashnikov, non abbiamo niente con cui rispondere, quindi non resteremo a lungo’. Il giornalista voleva che dicessi qualche parola davanti alla scuola, ma la polizia ha rifiutato per motivi di sicurezza. Mi è stato permesso passarci davanti senza fermarmi. Sono stato scortato in un albergo, il cui ingresso era sorvegliato da quattro agenti di polizia, per condurre l’intervista”.
Dateci la sua testa”, hanno urlato gli islamisti fuori dalla scuola inglese a Batley. Volevano uccidere un insegnante di cui non conosciamo neanche il nome e costretto a lasciare la scuola oggetto di pesanti minacce di morte reo di aver mostrato in classe le vignette su Maometto durante una lezione sulla libertà di espressione, che ora vive in una “casa sicura” con sua moglie e i figli a causa del timore di essere uccisi. La minaccia è giudicata così grave che nemmeno i loro parenti sanno dove vivono. “Le finestre della casa dove l’insegnante ha vissuto per più di otto anni sono coperte di lenzuola bianche”.
Adesso è un po’ più chiaro che, assieme alla cancel culture di civiltà, l’Islam radicale è oggi la principale minaccia alla cultura occidentale? Stiamo diventando come dei tacchini che celebrano il giorno del Ringraziamento.
Giulio Meotti

La nostra inquisizione, nella sua forma più cruenta, è durata una manciata scarsa di secoli, la loro sta durando da quasi un millennio e mezzo e, ben lungi dall’attenuarsi, continua a diventare sempre più virulenta. Come le infezioni quando non le curi al loro insorgere.
E ora, prima di chiudere, guardiamoci un po’ di cose sull’Iran, anche se le sappiamo già tutte.

barbara

L’ATTENTATO A SALMAN RUSHDIE

Atteso da 23 33 anni, finalmente è arrivato, ponendo qualche inevitabile domanda – domande che a qualcuno suggeriscono risposte bizzarre assai, ma chissà se oltre che bizzarre saranno anche infondate – ma partiamo dalle domande. Preciso, per chi non lo sapesse, che il musulmano che uccide una persona colpita da fatwa (esattamente come chi uccide un ebreo, uno qualsiasi) ha il paradiso garantito, per cui su un miliardo e mezzo di musulmani, fra cui diciamo circa mezzo miliardo di molto molto religiosi e almeno un centinaio di milioni di fanatici, con l’aggiunta di oltre tre miliardi di dollari di taglia, non dovrebbe essere irragionevole aspettarsi che qualcuno ci provi, e altrettanto ragionevole sembrerebbe che si avesse l’accortezza di prevedere qualche misura di protezione, soprattutto considerando che finora non era ancora successo perché sempre sotto scorta – e i primi dieci anni rinunciando praticamente a vivere – e ricordando che un traduttore è stato ucciso e un altro traduttore e un editore sono sopravvissuti a un attentato, e invece no: nessunissima protezione. Come mai? Seconda domanda: l’attentatore, prima di essere fermato, ha avuto il tempo di infliggergli 15 coltellate, di cui alcune profonde, al punto di raggiungere, a quanto pare, il fegato: come mai così tanto tempo?

Le risposte bizzarre che ho trovato in un sito che non voglio nominare, sono che l’attentato sarebbe in relazione all’accordo con l’Iran sul nucleare che Obama era riuscito a concludere e che il malefico Trump aveva poi “stracciato”: adesso l’accordo era finalmente di nuovo in dirittura d’arrivo e allora qualcuno che non lo voleva avrebbe ordito l’attentato a Rushdie in modo da far ricadere la colpa sull’Iran e quindi aumentare l’odio anti iraniano e rendere impossibile a Biden approvare l’accordo. Cioè Rushdie sarebbe la vittima sacrificale di un affaire tutto interno al partito repubblicano degli Stati Uniti. Ipotesi piuttosto azzardata, di sapore discretamente complottista, ma che potrebbe anche rispondere alle domande sulla mancata sorveglianza – un po’ meno forse sul tempo eccessivo per fermare l’attentatore, dato che dubito che questo possa essere organizzato dall’alto. A screditare però almeno in parte l’articolo in questione sono alcune imprecisioni piuttosto gravi: innanzitutto la considerazione che il ragazzo è troppo giovane per sapere che la fatwa è stata annullata: primo, non solo non è vero che è stata annullata ma, al contrario, è stata ripetutamente confermata (qui diversi dettagli), secondo, se è troppo giovane per sapere che nel 1998 sarebbe stata annullata, tanto più dovrebbe essere troppo giovane per sapere che era stata pronunciata nove anni prima.
Decisamente controcorrente poi i mass media secondo cui sarebbe sconosciuto il movente dell’aggressione (come suggerisce l’amico myollnir, forse gli aveva rigato la fiancata dell’auto) e che presentano l’aggressore come un ragazzo del New Jersey senza altre precisazioni, ossia senza che niente rimandi all’Iran. E concludo con l’ennesima domanda: avremo mai delle risposte vere a tutte queste incongruenze?
A noi, non resta che augurare a Rushdie di farcela, se non altro per ricacciare in gola alle autorità iraniane i canti di gioia per il riuscito compimento della fatwa, documentati nell’articolo sopra linkato.

barbara

APPELLO

Faccio mio l’accorato appello di Giulio Meotti, nella speranza che venga condiviso e diffuso il più possibile.

L’Italia chieda all’Onu di creare la “Giornata internazionale contro la cristianofobia”

50 morti in una chiesa in Nigeria. Ho così deciso di lanciare una petizione a Mattarella, Draghi e Di Maio affinché portino alle Nazioni Unite il riconoscimento della persecuzione anticristiana

Dopo una nuova strage di cristiani in Nigeria (50 morti), oggi ho lanciato una petizione alle autorità italiane affinché portino alle Nazioni Unite la richiesta di riconoscimento della persecuzione anticristiana.


Al presidente della Repubblica Sergio Mattarella,

Al presidente del Consiglio Mario Draghi,

Al ministro degli Esteri Luigi Di Maio,

oggi in Nigeria decine di cristiani sono stati assassinati in un attacco a una chiesa durante la messa domenicale. Alcuni giorni prima, l’Isis aveva ucciso un gruppo di cristiani dopo averli fatti inginocchiare come in un ormai noto macabro rituale del sangue. Poi una ragazza cristiana, Deborah Samuel, è stata lapidata e il suo corpo dato alle fiamme per l’accusa di “blasfemia”. Ogni giorno nel più grande paese d’Africa si registra, infatti, una strage di cristiani in una media di 13 ogni giorno. 

Il 15 marzo, dopo la strage nelle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda, l’Onu ha istituito la “Giornata internazionale per combattere l’islamofobia”. Non possiamo accettare – come cristiani, come laici e come uomini liberi – che il massacro quotidiano di cristiani in quanto cristiani, la distruzione delle loro chiese, scuole e comunità in odium fidei, non sia riconosciuto come un crimine specifico dalla comunità internazionale. 

Consideriamo soltanto alcuni attacchi alle chiese:

Sri Lanka (21 aprile 2019): domenica di Pasqua, terroristi attaccano tre chiese e hotel; 359 persone sono uccise e più di 500 ferite.

Nigeria (20 aprile 2014): domenica di Pasqua, terroristi danno alle fiamme una chiesa gremita, 150 morti.

Pakistan (27 marzo 2016): dopo le funzioni religiose della domenica di Pasqua, terroristi colpiscono un parco dove si erano ritrovati i cristiani; più di 70 morti, per lo più donne e bambini. 

Iraq (31 ottobre 2011): terroristi assaltano una chiesa a Baghdad durante il culto. 60 cristiani, tra cui donne, bambini e neonati, sono uccisi.

Nigeria (8 aprile 2012): domenica di Pasqua, bombe contro due chiese gremite; più di 50 cristiani uccisi.

Egitto (9 aprile 2017): domenica delle Palme, attacco a due chiese gremite; 45 morti.

Nigeria (25 dicembre 2011): durante le funzioni di Natale, terroristi sparano  contro tre chiese; 37 morti. 

Egitto (11 dicembre 2016): un attentato suicida in due chiese provoca la morte di 29 cristiani.

Indonesia (13 maggio 2018): attacco a tre chiese; 13 morti.

Egitto (1 gennaio 2011): terroristi colpiscono una chiesa ad Alessandria durante la messa di Capodanno; 21 cristiani uccisi. 

Filippine (27 gennaio 2019): terroristi attaccano una cattedrale; 20 morti.

Indonesia (24 dicembre 2000): durante la vigilia di Natale, terroristi sparano a diverse chiese; 18 morti.

Pakistan (15 marzo 2015): attentatori suicidi uccidono 14 cristiani in attacchi a due chiese.

Egitto (29 dicembre 2017): uomini armati musulmani sparano a una chiesa al Cairo; 9 morti.

Egitto (6 gennaio 2010): dopo la messa del Natale ortodosso, 6 cristiani sono uccisi mentre uscivano dalla chiesa.

Russia (18 febbraio 2018): attacco a una chiesa, 5 morti. 

Francia (26 luglio 2016): attacco dell’Isis a una chiesa, dove viene ucciso il sacerdote Jacques Hamel.

Soltanto in Nigeria parliamo di 60.000 cristiani uccisi tra il 2009 e il 2021,  17.500 chiese e 2.000 scuole cristiane distrutte. Numerose ong sono arrivate a denunciare apertamente un “genocidio” dei cristiani. 

Se un solo orrendo attacco a una moschea, che ha causato la morte di 51 musulmani, è stato sufficiente perché le Nazioni Unite istituissero una “giornata internazionale per combattere l’islamofobia”, perché così tanti attacchi alle chiese, che hanno spezzato migliaia di vite cristiane, non sono bastate all’Onu per istituire una “Giornata internazionale per combattere la cristianofobia”?

Le autorità italiane devono subito farsi carico alle Nazioni Uniti di riconoscere la “Giornata internazionale per combattere la cristianofobia”. Per combattere un crimine, devi prima dargli un nome. 

Ne va del nostro onore come cristiani, come laici e come uomini liberi. Ne va dell’Occidente, della sua civiltà e delle sue libertà. 

Giulio Meotti 

https://www.change.org/p/l-italia-chieda-all-onu-la-giornata-internazionale-contro-la-cristianofobia

Io il mio dovere l’ho fatto: adesso tocca a voi. Anche se, devo dire, le “giornate mondiali” non mi entusiasmano per niente e le abolirei volentieri tutte dalla prima all’ultima; d’altra parte se c’è una cosa oscena come la giornata contro l’islamofobia, ossia contro la sana diffidenza nei confronti di una religione che ordina di uccidere gli infedeli e che di fatto li uccide indiscriminatamente – ed è l’unica, da quasi quattrocento anni, che uccide per motivi religiosi – ossia di qualcuno che tutto è tranne che vittima, mi sembra giusto che almeno abbia qualcosa di analogo anche chi è vittima davvero.

barbara

TROVA LA PAROLA MANCANTE

La Svezia, la violenza delle gang e una neo premier

di Judith Bergman
6 gennaio 2022

Pezzo in lingua originale inglese: Sweden, Gang Violence and a New Prime Minister
Traduzioni di Angelita La Spada

La Svezia è un Paese fantastico, ma stiamo affrontando una serie di gravi problemi”, ha detto la Andersson . “Ho intenzione di sollevare ogni pietra per porre fine all’emarginazione e respingere il crimine violento che sta affliggendo la Svezia…”.
La Svezia sta affrontando molto più di un “grave problema”. Per anni, il Paese ha stabilito nuovi record penali, rifiutandosi di parlare apertamente del legame esistente tra migrazione e violenza delle gang. Questa reticenza può derivare da una combinazione di correttezza politica e paura da parte della Svezia di non riuscire a realizzare la propria dichiarata ambizione di essere la “superpotenza umanitaria” del mondo. Già nel 2019, il leader del partito di opposizione Moderaterna, Ulf Kristersson, aveva definito la situazione “estrema per un Paese che non è in guerra”.
Per molti anni, qualsiasi discussione pubblica sulle connessioni esistenti fra la migrazione e l’aumento dei livelli di criminalità e di violenza delle bande è stata considerata un tabù. La pubblicazione di statistiche sull’argomento si è interrotta bruscamente dopo che il Consiglio nazionale svedese per la prevenzione della criminalità ( Brå ) le aveva pubblicate due volte, nel 1996 e nel 2005. Nel 2017, l’allora ministro della Giustizia Morgan Johansson si è opposto alla pubblicazione di statistiche sull’origine etnica dei criminali in Svezia, affermando che erano irrilevanti. La maggioranza dei membri del Parlamento ha sostenuto la sua opinione. La ricerca condotta privatamente sull’argomento è stata semplicemente ignorata. Tuttavia, man mano che le sparatorie sono diventate la norma quotidiana e sempre più passanti innocenti venivano mutilati e uccisi, il tabù è gradualmente diventato un argomento di discussione.
“Oggi non è più un segreto che gran parte del problema delle gang e della criminalità organizzata con le sparatorie e le esplosioni sia legato all’immigrazione in Svezia degli ultimi decenni”, ha scritto il capo della polizia di Göteborg, Erik Nord, in un editoriale pubblicato a maggio.
“Quando, come me, si ha l’opportunità di seguire le cose a livello individuale, ci si accorge che in linea di principio chiunque spari o venga fucilato nei conflitti tra bande proviene dai Balcani, dal Medio Oriente, dall’Africa settentrionale o orientale”.
Ad agosto, in un voltafaccia assoluto che riflette fino a che punto sono cambiate le opinioni in Svezia dal 2017, Brå, per la prima volta in 16 anni, ha pubblicato un nuovo rapporto contenente le statistiche sull’origine etnica dei criminali schedati, scrivendo:
“La distribuzione dei reati registrati tra persone di origine autoctona e non è spesso argomento di discussione. Il Consiglio nazionale svedese per la prevenzione della criminalità ( Brå) ha già pubblicato due studi di ricerca su questo tema, ma sono trascorsi diversi anni dalla pubblicazione dello studio più recente (nel 2005), che si è concentrato sulla criminalità registrata nel periodo che va dal 1997 al 2001. Dal 2001, l’immigrazione in Svezia è aumentata e la composizione della popolazione non nativa è cambiata. L’attuale studio è stato avviato riguardo a questo background, con l’obiettivo di aggiornare e migliorare la base di conoscenza sulla criminalità tra persone di origine autoctona e non”.
Il rapporto ha affermato:
“Il rischio di essere schedati come delinquenti è maggiore tra le persone nate in Svezia da due genitori non autoctoni, seguite da persone nate all’estero. (…) Il rischio di essere segnalati come sospettati di reato è 2,5 volte più alto tra le persone nate all’estero rispetto alle persone nate in Svezia da due genitori autoctoni. Per le persone nate in Svezia da due genitori non nativi, il rischio è poco più di 3 volte più alto”.
La Svezia registra il più alto numero di sparatorie mortali per milione di abitanti in Europa, secondo uno studio comparativo sulle sparatorie in Europa, pubblicato a maggio dal Brå. La Svezia, inoltre, è l’unico Paese in Europa in cui le sparatorie letali sono aumentate dal 2005. Nel 2020, 47 persone sono state uccise e 117 ferite in 366 sparatorie. Per l’anno 2021 fino a novembre, sono già state uccise 42 persone e hanno avuto luogo 290 sparatorie. Secondo il Brå:
“Il livello di omicidi con armi da fuoco in Svezia è molto alto rispetto ad altri Paesi europei, con circa 4 morti per milione di abitanti all’anno. La media per l’Europa è di circa 1,6 morti per milione di abitanti. Nessuno degli altri Paesi inclusi nello studio ha registrato aumenti paragonabili a quelli osservati in Svezia. Piuttosto, nella maggior parte di questi Paesi, sono state rilevate diminuzioni continue sia nei tassi di omicidi totali sia nei tassi di omicidi con armi da fuoco”.
Nel 2019, la polizia ha previsto che il problema continuerà negli anni a venire. “Pensiamo che queste [sparatorie e questa violenza estrema] potrebbero continuare per cinque-dieci anni nelle aree particolarmente vulnerabili”, ha dichiarato nel 2019 il capo della polizia Anders Thornberg. “Le droghe hanno attecchito nella società e la gente comune le compra. C’è un mercato per cui le gang continueranno a battersi”.
“La ricerca mostra”, secondo il rapporto del Brå, “che in Svezia l’aumento della violenza letale con armi da fuoco è fortemente associato ad ambienti criminali nelle aree vulnerabili”.
La polizia svedese è giunta alla stessa conclusione: “Le aree vulnerabili sono un centro per la criminalità organizzata””, ha scritto di recente la polizia svedese . “I criminali delle aree vulnerabili sono esportatori di criminalità in altre parti del Paese”.
La polizia svedese definisce le “aree vulnerabili” come “aree geograficamente limitate che sono caratterizzate da un basso status socio-economico e dove i criminali hanno un impatto sulla comunità locale”.
Secondo l’ultimo rapporto sulle aree vulnerabili, pubblicato il 3 dicembre dalla polizia svedese, ci sono 61 enclave di questo tipo. Alcune di queste aree, secondo la polizia svedese, sono classificate come “aree particolarmente vulnerabili” che presentano livelli di problemi ancora più elevati. Tali problemi sono caratterizzati da “minacce sistematiche e atti di violenza” soprattutto contro testimoni di crimini, da condizioni di lavoro che sono quasi impossibili per la polizia, e da “strutture sociali parallele, dall’estremismo, come le violazioni sistematiche della libertà religiosa o da una forte influenza fondamentalista che limita i diritti umani e la libertà, da persone che viaggiano per prendere parte a combattimenti in aree di conflitto, [e] da un’alta concentrazione di criminali”.
In Svezia, che conta circa 10 milioni di abitanti, 556.000 persone vivono nelle 61 aree vulnerabili, pari al 5,4 per cento della popolazione svedese, secondo il rapporto “Fatti per il cambiamento – un report sulle 61 aree vulnerabili della Svezia”. Tre abitanti su quattro delle aree vulnerabili hanno origini straniere; i Paesi di nascita più comuni sono Siria, Turchia, Somalia, Polonia e Iraq. Secondo il report, il numero di abitanti di origine straniera che vivono in un’area vulnerabile varia. In cinque di queste aree vulnerabili, la proporzione di residenti di origine straniera è pari o superiore al 90 per cento: Rosengård a Malmö, Hovsjö a Södertälje, Fittja a Botkyrka, Rinkeby/Tensta a Stoccolma e Hjällbo a Göteborg. In Svezia, ci sono circa 2,5 milioni di persone di origine straniera; il 16,2 per cento di loro, secondo il rapporto, vive in aree vulnerabili. In un recente comunicato stampa, la polizia svedese ha scritto:
“La principale ragione alla base dell’ondata di sparatorie ed esplosioni è la situazione che prevale nelle aree vulnerabili, dove i residenti si sentono minacciati dai criminali, dove esiste un traffico di stupefacenti e dove i criminali in alcuni luoghi hanno creato strutture sociali parallele”.
La neo premier svedese ha annunciato di essere finalmente pronta a imporre sanzioni più severe per scoraggiare le gang.
“Saranno imposte sanzioni ancora più pesanti per i reati legati alle bande”, ha annunciato la Anderson il 30 novembre, nella sua prima dichiarazione sulla politica del governo.
“Non dovrebbe essere possibile minacciare i testimoni di tacere, ma dovrebbero ricevere il sostegno di cui hanno bisogno per adempiere in sicurezza al loro dovere. Sarà più facile trattenere le persone sospettate di reati gravi. (…) Chi commette più reati dovrebbe essere punito più severamente. Le pene ridotte per i giovani di età compresa fra i 18 e i 20 anni che commettono reati gravi saranno abolite. Le sanzioni dovrebbero riflettere meglio la gravità dei reati, anche quando gli autori sono giovani”.
La riduzione delle pene per i giovani ha rappresentato un grave ostacolo ad affrontare i problemi, perché i giovani sono tra i principali motori della violenza di gruppo, che ora include anche i minori.
In sei delle sette regioni di polizia, le gang utilizzano i bambini di 12 anni per svolgere le loro attività criminali, tra cui la vendita di droga e il trasporto di armi. Secondo quanto riferito dalla polizia, a Stoccolma e a Göteborg centinaia di minori sono coinvolti in atti criminali per conto delle bande. Secondo i capi dell’intelligence svedese, il reclutamento di bambini è aumentato negli ultimi anni e, stando ad alcuni esperti, le bande criminali ora reclutano bambini di appena otto anni.
Ad agosto, la polizia ha arrestato tre adolescenti, di circa 15 anni, per aver sparato e ferito gravemente due uomini e una donna di 60 anni, che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato, nella città di Kristianstad. “Purtroppo questa situazione è diventata una routine”, ha affermato una donna che lavora nell’area. “Se ci sono state sparatorie durante la notte, di solito ce ne sono di più il giorno successivo. (…) Ci si deve preoccupare di intromettersi”.

Judith Bergman è avvocato, editorialista e analista politica. È Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute. (Qui)

Sì, lo so, è molto molto molto difficile trovarla…

barbara

SE QUESTO È UN GIUDICE

La vicenda, allucinante, credo sia ormai nota a tutti.

Islam e violenza: l’incredibile decisione del pm di Perugia

IL CASO Se un marito violento picchia la moglie, se la sequestra in casa, le impedisce di uscire anche per lavorare, la sottomette psicologicamente e arriva pure a privarla dei documenti d’identità, rischia una denuncia o il carcere. Se però quel marito è di fede musulmana, allora i reati passano in secondo piano: perché queste condotte rientrano “nel quadro culturale dei soggetti interessati”. A sostenere il principio non è un tribunale islamico, ma un magistrato italiano. Un pubblico ministero di Perugia: lo stesso che ha firmato la richiesta di archiviazione del fascicolo a carico di Abdelilah El Ghoufairi, 39 anni, marocchino e marito della connazionale Salsabila Mouhib, di 33 anni. Dopo anni di vessazioni subìte tra le mura domestiche la donna aveva trovato forza e coraggio di denunciare tutto alla polizia. Ma lunedì scorso il sostituto procuratore Franco Bettini ha firmato una richiesta di archiviazione al gip affermando che «il rapporto di coppia è stato influenzato da forti influenze religiose-culturali alla quale la donna non sembra avere la forza o la volontà di ribellarsi». [Quindi la denuncia nei confronti del marito con annessa fuga da casa non è da considerare una ribellione attestante il fatto che la moglie non era tanto d’accordo col comportamento del marito? Cioè, concretamente, che cosa avrebbe dovuto fare perché Sua Altezza Reale il Signor Giudice Franco Bettini vi configurasse una ribellione? Prenderlo a martellate in testa durante il sonno? Mettergli il veleno per i topi nella minestra? E in questo caso le avrebbe imputato ottomila aggravanti perché ribellarsi al marito è contrario alla loro cultura?]

LA MOTIVAZIONE Una decisione, quella del magistrato inquirente, che ora è destinata a far discutere. Soprattutto alla luce di un passaggio della richiesta di archiviazione stessa, nella quale si legge testualmente: «Le evidenze emerse a seguito delle attività d’indagine non consentono di ritenere configurabile o sostenibile in termini probatori il reato rubricato (maltrattamenti in famiglia, ndr). Dalle dichiarazioni rese, la donna non sarebbe mai stata minacciata di morte, [quindi se io minacciassi il giudice soltanto di fargli saltare tutti i denti non sarei imputabile, giusto?] né avrebbe subìto aggressioni fisiche tali da costringerla alle cure sanitarie». [Interessante criterio per valutare la gravità delle aggressioni fisiche] Poi, la considerazione finale: «La condotta di costringerla a tenere il velo integrale rientra, pur non condivisibile in ottica occidentale, nel quadro culturale dei soggetti interessati». [A me sembrerebbe che uno dei “soggetti interessati” non sia molto d’accordo con le elucubrazioni del Signor Giudice]

LE INDAGINI E dire che prima di arrivare a questa determinazione la vittima degli abusi psicologici e fisici aveva trovato il coraggio di ribellarsi a quel marito-padrone presentandosi al commissariato per denunciare presunte condotte illecite. Accuse ribadite anche a Napoli, dove Salsabila è fuggita trovando rifugio ed ospitalità presso una casa-famiglia, sempre alla Polizia di Stato. Dal suo racconto emerge l’inferno vissuto per oltre cinque anni da lei e dai due figli nella convivenza con il marito, quando vivevano a Tuoro sul Trasimeno, in Umbria. «Da quando siamo arrivati in Italia – ha dichiarato in una nuova denuncia presentata a Napoli, dove è assistita dall’avvocato Gennaro De Falco – oltre ad impormi il velo integrale, quando usciva mio marito mi chiudeva in casa portando con sé le chiavi. Potevo uscire solo se mi sentivo male, per andare in ospedale. Solo in un’occasione mi ha aggredito fisicamente, colpendomi al volto con uno schiaffo. Fu poche ore dopo aver partorito mia figlia, appena rientrata dall’ospedale: pretese alle 4,30 del mattino che gli preparassi la colazione; non lo feci e lui mi diede uno schiaffone, in seguito al quale io svenni».

LE VESSAZIONI Una vita impossibile. E nelle condotte denunciate dalla vittima ci sarebbero dunque anche altri reati: lesioni, violenza privata, sequestro di persona. «Lui non mi ha mai minacciata di morte», ha ammesso la marocchina rispondendo alle domande degli investigatori, aggiungendo però che le pressioni psicologiche erano come morire lentamente ogni giorno. E c’è anche un altro particolare inquietante: il marito ha sequestrato sia i documenti della donna che dei suoi figli. Marito e padre padrone: per capire chi è Abdelilah El Ghoufairi bisogna anche spiegare che l’uomo con un tranello indusse la 33enne a seguirlo in Marocco, dove ottenne il divorzio nel 2020, accollandosi il mantenimento della famiglia senza però mai aver corrisposto gli alimenti dovuti per legge. Ora l’avvocato De Falco ha presentato ricorso contro la richiesta di archiviazione. «Ovviamente – dichiara al Mattino – sono molto fiducioso che il gip ribalti la decisione del pm. Le donne straniere devono avere gli stessi diritti e le stesse tutele di cui godono quelle italiane, al di là delle convinzioni religiose dei loro mariti. Questa storia impone il riconoscimento di diritti e libertà sanciti dalla Costituzione italiana. E gli stranieri che vengono a vivere qui devono imparare a rispettare le leggi ed i princìpi».
Giuseppe Crimaldi, qui.

Il tema è stato ripreso anche da Nicola Porro, e nella discussione fra  i lettori è intercorso questo interessante scambio.

Paolo Zanardo
Le donne islamiche sono tra le più belle al mondo. La loro cultura esalta la femminilità, anche con un burka. La loro vita é dedicata alla famiglia e al piacere del marito sotto tutti i punti di vista. In cambio, il marito si impegna a non farle mai mancare nulla.

barbara
Vero: non le fa mancare le botte, non le fa mancare la clausura, non le fa mancare le umiliazioni, non le fa mancare gli stupri, non le fa mancare la cancellazione della propria identità, non le fa mancare l’imposizione della volontà maritale, non le fa mancare l’aggiunta di una seconda, terza, quarta moglie, ovviamente più giovani di lei che la relegano al ruolo di straccio per pavimenti… Niente le fa mancare.

Paolo Zanardo
Signora Barbara, le consiglio di evitare i luoghi comuni. Non facciamo confusione tra tradizione e religione. La clausura esiste solo nella nostra società religiosa. La donna islamica è libera di andare dove vuole purché accompagnata dal marito, un parente, oppure una persona di fiducia. Le umiliazioni esistono solo nella nostra società. Nell islam, la donna è considerata sacra perché portatrice di vita e in quanto tale rispettata è protetta. Tuttavia essa deve essere conforme alla vergine Maria, per questo deve prediligere vesti e veli in cui identificarsi. L’imposizione maritale non esiste. Esistono diritti e doveri da ambo le parti. Nel Corano si parla anche del divorzio nel caso vengano meno. La poligamia è praticata, ma la prima moglie decide chi, quando e se necessario. Ella ad ogni modo, essendo la prima moglie, avrà diritto sempre di ultima parola sulle altre che dovranno sempre rispettare ed accudirla in ogni sua necessità. L’infibulazione è vietata nel Corano. Tuttavia per alcuni, soprattutto nelle culture tribali africane viene praticata e nei racconti del profeta vengono descritti. Il problema è che alcuni, interpretano come legge anche i racconti del profeta. Tale pratica è di origine egizia.
La religione cattolica e le politiche occidentali non sono esenti cmq da violenze sulle donne, in nome del Altissimo ne abbiamo bruciate un bel po’. Come in ogni cultura e religione (tutte) il problema resta puramente interpretativo di alcuni nella applicazione delle leggi e delle sacre scritture. Le consiglio di evitare i giornali e TV, dove viene alterata la realtà e verità e di informarsi bene prima di emettere sentenze.

Cullà
Ha ragione. Sicuramente le lapidazioni di adultere, gli stupri coniugali sanciti per legge e le punizioni corporali sono fantasie.
Vorrei sentirla spiegare in che modo non poter uscire di casa senza un carceriere al seguito e senza il permesso di un’altra persona non sia clausura ma libertà di movimento. Prego, mi piace il rumore delle unghie sui vetri.

barbara
Io nel mondo islamico ho vissuto e lavorato per un anno. Lei? Non c’è bisogno che risponda: ha già più che a sufficienza risposto il suo commento. Oltre a dimostrare senza la minima ombra di dubbio che il corano non l’ha neanche mai aperto.

Paolo Zanardo
13 anni.

barbara
E in 13 anni è riuscito a non vedere niente?! Più o meno come quell’inviato della Croce Rossa che è riuscito a visitare Auschwitz senza vedere le camere a gas, senza vedere i forni crematori, senza vedere gli scheletri ambulanti, senza sentire la puzza di tonnellate di carne umana bruciata… Identico. Invece di sparare cifre a vanvera, avrebbe fatto molto migliore figura ad ammettere che non ha neanche mai visto un musulmano da vicino.

Paolo Zanardo
Un po’ di confusione signora. Faccia un po’ d’ordine.

Chiara M
“Un po’ di confusione signora”
Sessismo?
Quando non si sa più cosa dire?

barbara
Vede, caro, se lei non fosse così ricco di ignoranza saprebbe, per esempio, che nell’islam la donna non può chiedere il divorzio, e che quello dell’uomo non è esattamente quello che noi chiamiamo divorzio, bensì un puro e semplice ripudio: pronuncia per tre volte la formula “io ti ripudio, io ti ripudio, io ti ripudio” e la moglie, ormai ex, deve immediatamente lasciare la casa con nient’altro che quello che ha addosso. Saprebbe che la vergine Maria vestiva esattamente come vestivano tutte le donne duemila anni fa e che da allora sono passati, per l’appunto, duemila anni. Saprebbe che il Corano, lungi dal condannare le mutilazioni genitali, si limita a invitare a non andarci troppo pesante – e poche cose al mondo sono soggettive e interpretabili quanto il concetto di “troppo”. Saprebbe – evitando così di sbeffeggiare quelli che “confondono Corano e Sharia” – che la Sharia è rigorosamente basata su Corano e Hadith, e non a caso nell’islam è considerata giusta per il matrimonio delle “donne” l’età di nove anni, quella in cui il noto pedofilo ha stuprato la moglie Aisha, sposata quando lei aveva sei anni e lui cinquanta. E magari si chiederebbe a quale tribunale si dovrebbe rivolgere una moglie per denunciare il marito che viene meno ai propri doveri, dal momento che in tribunale la sua testimonianza vale la metà di quella di un uomo – tanto perché sia chiaro quanto è sacra la donna nell’islam. E saprebbe che nella guerra alla stregoneria sono stati bruciati streghe e stregoni, e che si è smesso un bel po’ di secoli fa: quanto tempo è passato dall’ultima lapidazione nel mondo islamico? E saprebbe che nell’islam non esiste alcun problema interpretativo, dato che il Corano è considerato “increato”, ossia l’equivalente di Allah, e pretendere di interpretare Allah è pura eresia, ossia crimine da punire con la pena capitale.
Molto carina, infine, l’idea che le caratteristiche fisiche delle persone dipendano dalla religione (“le donne islamiche sono tra le più belle al mondo”): e mi dica, se una cozza si converte all’islam diventa automaticamente una seconda Rita Hayworth?

PS: sarebbe interessante, dato che oltre che esperto di islam si dichiara anche buddista, vedere un confronto fra lei e un buddista vero in tema di buddismo.

Quest’ultimo commento però nel sito non lo potete leggere perché è finito, chissà perché, in moderazione, e da ore se ne sta lì, invisibile al pubblico. Fra i commentatori poi è comparso anche un italiano convertito all’islam, e una volta di più si constata che quando uno si converte la prima cosa che impara è, a quanto pare, il frignamento  sull’islamofobia.  E mentre il governo sembra stia meditando di rinchiuderci un’altra volta perché se uno va a fare il sub a trecento metri dalla riva rischia di scatenare un nuovo focolaio e mandare in tilt l’intero sistema sanitario italiano, questi qua continua a lasciarli sbarcare a centinaia e a migliaia.

barbara

IL PRESTIGIOSO PREMIO NOBEL

Quello che per la letteratura viene dato a Dario Fo e a Bob Dylan (e io ci metterei anche Quasimodo, che come “poeta” per me sta allo stesso livello di quei due, se non al di sotto). Quello che per la pace viene dato a una signora africana che ha piantato degli alberi (sic!) e che sostiene a spada tratta le mutilazioni genitali femminili. E a Barack Hussein Obama – preventivamente, cosa che non sta né in cielo né in terra, cioè praticamente glielo hanno dato perché è negro, altre spiegazioni non si trovano – il peggior nemico della pace mondiale dopo Hitler, che ha leccato il culo a tutti i peggiori fondamentalisti islamici e voltato il proprio, di culo, a tutti i più sinceri amici, che ha lasciato affondare e massacrare gli studenti dell’Onda Verde in Iran, al quale Iran ha regalato su un piatto d’argento la bomba atomica finalizzata a cancellare Israele dalla faccia della terra, che ha fatto scatenare le cosiddette primavere arabe con un bilancio, molto provvisorio, di molte centinaia di migliaia di morti. Eccetera. E al terrorista Arafat. E all’Onu, per le cui nefandezze non basterebbe un libro delle dimensioni di Guerra e pace, e, in particolare, nella persona di Kofi Annan. Ecco, quel premio Nobel lì. A chi sarà mai andato quest’anno quello per la letteratura?

Nobel a Gurnah contro il colonialismo. Quello europeo, non quello arabo

Il premio Nobel per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah. Nelle motivazioni c’è la sua “intransigente e compassionevole analisi” degli effetti del colonialismo. Di quale colonialismo si parla? Di quello europeo. Eppure il colonialismo arabo a Zanzibar, in 13 secoli, deportò 12 milioni di schiavi. 

Il premio Nobel 2021 per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah, residente dal 1967 in Gran Bretagna dove ha insegnato inglese e letterature post coloniali presso l’università del Kent fino alla pensione. Gurnah è autore di dieci romanzi e di diversi racconti e saggi. I suoi personaggi, spiega la fondazione Nobel “si trovano in uno iato tra culture e continenti, tra una vita che era e una vita emergente” con il merito di “rifuggire dalle descrizioni stereotipate” e di “aprire il nostro sguardo su un’Africa orientale culturalmente diversificata, sconosciuta a molti in altre parti del mondo”.

La fondazione Nobel ha ragione. Le coste e le isole dell’Africa orientale sono state nei secoli uno straordinario luogo di incontro di etnie, culture e religioni. In quelle del Kenya e del Tanzania è nata e si è sviluppata la società swahili, urbana, una delle poche realtà africane proiettate verso l’esterno, con regolari rapporti commerciali lungo l’Oceano Indiano, fino in Cina, già a partire dall’VIII Secolo, con una lingua antica come quella italiana. Che sia un “melting pot”, un crogiuolo di culture ed etnie, come sostengono alcuni antropologi è opinabile. L’evidenza, lì come in altri contesti, è piuttosto di una supremazia della componente più forte: in questo caso, imposta dalla popolazione arabo-islamica – i Waswahili – e subita dalle tribù bantu originarie e da ogni altra componente via via aggiuntasi, almeno finché la regione non è stata colonizzata da Gran Bretagna e Germania alla fine del XIX Secolo.

Abdulrazak Gurnah è nato nel 1948 a Zanzibar, l’isola da cui per secoli gli arabi, la cui colonizzazione del continente africano è iniziata subito dopo la morte di Maometto nel 632, hanno controllato le coste africane e gestito il commercio sia con l’interno del continente sia con i Paesi asiatici. Gli schiavi erano una delle merci: uomini, donne e bambini comprati o catturati, più di dodici milioni di persone nell’arco di 13 secoli. La tratta degli schiavi è stata proibita sulla costa swahili dalla Gran Bretagna all’inizio del XX Secolo, ma il risentimento, il desiderio di rivalsa delle popolazioni bantù è rimasto vivo. Non si spiega diversamente la feroce rivolta delle popolazioni bantu di Zanzibar che nel 1964, istigate da due partiti di ispirazione comunista (Che Guevara all’epoca si stava illudendo di fare dell’Africa il centro da cui iniziare la rivoluzione comunista mondiale), hanno ucciso da 5mila a 12mila Waswahili su un totale di 22mila. Abdulrazak Gurnah e i suoi famigliari sono tra i sopravvissuti che hanno lasciato l’isola non appena hanno potuto, finendo per ottenere asilo in Gran Bretagna.

Il protagonista di Paradise, il romanzo che lo ha fatto conoscere al grande pubblico anglofono nel 1994, è un ragazzino venduto dal padre per pagare un debito. Descrive  una situazione comune un tempo. Di solito erano le famiglie bantu dell’entroterra swahili a vendere i figli, preferibilmente le femmine, in caso di necessità. Oppure, durante una carestia, scambiavano un figlio con del mais che ai Waswahili della costa non mancava mai. Forse è questo mondo che Gurnah racconta nei suoi libri, insieme alla sua personale esperienza di profugo. La fondazione del Nobel ha deciso di conferirgli il premio “per la sua intransigente e compassionevole analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti”.

Ma quando, riferendosi all’Africa, si dice “colonialismo”, senza specificare, si intende sempre unicamente il colonialismo europeo, non altri, di cui si dimentica o si rifiuta di ammettere l’esistenza. Forse quindi alla fondazione Nobel, di Gurnah, è piaciuto che nei suoi libri descriva i traumi culturali e sociali prodotti dall’impatto con la società occidentale, non quelli patiti a causa della colonizzazione arabo-islamica che pure tante sofferenze ha inflitto e continua a infliggere in Africa, dove l’intolleranza islamica, combinata con il tribalismo, fa vittime e danni anche quando non assume i caratteri estremi del jihad. 

Quanto ai rifugiati e al loro destino, l’ammirazione per l’analisi “intransigente e compassionevole” contenuta nei libri di Gurnah sarebbe condivisibile se non fosse che, come ormai fanno in tanti, lui confonde rifugiati ed emigranti illegali. “L’Europa dovrebbe accogliere gli emigranti con compassione invece che fermarli con il filo spinato – ha detto all’agenzia di stampa Reuters che lo ha intervistato il giorno in cui ha vinto il Nobel – e attualmente il governo britannico si comporta in modo davvero molto brutto con i richiedenti asilo e con chi chiede di entrare nel paese”. Non è che Gurnah non capisca la differenza. Come tutti i sostenitori dei “porti aperti”, delle frontiere aperte la conosce e semplicemente non la accetta. “Sembra così sorprendente al governo britannico – dice – che della gente che arriva da luoghi difficili voglia venire in un paese ricco? Perché si meraviglia tanto? Chi non vorrebbe venire in un paese più prospero? C’è della cattiveria nella sua risposta”.

E, seduto nel suo giardino di Canterbury, all’ombra di un acero – così lo descrive Reuters – parla in toni lirici dell’esperienza di emigrare, di lasciarsi alle spalle la famiglia e una parte della propria vita per vivere in una nuova società in cui si sentirà sempre in parte un estraneo. 

Anna Bono, qui.

Anna Bono è stata ricercatore in Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino fino al 2015. Dal 1984 al 1993 ha soggiornato a lungo in Africa svolgendo ricerche sul campo sulla costa swahili del Kenya. Dal 2004 al 2010 ha diretto il dipartimento Sviluppo Umano del Cespas, Centro europeo di studi su popolazione, ambiente e sviluppo. Fino al 2010 ha collaborato con il Ministero degli Affari Esteri nell’ambito del Forum Strategico diretto dal Consigliere del Ministro, Pia Luisa Bianco. Collabora con mass media prevalentemente di area cattolica.

Già, toccare i responsabili del peggiore schiavismo, in atto ininterrottamente da quasi un millennio e mezzo; del peggiore stragismo, in atto ininterrottamente da quasi un millennio e mezzo; del peggiore colonialismo, che in quasi un millennio e mezzo ha ormai invaso circa un quarto del pianeta

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e che, a differenza del colonialismo europeo da un pezzo morto e sepolto, sta continuando tuttora a espandersi guadagnando quartiere dopo quartiere tutte le nostre principali città e capitali – toccare quelli, dicevo, provare a pestare i calli a quei signori lì, richiede coraggio, che il Nostro evidentemente non ha. Molto più facile prendere a schiaffoni chi ti ha accolto, in fuga dalla rabbia di coloro che la tua etnia aveva oppresso e sfruttato colonialmente per secoli; molto più comodo sputare sul piatto che ti è stato offerto quando non avevi niente; molto più redditizio mordere la mano che ti ha nutrito senza chiedere niente in cambio. Com’era quel vecchio proverbio? Quando la merda monta in scranno, o fa puzza o fa danno. Soprattutto quando viene addirittura messa sul piedistallo dal Merdaio Supremo.

barbara

E ORA STATE A SENTIRE QUESTA

che è fenomenale.

La Nuova Zelanda, la strage di Christchurch e il paradosso dell’antirazzismo

Il film “They are us”, che esalta il sostegno di un paese intero alla comunità islamica dopo la strage del 2019, viene criticato dai musulmani: «I bianchi non possono parlare di noi»

Degli incredibili cortocircuiti della nouvelle vague dell’antirazzismo e del politicamente corretto, quello che ha affossato in Nuova Zelanda il progetto di film They are us è forse uno dei più eclatanti. La pellicola, annunciata settimana scorsa, doveva raccontare la strage di Christchurch del marzo 2019, nella quale morirono 51 musulmani per mano del terrorista islamofobo Brenton Harrison Tarrant. L’obiettivo del film, prodotto da FilmNation Entertainment, era quello di raccontare «non tanto l’attentato ma la risposta all’attentato», mostrando come «un atto di odio senza precedenti è stato sommerso da un’ondata di amore e di sostegno», aveva dichiarato il famoso regista neozelandese Andrew Niccol.

«Loro siamo noi»

Per questo, figura centrale del film doveva essere la premier Jacinda Ardern (impersonata da Rose Byrne), celebrata in tutto il mondo per la sua pronta risposta alla strage: condanna del suprematismo bianco, visite ai familiari delle vittime con tanto di hijab in segno di rispetto verso i musulmani, riforma sull’uso delle armi, oltre a un famoso discorso in Parlamento nel quale pronunciò anche la frase utilizzata per il titolo del film:

«Il 15 marzo è stato il giorno in cui un semplice atto di preghiera, di pratica del loro credo musulmano e della loro religione, ha portato alla perdita delle vite dei loro cari. Quei cari erano fratelli, sorelle, padri e bambini. Erano neozelandesi, sono noi. E poiché loro sono noi, noi, come nazione, li piangiamo. Sentiamo un forte obbligo nei loro confronti. E, signor presidente, abbiamo tanto bisogno di dire e di agire».

I «bianchi» devono solo tacere

Tutto si aspettavano gli autori del film tranne che ricevere una valanga di proteste da parte della comunità musulmana neozelandese. L’Associazione giovanile nazionale islamica della Nuova Zelanda ha infatti lanciato una petizione, al momento firmata da 67 mila persone, per chiedere che la pellicola non venga girata. Secondo i musulmani è inaccettabile che «il film si concentri su voci di persone bianche», reinterpretando nell’ottica dei bianchi «la violenza orribile perpetrata contro le comunità musulmane». Lo stesso regista Niccol è colpevole di «whitewashing»: «Un uomo bianco che non ha sperimentato su di sé il razzismo e l’islamofobia non dovrebbe condurre né ricavare profitti dal racconto di una storia che non è la sua». È anche «inappropriato che al centro del film ci sia la premier Jacinda Ardern, una donna bianca».
Insomma, non conta se Niccol è neozelandese, non conta se la tragedia ha toccato lui come tutti gli altri cittadini della Nuova Zelanda, non conta se la premier Ardern ha agito prontamente per onorare e difendere i musulmani, per ricordare che sono cittadini neozelandesi come tutti gli altri, che la differenza di credo non costituisce una linea di demarcazione e che non c’è alcuna divisione tra “noi” e “loro”, ma soltanto “noi”. Secondo i musulmani neozelandesi, la linea di demarcazione c’è: i bianchi parlino delle cose dei bianchi e i musulmani delle cose dei musulmani.

La Ardern sminuisce se stessa

La stessa premier, Ardern, si è affrettata a prendere le distanze dal film che la elogiava per il suo pronto intervento a difesa della comunità islamica con parole incredibili: «Ci sono molte storie sugli eventi del 15 marzo che potrebbero essere raccontate e non penso che la mia sia una di quelle».
Anche la produttrice del film, Philippa Campbell, ha abbandonato la produzione della pellicola: «Non voglio essere coinvolta in un progetto che provoca un tale disagio». Parole che stonano con il lancio del film, durante il quale la produzione aveva dichiarato, come confermato anche dalla petizione, di aver contattato molti musulmani della Nuova Zelanda per scrivere la sceneggiatura.

L’antirazzismo vuole dividere

They are us sarà sicuramente ritirato e difficilmente uscirà nelle sale, almeno nella forma in cui era stato progettato. Alla luce della piega che hanno preso gli eventi, fanno sorridere le parole pronunciate da Niccol il giorno della presentazione: «Il film riguarda la nostra comune umanità, è questo il motivo per cui penso che il film parlerà alle persone del mondo intero. È un esempio di come dovremmo rispondere quando c’è un attacco contro altri esseri umani come noi».
Questa visione, forse ingenua, non è aggiornata ai recenti sviluppi del movimento antirazzista, che ha preso le mosse dalle proteste di Black Lives Matter negli Stati Uniti. Non c’è più una «comune umanità», neanche tra persone legate dalla stessa cittadinanza all’interno dello stesso paese. Ci sono i bianchi, i neri, i musulmani, i cristiani. Tutti divisi, uniti soltanto da un rapporto di incomunicabilità reciproca. Tanto che un neozelandese bianco non può permettersi di occuparsi di una tragedia che ha coinvolto neozelandesi musulmani. Alle origini del movimento antirazzista, l’obiettivo era rivendicare la comune cittadinanza e umanità che rende tutti uguali al di là del colore della pelle. Oggi lo stesso movimento antirazzista persegue l’obiettivo opposto. E ai malcapitati di turno, colpevoli senza appello del più grave dei crimini, il “whitewashing”, non resta che cospargersi il capo di cenere. E scusarsi per aver cercato di unire ciò che a molti, anche con una notevole dose di autolesionismo, conviene che resti diviso.
Leone Grotti 16 giugno 2021, qui.

No scusate, datemi pure della cinica, ma a me viene da rotolarmi dalle risate: fratelli i nostri fratelli hanno ucciso i nostri fratelli siamo tutti fratelli, e quelli coosaaa?! Noi purissimi musulmani fratelli di voi pezzi di merda infedeli bianchi? È quello che succede quando ci si ostina a chiudere gli occhi di fronte alla realtà, e quando la realtà gli piomba addosso cosa fanno? Si scusano! Abbiamo sbagliato! Perdonateci! Non lo faremo mai più! Già tutto previsto, del resto (vedi anche il primo commento), non perché qui si abbiano doti profetiche, ma semplicemente perché io non tengo gli occhi chiusi, e quello che ho davanti lo vedo e lo guardo bene in faccia.
La prossima cosa invece mi scatena la voglia di prendere un bazooka. Sempre contro i buoni di professione, beninteso, i progressisti con la menzogna incorporata. Qualche giorno fa avevo letto che in Ungheria, dove regna il fascistissimo Viktor Orban, è stata approvata una legge ferocemente omofoba, e uno si chiede: cosa avrà mai combinato di nuovo il fellone? Froci in galera? Frustate sulla pubblica piazza? Castrazione cruenta senza anestesia? Bene, ha combinato quello che segue.

No a pedofilia e gender, ma i media attaccano l’Ungheria

Il Parlamento ungherese approva una rigorosa legge antipedofilia, con aggravi di pena per pedofili e autori di pornografia infantile. Un emendamento vieta l’indottrinamento Lgbt verso i minorenni e si scatena il finimondo, con articoli-fotocopia da parte del mainstream mediatico globale, dalla Reuters alla Bbc.

L’Ungheria approva una durissima legge antipedofilia, in un paragrafo si vieta indottrinamento gender e transgender sino ai 18 anni e scoppia un imbarazzante finimondo mediatico. Martedì 15 giugno, il Parlamento ungherese ha approvato con una maggioranza schiacciante, con un solo voto contrario (157-1), le nuove norme restrittive contro la pedofilia. Le minoranze, unite in una grande coalizione con l’obiettivo di sconfiggere Orban il prossimo anno, si sono spaccate alla prima prova parlamentare. Le forze democratiche di sinistra e liberali non hanno partecipato al voto, mentre i rappresentanti dell’estrema destra di Jobbik hanno votato a favore del provvedimento.

La maggioranza che guida l’Ungheria da più di un decennio, ne abbiamo parlato altre volte, negli ultimi anni ha moltiplicato le proprie misure per la famiglia e promosso norme che proteggono la natura biologica umana, la genitorialità, il diritto dei bambini di avere una mamma e un papà.

Lo scorso 4 giugno, il Governo Orban presentava in Parlamento la nuova proposta di legge per combattere la pedofilia, introducendo un registro pubblico dei criminali pedofili e incrementando le pene per i reati di pedofilia. Nel dibattito di quel giorno, non si parlava di divieti verso l’indottrinamento Lgbt, eppure già si doveva prendere atto della spaccatura delle opposizioni: Jobbik si diceva favorevole, le sinistre democratiche e liberali erano molto critiche. Le coincidenze sono importanti. L’8 giugno, inopinatamente, l’ex presidente degli Usa, Barack Obama, rilasciava un’intervista alla CNN che faceva il giro del mondo mediatico nei giorni successivi, nella quale si soffermava su Polonia e Ungheria, descrivendo il Governo Orban come un “esempio di distruzione della democrazia”. Il 9 giugno il Governo Orban presentava alcuni emendamenti alla legge antipedofilia, tra essi anche l’emendamento contro l’indottrinamento Lgbt verso i minori. La notizia dell’emendamento infuocava i mass media internazionali, dopo che la Reuters ne dava notizia e la colorava con gli strali delle organizzazioni Lgbt.

Articoli-fotocopia che riprendevano le dichiarazioni delle lobby Lgbt si moltiplicavano per tutta la giornata: Associated Press (l’Ungheria vuol bandire l’omosessualità per i minori di 18 anni), Amnesty International (attacco frontale alle persone Lgbt), BBC (vietata la letteratura Lgbti ai minorenni). Dimenticato il contrasto alla pedofilia, si cavalcava la protesta Lgbt, invocando azioni internazionali in difesa dello “stato di diritto” e il 14 giugno la commissaria per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, invitava, con un comunicato ufficiale, il Parlamento ungherese ad opporsi agli emendamenti che avrebbero “vietato ogni discussione sull’identità di genere e la diversità sessuale” con i ragazzi. Lo stesso giorno, poche migliaia di persone, sostenute da Amnesty International e Human Rights Watch, si riunivano davanti al Parlamento per protestare contro la legge antipedofilia e l’emendamento antindottrinamento. La notizia delle manifestazioni veniva ripresa con enfasi dal tam-tam del politically correct mondiale, dal sito di notizie europee Euractiv a France24, dal Washington Post a USNews, al Times of India… Il mondo doveva conoscere l’unica fake news: l’Ungheria stava per vietare alle persone Lgbt di esser tali, con un legge simile alle norme ‘omofobiche’ approvate in Russia.

Nei giorni in cui i giornali mondiali riportavano le critiche del G7 contro l’autoritarismo di Russia e Cina, la macchina del fango imponeva la somiglianza autoritaria tra Putin e Orban; Orban, il distruttore della democrazia (come descritto da Obama).

Tuttavia, dal voto finale del 15 giugno emergono due verità. Primo, la coalizione delle opposizioni appunto si è spaccata su un tema cruciale per qualunque governo futuro, con i Socialisti contrari e Jobbik che ha votato a favore della legge antipedofilia. Secondo, nonostante la grancassa mediatica, dalla Reuters in giù, si contestano la lotta alla pedofilia e un governo che si oppone ai dogmi innaturali della dottrina Lgbt. La legge approvata cosa dice? Si crea un “database elettronico” pubblico che conterrà i nomi dei pedofili e consentirà ai genitori e altri parenti delle vittime di denunciare; il Codice penale modificato garantisce che gli autori di pornografia infantile ricevano una pena detentiva di 20 anni senza possibilità di libertà vigilata (se le vittime hanno meno di 12 anni di età). Altri aggravi di pena includono gli abusi sessuali sui bambini, le molestie o le violenze commesse da funzionari pubblici o soggetti recidivi. Nei casi di reati gravi di pedofilia, la prescrizione non si applica più. Il divieto permanente di impiego per i pedofili nella sanità o nell’educazione viene esteso ai lavori legati al tempo libero dove potrebbero esserci minori, come spiagge, parchi di divertimento, zoo e associazioni sportive.

I pedofili saranno banditi dai posti di governo o di leadership politica. Per quanto riguarda l’educazione sessuale nelle scuole, il materiale non deve contenere nulla che miri a cambiare genere o a promuovere l’omosessualità. Oltre agli insegnanti della scuola, solo le persone o le organizzazioni incluse in un registro ufficiale, continuamente aggiornato, possono tenere lezioni di educazione sessuale. Inoltre, il diritto di un bambino di identificarsi secondo il suo sesso alla nascita è custodito dalla legge (“…l’Ungheria protegge il diritto dei bambini a un’autoidentità corrispondente al loro sesso alla nascita…”) sotto l’egida del sistema di protezione dell’infanzia. È vietato promuovere materiali rivolti ai giovani al di sotto dei 18 anni che abbiano un contenuto pornografico o che promuovano l’omosessualità o un’identità di genere diversa dal sesso alla nascita. Lo stesso vale per le pubblicità. Le stazioni televisive saranno obbligate a segnalare l’avviso di divieto di visione per gli under 18 per i film e la programmazione con contenuti che si discostano dalle restrizioni della legge, mentre l’Autorità vigilante sui mass media sarà tenuta a vigilare ed eventualmente sanzionare chi commette le violazioni.

Un ottimo provvedimento, quindi. Ma che fanno i paladini dei “diritti umani”? Human Rights Watch chiede che il presidente della Repubblica ungherese ponga il veto e fermi questa legge antipedofilia. Si tenta di falsificare la realtà, ma i vergognosi fatti di questi giorni parlano da soli.
Luca Volonté, qui.

Se solo pensiamo che il più giovane transessuale ha tre anni perché già da quando aveva 18 mesi i genitori hanno notato segni inequivocabili del fatto che si sentiva di un sesso diverso da quello biologico, a quello che la mamma ha “accontentato” trattandolo da bambina perché ha sempre mostrato preferenza per il colore rosa (è noto che la preferenza del rosa per le femmine e dell’azzurro per i maschi è genetica, e chissà che razza di genetica avranno mai i cinesi che usano – o almeno usavano in passato, adesso non so – l’azzurro per le femmine e il rosso per i maschi), i bombardamenti di ormoni per bloccare la pubertà praticati a scuola anche contro la volontà dei genitori, se pensiamo a tutto questo abbiamo davvero il diritto, nonostante qualche possibile esagerazione, di criticare l’Ungheria per questa legge? Senza dimenticare che il dominio assoluto del pensiero unico comunista l’Ungheria, così come tutti gli stati satelliti dell’Unione Sovietica, lo ha conosciuto fin troppo bene sulla propria pelle per interi decenni, per avere voglia di rischiare una ricaduta.(E tenetevi pronti per quello che vi preparo per domani)

barbara

IDIOTI E PER GIUNTA COPIONI

Le scuole in America cancellano le feste cristiane 

I giacobini in Francia divisero il tempo in unità “razionali e naturali”. Nel calendario ci misero le festività patriottiche ispirate a valori civili: Virtù, Genio, Lavoro, Remunerazione. Santa Cecilia divenne il giorno della rapa, Santa Caterina il giorno del maiale, Sant’Andrea il giorno della zappa… E fra una testa e l’altra che ghigliottinavano, anche l’ape regina divenne “l’ape che depone le uova” [e dunque, oltre che coglioni, i nostri contemporanei politicamente corretti, sono anche incapaci di essere originali], la Chiesa di San Lorenzo divenne il tempio del Matrimonio e della Fedeltà, Notre Dame il tempio della Ragione e Montmartre divenne Monte Marat…

In America da oggi le feste si chiameranno “giorni liberi” [e questi sì che sono cambiamenti epocali!]. Racconta Newsweek che è la decisione del consiglio scolastico di Randolph Township nella contea di Morris, New Jersey, che ha votato all’unanimità per rimuovere i nomi delle festività dal calendario accademico. Basta Natale, Pasqua, Giorno del Ringraziamento e Memorial Day, così come le festività ebraiche come Rosh Hashanah e Yom Kippur. “Se non abbiamo nulla sul calendario, non avremo nessuno con i sentimenti feriti o qualcosa del genere”, ha detto il membro del consiglio Dorene Roche. [GRANDE! Smettiamo di parlare e non avremo nessuno che si sentirà offeso, smettiamo di compiere qualunque gesto e non avremo nessuno che potrà risentirsi, suicidiamoci in massa tutti sette miliardi e otto, e sulla Terra la pace regnerà sovrana. Ma vaffanculo, va’]

E’ la decisione presa anche dal più grande distretto scolastico dello stato americano del Maryland, Montgomery County, racconta il Washington Post. Lì è cominciato quando un gruppo di musulmani ha chiesto di inserire la festa dell’Eid. Per non scontentare nessuno, o meglio per erigere il multiculturalismo a politica di stato, ha cancellato anche il Natale e il Venerdì santo, Yom Kippur e Rosh HaShanà. Stessa scelta di alcune scuole in California: via le festività cristiane.

Questo delirio “inclusivo” arriverà anche in Europa. Anzi, è già qui.

L’Osservatorio della laicità in Francia – l’organo istituito dal presidente François Hollande per coordinare le sue politiche neolaiciste – ha proposto di eliminare alcune feste nazionali cristiane per far posto a quelle islamiche. L’annuale processione a lume di candela di Santa Lucia (“Sankta Lucia”), una tradizione cristiana svedese che si celebra da centinaia di anni, “sta scomparendo”. Uddevalla, Södertälje, Koping, Umeå e Ystad sono alcune del crescente numero di città che non ospitano più questa bella manifestazione culturale. Secondo Jonas Engman, un etnologo del Museo nordico, l’interesse sempre minore per la processione di Santa Lucia accompagna una disaffezione radicale verso la cultura della Svezia cristiana. Dame Louise Casey, “zar” dell’integrazione del governo britannico, ha avvertito che “le tradizioni come la celebrazione del Natale scompariranno”. In Belgio, la democrazia più islamizzata d’Europa, a Holsbeek, alle porte di Bruxelles, non è stato allestito il presepe per “non offendere i musulmani” [Non ho capito: se Gesù, Issa in arabo, è un profeta musulmano (e palestinese, non dimentichiamolo!), che cosa c’è che non va bene nel festeggiare la sua nascita?]. Come riportato dal quotidiano La Libre, i calendari scolastici della comunità francofona del Belgio stanno utilizzando una nuova terminologia: la festa di Ognissanti (Congés de Toussaint) viene chiamata “congedo di autunno”; le vacanze di Natale (Vacances de Noël) diventano “vacanze d’inverno” e le vacanze di Pasqua (Vacances de Pâques) sono diventate “vacanze di primavera” (Vacances de Printemps).

Ha ragione Charles Consigny quando sul settimanale Le Point scrive che “a forza di questa tabula rasa del nostro passato faremo piazza pulita del nostro futuro”.

Ci stanno rubando tutto. Guardiamoci almeno qualche minuto di Santa Lucia, prima che la caccino anche da Youtube.

barbara

UN PAIO DI DOMANDE INDISCRETE

Bisogna dire “genitore che partorisce”, perché la parola “madre” è discriminatoria nei confronti delle “ragazze col cazzo” come a volte amano dichiararsi con grandi cartelli, che madri non possono essere. Ma queste ragazze col cazzo che non possono diventare madri, possono per caso partorire? Qual è il guadagno nell’orrenda sostituzione? Se vanno in crisi per il sostantivo che indica ciò che non potranno mai essere, ci andranno di meno con il verbo che indica ciò che non potranno mai fare? Perché non ci son santi ragazzi, se non nasci con vagina utero tube ovaie e un bel XX, puoi farti castrare e pompare di ormoni quanto ti pare, e farti chiamare Loretta fino allo sfinimento, ma di partorire te lo sogni.
E quelle donne nate donne, rimaste donne, che si sentono donne, che possono benissimo diventare madri adottando ma non possono partorire  a causa di un’isterectomia, di un’ovariectomia bilaterale, di tube non pervie, perché affette da sindrome di Turner o altro ancora, come dobbiamo chiamarle? Se madri no perché se no i trans poverini poverini si avviliscono, dobbiamo chiamare anche loro genitori che partoriscono aggiungendo al danno la beffa – la presa per il culo, per chiamare le cose col loro nome – oltre alla palese falsità?

E poi non bisogna dire donna, bensì mestruante. I trans non “mestruano”, ovviamente, perché gli uomini non mestruano, da che mondo è mondo, e quindi invece che con l’aborrito “uomo” li chiamiamo col bellissimo “non mestruante”. Però anch’io sono non mestruante, da una ventina d’anni: sono equiparabile a un trans? Anche se ho vagina e ovaie e non pisello e palle? Anche se non ho avuto bisogno di pomparmi di ormoni per avere le tette? Anche se ho XX e non XY? E, per inciso, anche le figlie della mia vicina che vanno all’asilo sono sicuramente non mestruanti, epperò non mi sembra che assomiglino molto a dei trans.

La prossima domanda la faccio fare all’amico
Renato Miele

Domanda ingenua: perché nel caso di Saman, la ragazza pachistana di cui si sospetta [di cui ora è certa] l’uccisione, non si è ancora sentita la parola FEMMINICIDIO?

È una domanda difficile, e dubito che qualcuno riuscirà a trovare una risposta.

Qualcuno  suo tempo ha ammonito che quando si bruciano i libri, prima o poi si bruceranno le persone. Nel 1933 hanno bruciato i libri

e meno di dieci anni dopo bruciavano le persone in quantità industriale. Adesso stanno decapitando le statue.

USA COLUMBUS STATUE BEHEADING

Fra quanto tempo…? Ah no, che domanda stupida: è da quel dì che i seguaci della religione di pace stanno decapitando le persone in quantità industriale e addestrando anche i bambini a tale nobile attività. A casa loro? No, cari, anche a casa nostra, dove le anime belle continuano a predicare accoglienza.

barbara