UNA PALMA DI NOME MATUSALEMME (12/4)

C’era una volta Masada.
C’erano una volta gli scavi archeologici di Masada, che non finiscono di regalare sorprese.
C’erano una volta quattro semi di dattero, risalenti al tempo dell’assedio di Masada, circa duemila anni fa, ritrovati in una delle tante spedizioni archeologiche.
C’era una volta qualcuno che riteneva utile studiare i semi antichi.
C’era una volta e c’è ancora il kibbutz Ktora (o Ketora, o Ktura, o Ketura, che è anche il nome della seconda moglie di Abramo),
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a nord di Eilat
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nella valle dell’Aravà, ossia in pieno deserto.
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Fondato nel 1973 da un gruppo di giovani sionisti americani, ampliatosi successivamente con l’arrivo di altri giovani di varia provenienza (nel 2015 si contavano 485 abitanti), si è specializzato nella sperimentazione sui semi, ossia nel selezionare i semi più adatti a svilupparsi naturalmente in un determinato terreno, clima, ambiente eccetera, oltre a sensibilizzare sui problemi ambientali, promuovere il riciclaggio e aprire un negozio dell’usato. Ma la cosa forse più singolare è l’industria high-tech delle alghe
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(un compagno di viaggio ci ha spiegato che cosa succede dentro quei tubi, ma trattandosi di cose tecniche sulle quali la mia competenza è pari a zero, non mi ricordo più come funziona).
Ma torniamo a Masada, agli scavi archeologici, e a quei quattro semi di dattero vecchi di duemila anni trovati nel 1960 dall’archeologo Ygal Yadin durante lo scavo del palazzo di Erode. Un nocciolo, trasferito nei laboratori di genetica dell’università Bar-Ilan e poi di Gerusalemme, ha dimostrato di avere alcuni elementi ancora vitali e di appartenere a un tipo di palma estinto in Israele, conosciuto come la palma del deserto di Giuda. Così, come ci ha spiegato la pittoresca guida (pittoresco guido?) del kibbutz che doveva essere alto sui due metri-due metri e mezzo e che non aveva bisogno di microfono e infatti quelli più vicini ancora hanno i timpani che sbatacchiano come vele al vento dopo due mesi, è stato deciso, sia pure con scarsissime speranze, di tentare l’esperimento: il nocciolo è stato piantato, gli hanno dato fertilizzanti, vitamine, e anche brodo di pollo (chi è addentro alle cose ebraiche sa che è una battuta fino a un certo punto: il brodo di pollo, nel mondo ebraico, è considerato panacea per tutti i mali. E del resto sembra che non sia del tutto una leggenda, in quanto il brodo di pollo avrebbe determinati enzimi, diversi da quelli del brodo di manzo, efficaci contro raffreddore e influenza) e dopo un po’, nissei nissim, miracolo dei miracoli, la palma è nata! Ed eccola qui, recintata, vista la sua unicità, in tutto il suo splendore.
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Nel frattempo è stato possibile determinare che si tratta di una palma maschio, e quindi giustamente denominata Matusalemme, e adesso, ha detto il suddetto pittoresco guido, si vorrebbe provare a piantare un altro di quei noccioli nella speranza che cresca una femmina, in modo da incrociarle e far rinascere la specie.
Per questo albero speciale, naturalmente, in occasione della benedizione sugli alberi non viene detto, come per tutti gli altri, “che hai creato buone creazioni e buoni alberi”, bensì “che resusciti i morti”.

barbara

DAVID RUBINGER

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Il suo scatto più famoso è sicuramente quello del tre soldati al Kotel,
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riconquistato dopo 19 anni di illegale occupazione giordana, il più toccante quello del ragazzo neo-immigrato cieco che impara la geografia di Israele con le mani
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Ma ci sono anche i tempi gloriosi del kibbutz,
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Golda che fa la nonna,
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il glorioso ritorno da Entebbe (clic, clic)
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e tanti tanti altri ancora. Novantadue anni, quasi novantatre, spesi davvero bene. Riposa in pace, grande David.

barbara

ISRAELE NOVE (6)

Kfar Giladi

Kfar Giladi
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è stato uno dei primi Kibbutz fondati in Israele, nel 1916 (il primo era stato Degania, nel 1909) da alcuni membri del movimento Hashomer Hatzair (“il giovane guardiano”) il cui compito principale era quello di occuparsi della sicurezza degli insediamenti ebraici. Si trova in Alta Galilea, al confine col Libano,
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precisamente nella valle di Hula. Il nome definitivo, Kfar Giladi appunto, fu deciso dopo la morte per Spagnola nel 1918 di Israel Giladi, uno dei fondatori. Questa è la prima casa di Kfar Giladi, costruita per i fondatori
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(decisamente diversa da quella che possiamo vedere qui, nella decima foto).
Nel 1920 il kibbutz viene temporaneamente abbandonato, per dieci mesi, dopo un pesante e vittorioso attacco arabo al vicino insediamento di Tel Hai, che qualche anno dopo verrà assorbito da Kfar Giladi, formando un unico kibbutz.
Oggi, come la maggior parte dei kibbutz, anche Kfar Giladi ha abbandonato la struttura del “kibbutz puro” che si autosostenta unicamente con l’agricoltura; l’agricoltura è ancora attiva, con coltivazioni di mele, avocado, litchi, mais, cotone, grano, patate, allevamento di bovini e pollame e itticoltura, ma l’economia del kibbutz è basata anche sull’albergo (con la tipica struttura della maggior parte degli alberghi costruiti nei kibbutz, ossia tanti piccoli edifici disseminati tra gli alberi) e quattro cave.

La cosa singolare tuttavia, e particolarmente interessante, di questo kibbutz, è la storia delle armi. Ce l’ha raccontata Amnon Nir, vivace settantenne che ci ha fatto da guida in questa storia straordinaria.
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In seguito a un drammatico episodio di aiuti negati in un momento di pericolo estremo, i dirigenti del kibbutz hanno deciso che mai più avrebbero permesso che la loro salvezza dipendesse dalla buona volontà di qualcun altro, e hanno deciso di procurarsi armi sufficienti a far fronte a qualunque imprevisto potesse presentarsi in futuro, e a tenerle nascoste. Quindi sono passati all’azione: procurare le armi e scavare rifugi sotterranei, giurando solennemente di non rivelare il segreto a nessuno. Giuramento ferreamente rispettato fino alla fine. Rispettato fino al punto che quando la moglie di uno di coloro che vi lavoravano ha deciso che ne aveva abbastanza della storiella dei turni di sorveglianza tutte le notti tutta la notte (per non insospettire gli estranei, svolgevano di giorno i loro lavori normali, e lavoravano allo scavo dei rifugi quasi tutta la notte) e gli ha posto l’aut-aut: o mi dici la verità o me ne vado coi bambini, ha scelto di perdere moglie e figli piuttosto che tradire il giuramento. E solo per caso, in tempi piuttosto recenti, alcuni nascondigli sono stati scoperti (si dice che le armi siano state scoperte tutte, ma qualcuno sospetta che in realtà ce ne siano ancora da altre parti). Naturalmente voci sull’esistenza di armi nascoste erano trapelate, ma nessuno è mai riuscito a scoprire dove fossero. Si è presentato anche Ben Gurion, si sono presentati gli inglesi, ma nessuno è potuto penetrare nel nascondiglio. Proprio uno degli inglesi della missione incaricata di trovare le armi, non moltissimo tempo fa, si è trovato nella stanza fotografata qui sopra, e quando gli è stato detto che le armi si trovavano esattamente sotto i suoi piedi, ha rivelato che all’epoca aveva avuto il forte sospetto che le armi potessero essere lì sotto, e che ci dovesse essere una botola, e che questa botola potesse trovarsi sotto questo macchinario,
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ma il macchinario pareva cementato al pavimento, impossibile da spostare. Ciò che non avrebbe mai potuto sospettare era l’esistenza di un perno che tiene bloccato il macchinario, e che, fatto ruotare, lo sblocca,
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cosicché il macchinario scorre
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e lascia libera la botola, con la scala che porta fino al nascondiglio.
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E le armi, per ogni evenienza, se le tengono lì, perché “nella vita non si può mai sapere”. [NOTA: parecchie delle foto sono di Giovanni, soprattutto quelle prese nel nascondiglio in cui, a causa delle condizioni delle mie gambe in seguito all’incidente, e alcuni altri motivi, non sono potuta scendere]

barbara

DOPO LA GUERRA

Nir Oz è un kibbutz al confine con Gaza: quella che vedete subito dopo il campo è Khan Yunis
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e in mezzo al campo c’era lo sbocco di uno dei tunnel costruiti – al costo di milioni di dollari ciascuno e di tanti bambini morti nel corso dei lavori e di operai assassinati a lavoro concluso perché non potessero parlare – per andare a portare terrore in Israele.
Prima era tutto così
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(l’orizzonte è più storto del solito perché l’ho fatta dall’autobus, al volo e in equilibrio precario). L’acqua disponibile è pochissima, quindi per gestirla è stata installata questa centralina computerizzata
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che controlla ogni singola goccia emessa.
Prima, dicevo. Perché poi c’è stata la guerra, ed è di qui che sono passati i carri armati per le operazioni di terra. Questo, all’inizio dell’estate, era un campo di grano, oggi è così
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e la polvere sollevata dai carri è finita sui melograni lì accanto
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Di verde, oggi, ci sono solo le fronde cresciute dopo la fine delle operazioni,
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per il resto bisognerà aspettare la pioggia. Sotto la polvere, comunque, quelle melagrane sono come questa
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lavata e offerta dal contadino che ha guidato la nostra visita. Se della visita poi volete un resoconto dettagliato, oltre che appassionato, vi invito a leggere questo, bellissimo, scritto da una compagna di viaggio.

barbara

COLTIVARE IL DESERTO? MA ANCHE SÌ (1)

Di questa straordinaria caratteristica di Israele ho già ripetutamente parlato (uno, due, tre, quattro, cinque), e torno a parlare oggi, perché è un argomento che, in un mondo in cui la desertificazione avanza ovunque, non finisce mai di affascinarmi. Prendete per esempio il kibbutz Lavi, legato alla storia dei Kindertransporte. All’inizio le abitazioni erano così
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All’interno di questa baracca c’è una foto di quei tempi
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Quella che si vede nello sfondo, in mezzo al nulla, è la torre dell’acqua, questa
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E oggi il kibbutz si presenta così
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Oppure prendete il kibbutz Kalya, sulla riva nord del mar Morto. Il kibbutz è stato costruito in mezzo al deserto,
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e deserto era anche l’area occupata dal kibbutz, che dal deserto che era è stato fatto diventare così
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Kalya 4
Kalya 5

O ancora l’avamposto del kibbutz Saad, di fronte a Gaza, in prima linea nella guerra del 1948, di qui ho già parlato qui. Dalle foto conservate all’interno della torre possiamo vedere ciò che era il kibbutz ai suoi esordi
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e guardandoci intorno possiamo vedere come è oggi.
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Come ci sono riusciti? In parte coi metodi che già in altre occasioni ho illustrato: scavare nel deserto fino a quando non si trova l’acqua (se si scava a sufficienza si trova sempre), con l’irrigazione a goccia, proteggendo le piantine neonate con tubi che le proteggono dai parassiti, ne conservano l’umidità e ne mantengono il microclima. In parte con altri metodi che illustrerò alla prossima puntata.
(Poi magari, visto che si è appena parlato di Golda Meir, e visto che uno dei temi più scottanti del momento è la vicenda dell’aereo della Malaysia, andate anche a leggere questa storia straordinaria)

barbara

DALLE PARTI DI SDEROT

Da una parte investono tutti i (nostri) soldi per fare la terra rossa di sangue. Dall’altra investono parecchi dei loro soldi per fare la terra rossa di fiori.
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Kibbutz Nir Yitzhak, presso Sderot

Poi vai a leggere questo e questo, e infine goditi questa strepitosa chicca del conferimento della cittadinanza onoraria “a Sua Eccellenza il signor Maùdde Abbasce Abbumazen, Presidente lo stato di palestina…”

barbara