QUALCHE DOMANDA

Domanda N° 1

Quando, esattamente, ha cominciato a circolare il virus a Wuhan? E quando, esattamente, è arrivato in Italia?

Perché, come è arrivato con questi ragazzi alla fine di ottobre, che cosa ci impedisce di pensare che possa essere arrivato anche prima della metà del mese con qualche imprenditore, o con qualcuno delle centinaia di migliaia di cinesi residenti in Italia, che periodicamente vanno a visitare le famiglie?

Domanda N° 2

Quando ci decideremo a dichiarare l’utero in affitto, ossia la compravendita di bambini al mercato degli schiavi, crimine contro l’umanità? Crimine che è sempre tale, anche in tempi “normali”, ma che in tempo di pandemia assume tinte ancora più orripilanti: succede infatti che in un albergo di Kiev si trovano parcheggiati decine di neonati
neonati
commissionati da ricchi negrieri pratici in compravendite di carne umana, che ora a causa del blocco determinato dalla pandemia non possono andare a ritirare i loro pacchetti di carne. Che cosa ne sarà di questi bambini? Nessuno lo sa. (qui maggiori dettagli)

Domanda N° 3

Davvero per evitare di morire di covid a decine di migliaia (e se non fosse una tragedia, qui ci sarebbe da fare una grassa risata) era necessaria la riduzione in schiavitù di sessanta milioni di cittadini e l’instaurazione di uno stato di polizia con sospensione della Costituzione ed esautoramento del Parlamento?

La leggenda metropolitana del lockdown

Una mia regola aurea è che tutto è possibile eccetto ciò che è logicamente impossibile. Una legge della logica è quella della contro-inversa: se A implica B, allora non-B implica non-A. Mancanza di lockdown implica che si hanno più morti? Allora, a parità di condizioni iniziali, avere meno morti implica che s’è fatto il lockdown. Il caso vuole che al giorno 8 marzo le condizioni iniziali di Italia e di Sud Corea fossero le stesse: entrambi i Paesi registravano 7300 infetti. Orbene, al 4 di maggio l’Italia ne registra 212 mila e piange 29 mila morti, la Sud Corea registra 11 mila infetti e piange 250 morti. Ma in Sud Corea non c’è stato il lockdown che abbiamo fatto noi. Per la regola della contro-inversa, non avessimo fatto il lockdown, non avremmo avuto né più casi né più morti.
Massimamente grazie a mezzi di comunicazione che ricordano quelli cinesi, serpeggia una leggenda metropolitana: è vero che le misure del governo hanno dato un colpo mortale all’economia, ma almeno ci hanno salvato la vita e protetto la salute. Se fosse così, dovremmo essere felici, che quando c’è la salute c’è tutto. Ma non è così. È, quella, appunto, una leggenda metropolitana. Di questo è necessario esserne consapevoli, noi e il governo: noi perché si impari a non dare la fiducia agli incompetenti incapaci, e il governo – qualunque governo ­– perché non commetta gli stessi errori. Alcuni dei quali sono imperdonabili.
Condizione necessaria affinché, in assenza di vaccini, siano efficaci misure di contenimento di un virus pandemico, è la velocità e determinazione nell’implementare le misure stesse. Qualunque fosse stata la strategia scelta, il fattore cruciale era la velocità d’azione. Il primo caso diagnosticato d’infezione avvenne l’8 di dicembre in Cina. Il 4 febbraio, quando avevano 15 casi e zero decessi, i sudcoreani chiudevano il Paese agli arrivi dalla Cina. Lo stesso 4 febbraio il sindaco di Firenze, con velleitario pidiota antirazzismo, lanciava l’hashtag #abbracciauncinese (nessun magistrato l’ha toccato, naturalmente, ma questa è un’altra storia).
In perfetta sintonia col pidiota, Conte attendeva il 9 marzo, quando gli infetti registrati erano già 10 mila e 600 i decessi, per attuare il lockdown. Brillante per incapacità, s’è adagiato sul parere dei cosiddetti esperti. I quali – lo sa anche un boy-scout – sono il modo più sicuro per rovinarsi (i cavalli il più veloce e le donne il più piacevole). Una qualunque Giulia Grillo avrebbe saputo discernere i contraddittori pareri di teste d’uovo rivelatesi incapaci di riconoscere la natura pandemica del virus. Cosa non impossibile, visto che i loro colleghi cinesi, sudcoreani, giapponesi, vietnamiti, l’avevano subito capito.
Conte regna su di noi, ma la confusione regna nella testa di Conte. Ci sarebbe da chiedergli perché, se ha chiuso quando c’erano 10 mila infetti attivi, sta aprendo ora che gli infetti attivi sono 100 mila. C’è una logica in questa pazzia? Direi di sì: anche lui sa che chiuderci come ci siamo chiusi non è servito, e men che meno serve oggi.
Né servirà in futuro, ove mai questo virus dovesse rinvigorirsi, come gli esperti paventano. Naturalmente non gli sarebbe salutare ammetterlo, ma si spera che per allora sappia almeno predisporre tutto quanto serve per prendersi cura di chi si ammala. Ma la vedo difficile: altra mia regola aurea è dare a tutti una seconda possibilità, mai una terza.
Franco Battaglia, 5 maggio 2020, qui.

Domanda N° 4

Ma veramente la Russia, quella che, in linea con le graziose abitudini putiniane di far sparire i giornalisti scomodi, si esibisce in intimidazioni in perfetto stile mafioso contro i nostri giornalisti non asserviti, veramente ci è stata d’aiuto?

Finisce lo show di Putin

Roma. Sono cominciate ieri le operazioni di rimpatrio dei militari russi arrivati in Italia il 22 marzo per l’operazione “Dalla Russia con amore”. Dalla base logistica dentro all’aeroporto di Orio al Serio in Lombardia questa volta si sono diretti verso l’aeroporto di Verona-Villafranca, dove un primo gruppo si è già imbarcato su due grandi aerei da trasporto Ilyushin-76, e non più verso l’aeroporto di Pratica di Mare, nel Lazio, dove erano atterrati quarantasette giorni fa. Orio al Serio dista centodieci chilometri dall’aeroporto di Verona e seicentoquaranta chilometri da Pratica di Mare, e questo suggerisce che ci sia stata la volontà di spettacolarizzare il loro arrivo. L’atterraggio dei primi Ilyushin-76 avvenne alla presenza del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, con una diretta cominciata prima a “Domenica In” in collegamento con Mara Venier e poi proseguita su facebook. Pratica di Mare è una base militare simbolica, è il luogo dove nel maggio 2002 l’allora premier Silvio Berlusconi ricevette il presidente americano George W. Bush e il presidente russo Vladimir Putin per la firma di un trattato di collaborazione tra Nato e Russia che allora fece parlare di “fine della Guerra fredda”. Inoltre da Roma è senz’altro più comoda da raggiungere di Verona o di qualsiasi altro aeroporto del nord, per chi ha partecipato alla coreografia dell’arrivo. La parte più pesante del carico arrivato a marzo su quindici aerei cargo è rappresentata dai mezzi militari dei russi e il costo dello spostamento tra la Russia e l’Italia, andata e ritorno, sarebbe tra il mezzo milione e i due milioni di euro secondo le stime di esperti sentiti dal Foglio. Questo costo sarebbe stato sostenuto dall’Italia e c’è da usare il condizionale perché il governo non ha mai chiarito la questione. I mezzi fatti arrivare dai russi sugli aerei cargo non erano speciali e sono in dotazione anche all’esercito italiano, che infatti nello stesso periodo si è occupato di sanificazione un po’ in tutto il paese, da Verona al Piemonte e da Bergamo alla Sicilia. La Difesa russa ha dichiarato due giorni fa di avere sanificato 114 edifici per un totale di un milione e centomila metri quadri. Un’operazione meritoria ma anche a scadenza molto breve, perché la sanificazione per essere efficace dev’essere ripetuta nel tempo soprattutto in una regione come la Lombardia che ancora produce centinaia di nuovi contagiati al giorno e quindi non si capisce molto il senso strategico di tutta la manovra militare. Inoltre se si vanno a vedere i prezzi fatti dalle imprese private di sanificazione in questo periodo si realizza che è possibile sanificare quello stesso numero di metri quadri per circa trecentomila euro – e volendo anche a prezzi inferiori. E quindi – a meno che non siano chiariti alcuni punti della vicenda – l’impressione che si sia trattato di una costosa (per noi) operazione di propaganda da parte della Russia per sfruttare un periodo di crisi del paese è forte. La televisione russa ha trasmesso con gusto le immagini di chi in Italia toglieva la bandiera dell’Unione europea (dalla quale in questi giorni attendiamo miliardi di prestiti a condizioni incredibilmente favorevoli) per sostituirla con quella russa. I partiti di opposizione spesso chiedono chiarimenti al governo per molto meno, ma in questo caso non lo faranno perché sono ancora più filorussi. Se Mosca ha lanciato un’iniziativa metà di soccorso e metà di propaganda politica sul nostro territorio è perché in politica estera siamo un paese con idee molto confuse. Questo filo diretto del governo italiano con Putin non si sa chi dovesse impressionare alla fine, ma di sicuro non i paesi con cui vorremmo un rapporto più funzionale in Europa e di sicuro non gli Stati Uniti. Nel frattempo i Cinque stelle, partito di maggioranza dentro al governo, un giorno si vantano di avere una relazione speciale con la Cina “da giocare contro l’Unione europea” e un giorno assicurano di essere fedeli all’atlantismo.

Daniele Raineri, 9 maggio 2020, Il Foglio

Domanda N° 5

Ho trovato in rete questa immagine,
probabilità
e mi chiedo:

a) Da quando in qua abbiamo l’abitudine di starnutire direttamente sulla faccia di chi ci sta di fronte, a cinquanta centimetri di distanza?

b) Come sono state stabilite quelle percentuali? Hanno preso 400 positivi e 400 negativi, li hanno messi uno di fronte all’altro a gruppi di cento a mezzo metro di distanza, hanno fatto starnutire i positivi direttamente sulla faccia dei dirimpettai e alla fine hanno contato quanti negativi erano diventati positivi? (Ah no, devono essere il doppio, se no con quel “,5” mi sa che ce la vediamo brutta, anzi, se la vede brutta lui). Ma davvero pretendono di convincerci a usare le mascherine con simili cagate? E oltretutto senza una parola sul tipo di mascherina.

Per ora mi fermo, ma di domande da fare ce ne sarebbero fino a domani.

barbara

FORSE ESTHER

“Forse”: perché i figli la chiamavano mamma, i nipoti la chiamavano babuška, e quindi non è del tutto sicura che si chiamasse Esther la bisnonna finita tra i massacrati di Babi Yar.
Anche questa, come Gli scomparsi e Konin, è la storia di una ricerca: ricerca delle proprie radici, ricerca delle tracce di chi non c’è più. Ricerca i cui esiti dipendono dalla tenacia impiegata, e un po’ anche dal destino. Che a volte si presenta del tutto casualmente, e vi si inciampa sopra.

Durante il mio viaggio del 1989 in Polonia visitai anche Varsavia, la città in cui mia nonna Rosa era nata nel 1905, quando il paese apparteneva ancora alla Russia. […]
Così vagabondai per quella città dalla storia ricostruita ex novo e, non lontano dal monumento a Chopin, mi comprai un disco solo perché, nel vederlo, ne ero rimasta sorpresa. Sulla copertina campeggiava infatti un mogendovid, una stella di Davide. Non era passato molto tempo da quando avevo udito per la prima volta la parola mogendovid, a significare la stella a sei punte. Sul disco c’era scritto qualcosa come Żydowskie piosenki wshodniej Europy. Allora trascrissi in russo quelle parole polacche, e adesso le traduco in tedesco, Jüdische Lieder aus Osteuropa, Canti ebraici dall’Europa orientale. Il mogendovid si stirava e allungava sulla copertina, con la stessa naturalezza con cui il nostro paese si estendeva dall’Europa al Pacifico. Lo osservavo come fosse un animale sconosciuto, pronto a muoversi da un momento all’altro, saggiavo ciascuna delle sei punte, seguivo ogni rotazione, ogni angolo. Per tutta la vita avevamo dipinto stelle a cinque punte, quelle che brillavano sulla terra e quelle che brillavano in cielo, le stelle del nostro Cremlino, che eravamo soliti celebrare con un inno, e c’era poi anche quella canzone in cui una stella parla con un’altra stella, la intonavamo quando ci toccava fare la strada da soli – ma nessuna di esse aveva sei punte. Mai prima di allora mi era accaduto di incontrare nella mia patria tanto estesa un mogendovid, né come simbolo né come oggetto.
La stella a sei punte mi aveva stupita, non perché fossi sempre stata ansiosa di vedere un mogendovid, non sapevo nemmeno che si potesse desiderare una cosa simile, il desiderio era defraudato del suo contenuto, divelto con tutte le radici, così come il contenuto delle stanze in quelle case abbandonate. Ero confusa per la sorpresa provata alla vista del mogendovid accuratamente dipinto in blu scuro su fondo bianco, con una colomba colorata nel mezzo.
Di ritorno a Kiev misi il disco sul piatto del grammofono, e mia nonna, che aveva da sempre un leggero accento polacco – ricordo la parolina cacki, un termine di origine polacca per dire «gioielli», usato da Rosa per le mie carabattole, gli oggetti inutili, cacki, come un lecca lecca, un ledenets dalla ts aspra -, mia nonna che, a memoria di mia madre e mia, non aveva mai pronunciato una sola parola in yiddish, si mise d’un tratto a intonare canti baldanzosi in una tonalità minore e vagabonda, dapprima seguendo le parole del disco, andandovi dietro, poi all’unisono e senza incertezze, infine anticipandole di colpo con precipitosa letizia, e io la ascoltavo con la medesima incredulità con cui avevo saggiato il mogendovid sulla custodia del disco. Senza la Perestrojka, senza il mio viaggio in Polonia, senza quel disco, la finestra sigillata della sua lontana infanzia non si sarebbe mai più dischiusa per noi, e io non avrei mai capito che la mia babuška veniva da una Varsavia ormai inesistente, che di lì noi veniamo, mi piaccia o meno, da quel mondo perduto di cui mia nonna si ricordò all’ultimo, sul limitare, mentre già stava per lasciarci, per prendere da noi congedo.
Come sorpreso nel rimemorare, il tempo si dilatò e agguantò Rosa; attraverso il disco giunse a me, e in lei destò ricordi, che – così sembrava – erano del tutto ammutoliti e sepolti, al pari di quella che doveva essere stata un tempo la sua lingua materna: l’idioma da noi e da lei stessa ormai dimenticato.

Altre volte, invece, come in una sinfonia di Beethoven, bussa prepotentemente alla porta.

Quella volta suonò il telefono. Era la notte di San Silvestro del 2011 a Kiev. Mia madre andò a rispondere.

Mi chiamo Dina, disse una vecchia signora, ho sentito che lei sta raccogliendo informazioni sulla scuola numero 77 di Kiev, nel 1940 io mi sono diplomata presso quella scuola. Telefono da Gerusalemme.

Era da un pezzo che il 1940 non ci mandava più segnali, di lì giungeva un vento freddo, come una telefonata che arrivasse direttamente dall’Aldilà: la riprova ne era Gerusalemme, una tappa intermedia. Mia madre se ne stava impietrita con il ricevitore in mano e riuscì a dire soltanto, con voce rauca ma ferma: Sì, la ascolto.
Il telefono fu messo in viva voce.
Gli ospiti di Capodanno fecero silenzio.

Abbiamo lasciato Kiev allo scoppiò della guerra, disse Dina in tono deciso. Fummo evacuati nel Dagestan. Di lì emigrammo in Israele negli anni Settanta, io non sono mai più tornata a Kiev. Ho appena ritrovato su facebook una delle mie compagne che frequentò con me l’ultimo anno di scuola, nel 1940. Mi ha detto che lei ci stava cercando. Sì, ho ottantotto anni, con il computer me la cavo, mi aiuta mia figlia. Lei è archivista?
No, sono insegnante di storia, rispose mia madre e raccontò che lavorava in quella scuola da quarant’anni e adesso stava cercando si ricostruirne la storia, anche se io direi piuttosto che mia madre stava reinventando la storia della scuola. Parecchio tempo fa, disse, ho messo in scena con i miei allievi una pièce sulla classe che diede l’esame di maturità nel 1941 e che, il giorno dopo il ballo finale – il primo giorno di guerra -, venne mandata direttamente al fronte: avevamo trovato alcuni compagni e li abbiamo portati sul palcoscenico.
Anziché rispondere, Dina elencò i nomi dell’intera classe, poi di tutti gli insegnanti e infine di alcuni genitori.
Non ne aveva dimenticato uno, a settant’anni dal giorno del diploma.

Dopo la guerra, quando i sopravvissuti rientrarono lentamente a Kiev dal fronte o dai luoghi di sfollamento, nessuno sapeva nulla di Dina. Un quarto della classe era caduto in guerra, e a un certo punto le ricerche s’interruppero. Dina era ebrea, e poteva essere finita a Babij ]ar, ingoiata da quella forra o da qualche altra fossa comune. A volte non si cercava perché si era sicuri. Dina invece era viva.

Dove abitava a Kiev, domandò mia madre.
Non lontano dalla scuola, nella Institutskaja.
Nell’udire il nome di quella strada mia madre si agitò.
Dove esattamente?
All’angolo con via Karl Liebknecht.
Nella casa grigia, lì all’angolo? Di fronte alla farmacia?
Sì, disse Dina, il primo ingresso a sinistra.
Ma anche noi abitavamo lì, gridò mia madre.
Ma non c’erano Petrovskij nel nostro caseggiato, rispose Dina.
Ma io mi chiamo Ovdijenko!
Svetočka! esclamò allora Dina.

I presenti tacquero tutti, come sapessero benissimo di che cosa si trattava. Mio padre fu il primo a lasciarsi sfuggire un breve singhiozzo. Qualcuno aveva appena chiamato mia madre, un’adulta, con il nome che aveva da bambina. Non c’era più nessuno, ormai, di quella generazione.
Dina era stata realmente una vicina di casa di mia madre, e aveva tredici anni più di Svetočka. Si ricordava di ogni mio famigliare e di altri vicini ancora, che avevano abitato in quella casa prima della guerra.
Terminato il lungo elenco di nomi, disse: Grazie, Svetočka.
Grazie di cosa? domandò Svetočka.

Dina ringraziava settant’anni dopo perché mia nonna Rosa, allora direttrice della scuola per sordomuti, le aveva affidato i suoi allievi, quando lei stava cercando lavoro. Così quella si era trasformata nella professione della sua vita: dopo la guerra Dina divenne insegnante per non udenti, come in seguito sua figlia, dapprima nel Dagestan e poi in Israele e anche i figli di sua figlia divennero insegnanti per non udenti e logopedisti, così come alcuni nipoti. Grazie a voi, Svetočka.
Dina disse poi che ricordava quando, nel 1939, era morto il mio bisnonno Ozjel Krzevin. L’ho sentito cadere a terra e sono corsa su, era d’autunno. Io avevo quattro anni, precisò mia madre, e ricordo ancora che gli adulti erano sconcertati perché avevo detto: Lasciatelo stare, è stanco. E Dina confermò: È vero. Hai detto proprio così!

E per fortuna, per la fortuna di tutti noi, ci sono di queste persone dalla volontà implacabile, dalla determinazione indomabile a ritrovare le proprie radici, quelle radici che, a volte, neppure si sospettava di avere. Regalandole, una volta trovate, non solo a se stessi ma anche a tutti noi.

Katja Petrowskaja, Forse Esther, Adelphi
Forse Esther
barbara