Il padrone di casa arriva, intenzionalmente, con una buona decina di minuti d’anticipo sugli altri due (che a loro volta arrivano invece in ritardo), perché mi vuole parlare. Tira fuori il foglietto su cui si è annotato le cose da dirmi e comincia: Se io la cerco e lei non è raggiungibile, a chi mi posso rivolgere? [prego?] Ora, io ho un cellulare, che lui ovviamente conosce, e un fisso, altrettanto conosciuto. Quando non ho voglia di farmi rompere le scatole spengo il cellulare e stacco la spina del fisso; voglio dire, se non mi trova è perché non voglio farmi trovare, quindi come non riesce a trovarmi lui, non mi trova nessun altro, a chiunque si rivolga. E lì parte un’approfondita indagine sulle mie frequentazioni contatti relazioni eccetera eccetera, prediche per come mi relaziono agli altri che lui invece ha sempre fatto tutto il contrario [poi vieni a dirmi che è coi giovani che ci vuole tanta pazienza]. Poi improvvisamente si accorge che ho una maglietta con le maniche corte. E si lamenta della bronchite?! Lei deve coprirsi! Scusi, dico, ci sono ventisette gradi. Sì, ma sono ventisette gradi di ottobre, mica ventisette gradi di luglio. Abbia pazienza, ma la mia pelle non sa leggere il calendario: lei si accorge che ci sono ventisette gradi e sente caldo, e con una maglietta di cotone a mezze maniche sta benissimo. Ma per martedì è prevista la bora! Mancano sei giorni. Sì, ma il tempo comincia a cambiare già lunedì. Mancano cinque giorni. No, lei deve mettersi un gilè, come fanno gli americani, li ha visti gli americani? Tutti col gilè sulle spalle per non ammalarsi [effettivamente, chi ha mai visto un americano ammalato?] e io ho imparato da loro, da anni porto sempre il gilè e non ho mai più preso un’influenza: tutti gli anni faccio il vaccino, evito i luoghi affollati, mi tengo lontano dalle persone ammalate, e grazie al gilè non prendo l’influenza [se c’è una cosa che mi piace di quest’uomo è la logica]. Vede, dico con grande pazienza (trentasei anni di allenamento in cattedra servono anche nella vita reale – anche se più che reale mi sembra un tantino surreale, ma vabbè), se io, avendo già caldo così, mi metto qualcos’altro sopra, poi sudo, e poi il sudore mi si asciuga addosso, e poi diventa freddo, e così mi becco la polmonite. Ma no, ma quale sudore, ma quale si asciuga, ma quale polmonite! Se si mette una bella maglia spessa vedrà che non suda. Sudo, si fidi. Lei è di quelle persone così testarde che quando si mettono in testa una cosa non cedono neanche morte. Lo sa che cosa dico ogni volta che mi trovo di fronte a un medico? Dico: lei è da dieci anni, venti anni, trent’anni che fa il medico; io è da sessantasei che faccio la paziente: il suo mestiere lo conosce lei, ma il mio corpo lo conosco io. Mi hanno sempre dato ragione, tutti. E non mi faccio dire che cosa devo fare con una cosa che conosco da chi non la conosce affatto. [No, non ho detto il corpo è mio e me lo gestisco io perché fa tanto femminista sessantottina e se non l’ho mai detto in sessantasei anni sicuramente non ho intenzione di cominciare adesso, però, dite la verità, non ci sarebbe stato troppo male]. Sì ma poi apri di qua e apri di là e ci sono gli spifferi e… No, non apro di qua e poi anche di là, quindi non ci sono spifferi. Perché anche mia moglie… Io non sono sua moglie [se lo fossi sarei vedova e in galera dal terzo giorno di matrimonio] – naturalmente ignora la mia obiezione e prosegue imperterrito raccontandomi tutta una lunga storia di lui e sua moglie e finestre aperte e finestre chiuse e… E poi lo dico sempre anche a mia moglie, bisogna sempre guardare in alto, non in basso. Oddio, se avessi guardato in basso invece che in altro quando mi sono avvicinata a quel gradino adesso starei decisamente meglio. Beh, sì, anch’io – e mi racconta per la quarta volta, l’ultima non più di cinque minuti prima, la storia della zappetta in garage che lo ha fatto cadere e allora mentre cadeva si diceva attento! Non cadere sul gomito! E poi: attento! Non cadere sulla spalla! Eccetera. Poi finalmente si ricorda del famoso foglietto e lo guarda e dice ah sì: io ho un omino che fa dei lavoretti, è un operaio in pensione ma ancora giovane, sessantadue sessantatre anni, e fa di tutto, se per caso ha bisogno basta che me lo dica… Ah sì, grazie, dico, questo mi fa davvero comodo, io mi arrangio a fare tante cose, ma per alcune ho bisogno di qualcuno più pratico di me, mi dia pure nome e numero – e prendo una busta vuota che sta sul tavolo e una penna… No no, quando ha bisogno lei mi chiama e io lo prendo e glielo porto qui di persona [no, cioè, fammi capire…]. E infine arriva il clou: lei deve volersi bene. Ah no, eh! Questo davvero no. Va bene tutto, ma le lezioni di vita no, per favore, quelle risparmiatemele. Che ogni volta che qualcuno ci prova mi si vedono le unghie, come dice Brick. Cioè, tu non mi conosci, non sai un cazzo di me, non sai un cazzo della mia vita, non sai un cazzo del mio rapporto con me stessa, non sai un cazzo di niente, e ti permetti di venirmi a dire come io mi devo comportare verso me stessa?! Ma vaffanculo! Perché vedi, caro il mio ineffabile maestro, io nella mia vita ho visto e vissuto e sofferto e affrontato e superato cose che tu neanche in dieci delle tue vite di merda vissute nella bambagia guardandoti allo specchio per dirti quanto sei bello e buono e bravo e intelligente e simpatico e spiritoso, e di lezioni di vita non ne prendo da nessuno. Meno che mai da un pallone gonfiato. Che le lezioni della vita le ho imparate tutte, compreso il modo di resisterci sopra il più a lungo possibile, non importa quanto possa scottare. [NOTA per te che leggerai: mi hai detto la stessa cosa e mi sono incazzata come una iena, e di lezioni di vita non ne accetto neanche da te. Però le altre cose che ho detto del pallone gonfiato per te non valgono, naturalmente. E tu sai perché]
Vabbè, consoliamoci delle brutture della vita con questa specie di aldilà (è questo il significato del titolo).
barbara