E DOPO QUARANT’ANNI DI PACE CON L’EGITTO

La pace continua ad esistere unicamente nella diplomazia ufficiale.
12 agosto 2016, Or Sasson e Islam el-Shehaby

e poi leggi qui.
28 agosto 2019, Sagi Muki e Mohamed Abdelaal

E ora godiamoci l’inno più bello del mondo

barbara

TENDI LA MANO, ISRAELE

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Tendi la mano, Israele, anche se non c’è nessuno a stringerla, e prendi il mondo a testimone di questa mano tesa. Finalmente si saprà chi sei: non una scheggia occidentale piantata nel cuore del Mondo Arabo, ma la punta di diamante del Medio Oriente nel mondo. (qui)

barbara

AGGIORNAMENTO
mi si fa notare (non me n’ero accorta, confesso), la zebiba sulla fronte dell’egiziano


che spiega tutto.

 

OGGI AVRESTI COMPIUTO 70 ANNI

 e invece è più di un quarto di secolo che te ne sei andato.

(se la vuoi leggere, vai qui)

Poi bisogna assolutamente leggere questa

NEW YORK 1987

Lettera aperta al Colonnello Gheddafi letta a New York in occasione del 10′ Convegno Internazionale degli Ebrei di Libia

Ci sono paesi disamati dalla storia. Incapaci di offrire ai loro popoli, contro un misero presente, la consolazione di un glorioso passato. Incapaci perfino di trarre profitto dalle loro disgrazie, di trasformare gli oltraggi subiti in leggende esportabili. Paesi che, privi di un fiume per benedire le loro terre, di un eroe per difenderle, di un poeta per cantarle, sono affetti da anonimato cronico.
Il paese in cui son nato è fra questi. Prima che il suo nome fosse propulso nel cielo dei media, dai capricci congiunti del petrolio e di un tiranno, quest’immenso territorio non è stato, per 2.000 anni, che una fabbrica di dune. Uno zero, un’amnesia, un sacco di sabbia sventrato e disperso su 1.759.000 chilometri quadrati di mancanza d’ispirazione del Creatore, una sala d’aspetto immemorabile dove non ha mai degnato fermarsi il treno di un’epopea, un vuoto, soffocante e torrido che separava, come una punizione, l’Egitto della Tunisia. Oggi ancora, benché l’afflusso di petrodollari gli abbia permesso di passare dall’oscurità all’oscurantismo, questo paese resta, agli occhi del mondo, l’anticamera delle Piramidi, il retrobottega dei gelsomini. Culturalmente parlando: il parente povero dell’Islam.
Il Colonnello lo sa. Anzi ne è così conscio che dopo aver importato i migliori architetti d’Occidente per tracciare audaci prospettive in questo gigantesco piatto di couscous spazzato dai venti e centinaia di artigiani dall’Oriente per ornarne i volumi ancora freschi di bassorilievi, rosoni, mosaici e vetrate – ha tentato di appropriarsi della storia dei suoi vicini, con proposte di matrimonio di un’insistenza patetica, generalmente rifiutate, o seguite da immediati divorzi.
Arrenditi all’evidenza, Colonnello. Né la tua bella faccia da antagonista, né il pennacchio dei tuoi pozzi, né le scie dei tuoi “mirage” in cieli non tuoi, né il tuo vivaio di terroristi riescono a trattenere a lungo l’attenzione del nostro mondo distratto. Una forza centrifuga maledetta fa svaporare il beneficio dei tuoi misfatti, come l’acqua dei tuoi “wadi”, impedendo alla tua periferia di trasformarsi in centro. Malgrado i tuoi sforzi, questo paese resta senza viso, come i tuoi sicari, e senza voce, come in passato.
A volte, quando il tuo sorriso gallonato mi sorprende, appeso ad un’edicola, mi congratulo con te, da lontano, per aver saputo una volta ancora risorgere dal sabbioso oblio al quale ti condanna il destino. E, forse per smussare il tuo perforante sguardo, o l’interminabile diga dei tuoi denti, mentre mi compro con 2.000 lire la tua testa da adulto, ti immagino bambino, sì, m’invento nostalgie da fratello maggiore e ti vedo, lupacchiotto di quattordici anni, disteso, la sera nella tua stanzetta, con l’orecchio al transistor, che ascolti esaltato la voce di Nasser, il cui carisma saturato ti arrivava dal Cairo, e ti sento esclamare, fra due incitazioni del Rais alla guerra santa “anch’io, un giorno, come lui!”
Il tuo sogno: aggiungere un nuovo capitolo, a tuo nome, nel Grande Libro dell’Islam. Ma Allah è grande, caro cugino, e nella sua immensa saggezza, deve aver deciso che era meglio riservare al tuo paese, che fu un tempo il mio, il ruolo esaltante di “antiporta”, cioè la pagina bianca che precede il testo, e che tale resta, se una dedica non viene ad abitarla
L’unico inconveniente è che tutte le popolazioni che vi hanno vissuto, nei secoli, hanno subito lo stesso destino di “cancellazione”. Cominciando dalle minoranze etniche o religiose, berbere, cristiane ed ebraiche, che chiamaste “dhimmi”, cioè cittadini “protetti”. Delicato eufemismo per dire ostaggi in attesa di conversione. Essere l’oppresso di un potente offre a volte vantaggi culturali: catene d’oro, tempo per piangere, ecc. Essere l’oppresso di un oppresso, nessuno. Ebrei di un paese senza luce, fummo gli ebrei più spenti del Mediterraneo.
Privi di quel prestigio di riflesso di cui godono, di solito, i domestici dei grandi Principi, e di cui godettero, almeno una volta durante il loro esilio, tutte le altre comunità. La nostra storia fu così negata, sepolta, per tanti secoli, che senza il libro dello storico Renzo De Felice, Ebrei in un paese arabo, un libro splendido, voluto con tenacia quasi mistica da un fratello della nostra comunità, di questa non resterebbe più, oggi, traccia, né, domani, ricordo. Infatti, dopo aver assaggiato come tutte le consorelle un menù di umiliazioni di una varietà squisita: massacro alla romana, alla mussulmana, alla spagnola, segregazione alla maltese, all’ottomana, leggi razziali nazi-fasciste, e per finire, pogrom post-bellici, compiuti dai nostri fratelli arabi sotto l’occhio dei nostri tanto attesi liberatori britannici, la mia comunità fu pregata di lasciare il paese l’indomani della Guerra dei sei giorni, meno i suoi morti, trattenuti per portare il loro contributo alla Rivoluzione, mediante ossa e lapidi le quali, debitamente frantumate dai bulldozer, sono servite da base a un’importantissima autostrada costruita d’urgenza per collegare il nulla al nulla, e a due giganteschi alberghi per un turismo tuttora inesistente. Così, io, Ebreo senza più radici né memoria, ho aperto il libro ed ho scoperto

  • che la nostra presenza in Libia risaliva a più di 2.170 anni;
  • che precedeva quindi non solo l’invasione araba, ma anche quella romana;
  • che, bellicosi e fedeli al nostro Dio, contro l’esercito romano ci eravamo sollevati, appena avuta notizia della caduta del tempio di Gerusalemme;
  • che quella sommossa ci era valsa decine di migliaia di vittime, ma anche una lapide in latino che riferisce il fatto, e senza la quale non sapremmo che fummo una così antica e coraggiosa comunità

Ma questa è storia, dicevo girando le pagine, storia che fonda la mia legittimità, ma non basta, io voglio di più, io… io non sapevo cosa volessi, ma lo trovai. A pagina 41.
Un censimento della popolazione ebraica di Tripoli.
Il primo della nostra storia. Effettuato da Giuseppe Toledano, capo della comunità, nel 1861, e miracolosamente scampato ai falò del Colonnello. E cominciarono a sfilare sotto i miei occhi, debitamente numerati:

  • 1 Rabbino capo
  • 17 Rabbini
  • 11 Studenti, e poi tornitori, droghieri, tavernieri, sterratori, sarti, macellai, scrivani, chiromanti, levatrici, facchini, donne e bambine, malati e mendicanti, in tutto: 4.500 abitanti.

Che il professar De Felice sia ringraziato per questo documento. Avevo finalmente sotto gli occhi la prova, inconfutabile che gente del mio sangue era effettivamente vissuta, lì, fra le dune e il mare, colmando, di generazione in generazione, la mitica voragine che separava nostro padre Abramo da mio nonno, Abramo anche lui. Certo non erano i poeti matematici filosofi e medici che fiorivano i giardini della Spagna mussulmana, e curavano i mal di testa dei califfi illuminati, ma era pur sempre la mia famiglia, o perlomeno il perimetro sociale entro il quale senza dubbio alcuno, si era mossa. Mi misi dunque a trascrivere questa lista a mano, sicuro che uno dei miei sarebbe passato, presto o tardi, sotto la mia penna. E questo modesto rito bastò a far sì che il vapore dei ricordi si condensasse dietro ai miei occhiali, che si mettesse a piovere, a distanza, su quella striscia di asfalto dove i miei morti giacevano prigionieri, che questa scoppiasse, che un albero ne uscisse, coronato di foglie, popolato di uccelli.
Il mio albero genealogico, per approssimazione.
Chi potrà più dire l’odore delle pelli e la loro lucentezza, ai tempi in cui il sapone si chiamava olio di mandorle? La magrezza indiana dei bambini, il carbone dei loro sguardi, quel modo così arabo di essere ebrei che avevano gli ebrei di Trablous. Donne prosperose o gracili, vestite di sete rigate, cangianti, la vita cinta in quadroni d’argento, le teste avvolte nei foulards i quali, scivolando cento volte al giorno sulle loro spalle, scoprivano capigliature corvine o rosso hanna, e ondulate come il mare visto dai terrazzi Odore di cammun, di felfel, di atar e gelsomino, fiori e febbri, spezie e sudori, correnti d’aria fritta o di orina nei cortiletti di quel dedalo scalcinato che era la Hara, il nostro ghetto [Hara, in arabo, significa merda, ndb]. E i turbini di mosche intorno agli occhi degli asini fatalisti, la polvere di loukhoum sul naso dei bambini buoni, e i capretti appesi nei giorni di mercato, le montagne di cipolle viola, di datteri lucenti, di peperoni dai colori fluorescenti; e i polli che venivano comprati vivi, e portati via tenuti dalle zampe, come mazzi di fiori, per essere uccisi in casa, secondo le regole, in fondo ai giardinetti miseri, – due gerani, un ramoscello di menta, un oleandro, la cui acida linfa, ad ogni fiore colto, vi si attaccava alle dita
Chi potrà più raccontare la severità, la misericordia, dei nostri vecchi barbuti, in turbante, Fez, Bertila o Arrakyia, secondo l’epoca, dottori della legge dalle mani nodose, dalle unghie di corno, dalla pelle scavata dal tempo, ceppi della fede giudaica ancorati, loro malgrado, in questa terra tanto più amata e tanto più esiliante che somigliava troppo alla patria perduta: come una lacrima a una goccia di pioggia.
Divina monotonia del cielo azzurro; stesse palme trionfali cariche di munizioni d’oro, stessi tramonti rapidi, che insanguinavano di sole morente i talleth dei nostri padri, riuniti a dieci per la preghiera della sera, sui balconi; stesse notti crivellate di stelle, stelle così vicine che il canto dei grilli sembrava la loro voce; notti di rugiada, che facevano gonfiare i cocomeri a scatti, imitando il gracidare dei ranocchi; albe di madreperla che li vedevano già in piedi, i nostri vecchi, con gli occhi di uva passa, a volte di uva verde, volti a Gerusalemme, per rendere grazie al Signore di questo nuovo giorno, che autorizzava loro a sperarne un altro e un altro ancora fino al giorno tanto atteso del ritorno alla Terra promessa; sposando, giudicando, benedicendo e morendo in quell’attesa, – mai completamente però, perché i loro figli, messi al mondo in quantità prodigiose (se non sono io, saranno loro, se sono tanti, uno vivrà, se sopravvive avrà dei figli e dagli occhi di uno di loro, finalmente, vedrò il muro. Paradossalmente, questa razza di individualisti non si considera come alberi di una foresta, ma come foglie di un medesimo albero, e, precisamente, la palma: ogni foglia è figlia e madre del tronco, ed è grazie a quelle che muoiono che l’albero cresce) perché i loro figli, dicevo, messi al mondo in quantità prodigiose, davano loro il cambio, prendevano cioè lo scialle e il Libro e si mettevano a vivere, pregare, procreare e morire a loro volta in attesa della partenza. Ma di cosa si lamenta? Dirà il Colonnello sotto la sua tenda. Voleva partire, l’abbiamo lasciato partire. Certo, ci hai perfino incoraggiati a farlo, spogliando i pochi pazzi, ancora attaccati alla loro terra, dei loro beni e dei loro diritti. Ma stai tranquillo, non è per nostalgia che ti scrivo. Non faccio parte di quei poveri infelici che per rivivere la loro infanzia tripolina vanno a passare le vacanze a Tunisi. Perché se c’è qualcosa che rifiuto di assumere, è proprio la catastrofica illusione della somiglianza, cioè, quella distanza, infima eppur vertiginosa, che separa la lacrima dalla goccia di pioggia, esattamente come quando, perduto in un souk, cerchi tua madre, la vedi, urli il suo nome, si gira e non è lei. lo, quando la chiamo, si gira ed è sempre lei: Gerusalemme, e quando voglio, ci vado.
Se ti scrivo, è per dirti che la nostra comunità è viva, che cresce e prospera, che si è rifatta, hamdullah. Perché avendo perso tutto non aveva altra scelta se non avanzare. Noi siamo come le api, Colonnello, se il padrone del campo ci ruba il miele a Settembre, lo rifacciamo in fretta, prima dell’inverno, e se continuiamo a punzecchiarti con le nostre richieste di risarcimenti è meno per interesse che per dignità, per ricordarti il tuo debito ma soprattutto la tua perdita. Siamo produttori di beni, materiali e morali, lo siamo sempre stati e tu lo sai, perché il lavoro non ci fa paura, perché il lavoro per noi non è mai stato punizione, bensì espressione, anzi, benedizione. La prova, dopo un mese nei campi-profughi di Latina e Capua, i nostri hanno abbandonato le baracche e sono partiti in cerca di lavoro, e l’Italia, che dandoci rifugio e cittadinanza ha creduto di farci la carità, si è ben presto accorta di aver fatto un investimento. Tu invece, come tutti i governanti del nuovo mondo arabo, hai voluto lavar via gli ebrei dal tuo tessuto sociale. Ne hai corroso le fibre: commercio, artigianato, agricoltura, professioni liberali, tutto si è dissolto, è volato via come sabbia nel Ghibli e tutta l’esperienza che comprate all’Occidente non potrà sostituire l’esperienza antica che avevamo noi di voi, noi, la cui vocazione è stata, da sempre, la comunicazione: fra gli esseri, i gruppi, le etnie, le discipline, i principi, gli stati, le civiltà. Vocazione che fu indispensabile alla grandezza dell’islam, dell’impero russo, di quello ottomano, della Germania prenazista, e che avrebbe potuto fare la tua, se tu l’avessi voluto. Pensa, cugino, era nato perfino un trovatore su questo pezzo d’inferno che governi. Con l’amore inspiegabile, quasi perverso degli ebrei per le terre matrigne che li hanno adottati, avrebbe potuto fabbricare ali ai tuoi re, ai tuoi eroi, ai tuoi santi e martiri per mandarli a dire al mondo che il tuo paese esiste. Avrebbe potuto cantarlo, il tuo deserto, con parole che avrebbero fatto cadere in petali questa rosa delle sabbie che hai al posto del cuore.
Ma Allah, che è grande e vede lontano, ha voluto, per tua mano, farci partire, affinché io andassi a cantare i miei canti sotto altri cieli, e che la tua nazione potesse proseguire, come in passato, il suo esaltante compito: essere la pagina vuota del Grande Libro dell’Islam.

Shalom ve Salam

Herbert Avraham Haggiag Pagani

E infine la Lettera ai fratelli, ultimo suo atto pubblico prima della morte.

barbara

LETTERA AI FRATELLI

di Herbert Pagani

Assediato dai quotidiani, con la vita sospesa fra un telegiornale e l’altro, giro nel mio laboratorio, incapace di lavorare.
L’indignazione, ostentata e clamorosa, dei media umilia la mia.
Cerco nel concerto delle esecrazioni le poche voci oneste, desiderose d’equanimità, quelle che ricordino il “prima” non per scusare, ma per spiegare il dopo, e colleziono i ritagli di questi rari parenti del pensiero, magro album di famiglia.
Ho rinunciato alla parola da anni, ma il mio silenzio è sempre più affollato da cose non dette. Nella certezza che nessuno mi darà ascolto, l’urgenza di scrivere a tutti.
Fratelli d’Occidente. Le svastiche ricominciano a sporcare i vostri muri. Prima di parlare, puliteli.
Fratelli Yankees. Quella di David non è una stella della bandiera americana. Israele è solo una briciola della grande focaccia mediorientale. Cosa aspettate a mettervi a tavola coi Russi? Più il tempo passa più la briciola indurisce. A qualcuno finirà per restare in gola.
Fratelli Russi. Mai stati così discreti come da quando vi hanno dato la parola. Troppo da fare fra Armeni e Afghani o desiderio di apparire neutrali in vista dell’ipotizzata conferenza internazionale? Avreste una strategia più efficace del silenzio, lasciate uscire i vostri ebrei; Israele vi riconoscerà titoli morali per proporre al Medio Oriente una pace che soddisfi anche voi.
Fratelli delle sinistre. La vostra sensibilità al calvario palestinese ha accenti sublimi, e radici malsane. Intrisi di un cristianesimo che credete di aver evacuato, troppi di voi sono ancora convinti che la vocazione degli Ebrei sia di abitare esclusivamente la storia altrui. Malgrado l’olocausto continuate a dubitare della necessità di uno Stato ebraico. Lievito per secoli delle vostre culture, la nostra volontà di ridiventare pane vi sembra innaturale. Allora chiedo: dopo quanti anni lo schiavo perde il diritto alla libertà e l’esule alla patria? Duemila sono forse troppi? Siamo caduti in prescrizione? E ancora: perché un popolo sia legittimo abitante di una terra occorre che l’abbia conquistata con la spada, l’aratro, il tempo, il denaro o un voto internazionale? Scegliete: Israele è stato agognato nel tempo (“l’anno prossimo a Gerusalemme”, preghiera bimillenaria di Pasqua), ricomprato col denaro (bossoli del KKL), bonificato con l’aratro (Kibbutz), difeso con la spada (4 guerre in 40 anni), e votato dall’ONU (29 novembre 1947, 33 voti a favore, 13 contrari e 10 astensioni). Se oggi Sansone dà bastonate alla cieca è anche colpa della vostra compiacenza nei confronti dei Filistei (Palestina deriva da Falastin, Filisteo).
Fratelli Cristiani. Il vostro Salvatore è nato dal grembo di una delle nostre donne. L’antisemitismo, nel grembo della vostra chiesa. Non c’è visita di Papa in Sinagoga che ce lo possa far dimenticare. Riconosca lo Stato d’Israele, Santità, e i giudizi del suo gregge cominceranno ad avere per noi un qualche valore.
Fratelli Musulmani, figli come noi di Abramo. Israele è un Paese imperfetto nato da un sogno necessario. Se non potete accettarlo è perché rincorrete un sogno opposto: quello dell’unità Araba. Nato dal ricordo dei vostri splendori passati, fu il vostro cemento nei secoli dell’umiliazione coloniale. Con la fine di questa, è crollato. Il “Mondo Arabo” non esiste. Esistono solo dei Paesi arabi, dai regimi incompatibili, più o meno legati da una stessa fede, e da una stessa malafede nei confronti d’Israele. Il vostro scopo non è mai stato quello di dare una patria ai Palestinesi, ma di impedire agli Ebrei di averne una. Poiché fummo nella vostra storia ciò che le donne furono nelle vostre famiglie – soggetti di second’ordine, senza diritto di parola – il nostro desiderio di emancipazione è sembrato anche a voi scandaloso, contro natura. Incapaci di espellere Israele dal vostro corpo geografico avete espulso gli Ebrei dal vostro corpo sociale. Li avete costretti alla fuga. Così facendo avete confermato la vocazione al rifugio di Israele; avete incrementato gli effettivi del vostro nemico; vi siete privati di uno degli argomenti più trainanti della propaganda araba: Israele scheggia occidentale. Oggi la popolazione israeliana è costituita per due terzi da profughi dei Paesi arabi, o come dice Sua Maestà Hassan II del Marocco, da Arabi di religione ebraica. I Palestinesi sono rimasti la vostra ultima arma. Li avete caricati come una bomba a orologeria: con “timer” generazionale. Divenuta anch’essa troppo difficile da maneggiare, l’avete abbandonata sul terreno. Oggi esplode a catena, ovunque.
Fratelli Palestinesi. I campi nei quali siete nati sono opera di una precisa volontà araba. Gli atti terroristici di quelli che si ergono a vostri paladini non fanno che ritardare la vostra liberazione. E’ più conveniente discutere con un nemico sincero che prestar fede a leaders di provata falsità. Oggi siete soli davanti ad Israele. Guardate bene questo esecrato avversario. Non se ne andrà mai. Per due ragioni: Israele è l’unico Paese al mondo dove sporco ebreo significa un ebreo che non si lava. E’ l’unico i cui invasori, quando scavano il suolo della terra occupata, ritrovano le tombe dei loro antenati. E’ inoltre l’unico di questa parte del globo in cui si può votare, esprimersi liberamente, e per assurdo che possa sembrare, è il solo dove abbiate ancora qualche amico. E’ troppo tardi per chiamarli in aiuto? Spero di no. Prego di no. Dio, al quale non credo, al quale credo, al quale faccio tanta fatica a credere, se è vero che un giorno fermasti il sole, ferma per un istante la moviola dei secoli. Congela a mezz’aria pietre, pallottole e bastoni. Gli uomini hanno forse ancora qualcosa da dirsi, e io due parole da dire ai miei.
Ascolta, Israele. L’Eterno tuo Dio è Uno, e i suoi figli sono tutti i bambini del pianeta. Secondo me c’è un refuso nella Bibbia: tu non sei il popolo eletto ma il popolo elettore. Hai eletto Dio a Presidente della tua storia per l’eternità, e se sei sopravvissuto fino ai nostri giorni allorché tante civiltà sono scomparse, è perché sei stato fedele alle sue Leggi. Egli ti ordina di difenderti ma anche di amare. Amare è assumersi la responsabilità del prossimo. Il tuo prossimo è là davanti a te. Ha demolito la tua immagine agli occhi del mondo, rubato i tuoi amici, ucciso i tuoi figli, e si è servito dei suoi come esca. Guarda chiaro, Israele! Avviene per i popoli come per i bambini. Alcuni si danno una vita violenta per mancanza di genitori vigili alle loro necessità. Prima di te, Israele, i Palestinesi come Nazione non esistevano. Sono nati dall’averti visto nascere, sono cresciuti all’ombra delle tue vittorie, e se oggi gridano che vogliono tutto, anche Tel Aviv e Haifa, è più per disperazione che per convinzione: non hanno più niente. Lo so, avrebbero potuto tenersela quella parte di terra assegnatagli dall’ONU nel ’47. Ma chi sbaglia i calcoli nella storia non può essere penalizzato in eterno. Lo so, non c’è con chi parlare. Tutti i Palestinesi moderati sono più o meno succubi dell’OLP, e l’OLP prevede ancora, nel suo statuto, la liquidazione dello Stato di Israele. Lo so, non esiste in tutta la diplomazia il caso di uno Stato sovrano disposto a trattare con chi si prefigge la sua distruzione. Il mondo ti chiede l’impossibile: trovare, a rischio della tua sopravvivenza, una soluzione che poggi sulla morale che tu hai insegnato al mondo e che esso ogni giorno, ovunque, trasgredisce. Il mondo che di te non ha avuto pietà, pretende da te pietà per chi di te non ne ebbe e domani, probabilmente, non ne avrà. Provaci lo stesso. Siamo abituati ai miracoli. E i miracoli oggi sono quelli degli uomini che con un gesto inatteso crollano il corso della storia. Tendi la mano, Israele, anche se non c’è nessuno a stringerla, e prendi il mondo a testimone di questa mano tesa. Finalmente si saprà chi sei: non una scheggia occidentale piantata nel cuore del Mondo Arabo, ma la punta di diamante del Medio Oriente nel mondo. 
                    HPagani
Questa “Lettera ai fratelli” è stata l’ultimo atto pubblico di Herbert Pagani, prima della morte. (L’ho letta dozzine di volte, e ogni volta mi commuovo fino alle lacrime)

E visto che sei arrivato fin qui, adesso guarda anche questo, del 1975 



e leggi questo.

barbara