Liberare assassini porta la pace
di Stefano Magni
Isaac Rotenberg era riuscito a sopravvivere ai nazisti. Deportato a Sobibor era riuscito a fuggire e a raggiungere la resistenza ebraiche che combatteva nelle foreste dell’Est europeo. Dopo aver corso pericoli mortali di ogni genere, dopo essere scampato al più intenso sterminio della storia, era finalmente “in salvo” in Israele, quando stava lavorando in un cantiere a Petah Tikvah, nel 1994, un anno dopo l’avvio del “processo di pace”. Proprio lì, a casa sua, è stato assassinato a colpi d’ascia da un palestinese, Hazem Kassem Shbair.
Un anziano signore in pensione, Moris Eisenstatt, nel 1994 stava leggendo un libro, seduto su una panchina di Kfar Saba, quando è stato assassinato a colpi d’ascia da un altro palestinese, militante del partito Fatah, Ibrahim Salam Ali. Israel Tenenbaum, lavoratore agricolo, di notte prestava servizio volontario (per arrotondare lo stipendio) come guardia notturna di hotel. Aveva 72 anni quando, nel 1993, l’anno di inizio del “processo di pace”, fu aggredito a colpi di spranga da un militante di Fatah, Salah Ibrahim Ahmad Mugdad. David Dadi e Haim Weizman stavano dormendo nell’appartamento di Weizman, quando due palestinesi, Abu Satta Ahmad Sa’id Aladdin e Abu Sita Talab Mahmad Ayman, hanno fatto irruzione a casa loro e li hanno assassinati entrambi. Per dimostrare ai compagni di lotta che li avevano realmente assassinati, i due palestinesi mozzarono le orecchie alle loro vittime e le portarono come trofeo e prova dell’avvenuto delitto.
Ian Sean Feinberg, 30enne, padre di tre figli, era un idealista: nel 1993, primo anno del “processo di pace”, lavorava e studiava su progetti di sviluppo economico dei territori palestinesi. Era a una riunione di lavoro a Gaza, quando Abdel Aal Sa’id Ouda Yusef lo uccise a colpi di pistola. Tutti questi uomini, cittadini israeliani che avevano solo la colpa di essere ebrei in Israele, non ritorneranno più in vita. In compenso, i loro assassini e molti altri, sono tornati in libertà.
Gli assassini di cui sopra sono infatti parte della lista dei 26 prigionieri palestinesi (definendoli così sembrerebbero quasi dei prigionieri politici, o di coscienza) scarcerati, in cambio di una vaga promessa. Neanche una promessa di pace, ma un impegno, ancora privo di garanzie, a “ricostruire fiducia”. Le vittime israeliane e i loro parenti ancora in vita non hanno diritto di parola.
L’unico ministro che si è opposto alla loro liberazione, Naftali Bennett, è accusato di essere un “fascista”. L’unica preoccupazione apparente dei media italiani pare essere la ripresa delle costruzioni di case negli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Una “provocazione” che, così alcuni dicono, sarebbe stata ottenuta come contropartita alla liberazione dei killer di Fatah. È “realpolitik”, pensa e dichiara il premier Benjamin Netanyahu. Vale la pena di liberare 26 omicidi per costruire quattro case in più? Non solo. C’è la speranza che la loro scarcerazione sia solo un primo passo di un nuovo “processo di pace”. Un po’ come quello degli anni ’90, durante il quale furono assassinate tutte le vittime dei killer di Arafat.
(L’Opinione, 1 novembre 2013)
E poi provate a immaginare
Immaginate per un momento che Baruch Goldstein, l’ebreo che uccise 29 palestinesi musulmani e ne ferì altri 125 alla Cava dei Patriarchi a Hebron nel 1994, non fosse stato ucciso dagli scampati ma catturato, processato, condannato e messo in una prigione palestinese.
Immaginate che Goldstein avesse commesso questo atto in quanto membro di una organizzazione affiliata al partito Likud del primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu.
Ora immaginate che Netanyahu dichiari che non ci potrà essere pace fino a quando Goldstein non venga liberato.
Immaginate poi che l’Autorità Palestinese decida di liberare Goldstein per far avanzare il processo di pace, e che migliaia di israeliani celebrino il suo ritorno in Israele, compreso il primo ministro Netanyahu.
Come reagirebbe il mondo? Immagino che Netanyahu sarebbe unanimemente condannato per la sua parte nell’assassinio dei fedeli palestinesi e per avere preteso la liberazione dell’assassino, gli israeliani sarebbero condannati per avere festeggiato il suo rilascio, e la nostra buona fede nel processo di pace sarebbe messa seriamente in dubbio.
Ora immaginate quest’altro scenario: Netanyahu in realtà è Mahmoud Abbas, gli israeliani sono i palestinesi, e Baruch Goldstein è decine di terroristi palestinesi imprigionati per l’assassinio di molti israeliani innocenti.
Ah no, questo non dovete immaginarlo: questo è successo.
Migliaia di palestinesi si sono radunati a Ramallah nelle prime ore di mercoledì mattina per salutare 21 prigionieri liberati dalla prigione israeliana nella West Bank come parte di un accordo per il proseguimento dei colloqui di pace israelo-palestinesi. Altri cinque palestinesi erano stati rilasciati prima a Gaza. Tutti e 26 erano condannati per omicidio, la maggior parte processati per crimini commessi prima degli accordi di Oslo del 1993.
Dalla folla si sono levate acclamazioni, molti portavano bandiere palestinesi e di Fatah, macchine fotografiche, AK-47 mentre gli uomini liberati venivano portati sulle spalle dai furgoni che li avevano portati dalla prigione di Ofer alla città palestinese. Sopra il frastuono si potevano udire spari celebrativi, fischi e grida di Allahu Akbar.
I prigionieri sono stati salutati di fronte al mausoleo di Yasser Arafat, nei pressi del quartier generale dell’Autorità Palestinese a Ramallah, da varie autorità palestinesi guidate dal presidente Mahmoud Abbas che li ha abbracciati e baciati uno per uno.
Rivolgendosi ai palestinesi riuniti, Abbas ha detto che non ci sarà alcun trattato di pace fino a quando ci saranno palestinesi dietro le sbarre in Israele, e che proseguirà nei suoi sforzi per liberare tutti i prigionieri dalle carceri israeliane.
Devo dire che non sto sentendo molte condanne per Abbas e il suo popolo.
Potete leggere altre informazioni sui terroristi rilasciati e sulle loro vittime – fra cui alcuni vecchi e un sopravvissuto all’Olocausto – qui. (fonte sconosciuta, traduzione mia)
barbara