E questa è la gonna che sto facendo
E dato che le foto me le ha fatte la deliziosa ragazza che mi permette di avere una casa decente e lenzuola lavate e stirate, come accompagnamento sonoro vi propongo la bella lavanderina.
Che poi io questa la saprei anche ballare, solo che, dopo che mi sono spaccata tutte e due le zampe e ho fatto due mesi in sedia a rotelle e tutto il resto che è seguito, dopo l’incidente che mi ha resa per mesi semiinvalida, dopo la frattura della vertebra, con immobilità inevitabile per i tre mesi del busto e quasi immobilità prescritta per mesi dopo che l’ho tolto, mi sono accorta che non sono più capace di saltare: proprio non mi si sollevano i piedi da terra. Mi concentro tutta, tendo al massimo i muscoli di gambe e cosce, e riesco a sollevarmi di un paio di centimetri. Adesso comunque mi esercito, e appena mi sono rimessa vi faccio un fischio e venite tutti ad ammirarmi, ok? (e nei commenti al video – ci credereste? Beh sì, in effetti cosa c’è di più ovvio? – ci sono invettive contro i sionisti che fomentano le guerre vendendo armi a tutto il mondo. Ach, quella povera mamma degli imbecilli senza preservativi).
del 1986. Ora ve lo confesso: io ho un difetto – lo so, lo so, adesso siete tutti lì a strepitare nooooo, non è vero, non è possibile, non esiste, ma non scherziamo, non diciamo stupidaggini, ma quando mai… – e invece sì, ce l’ho: io lavoro in maniera compulsiva, sono assolutamente incapace di lavorare in modo diverso. All’università, per esempio, gli esami che gli altri preparavano in quattro mesi lavorando otto ore al giorno, mezza giornata il sabato e riposo la domenica, io li preparavo in venti giorni, lavorando venti ore al giorno sette giorni la settimana. La tesi di laurea – che, per inciso, mi ha fruttato sette punti – l’ho scritta in 36 ore, con tutte le citazioni in tedesco e traduzione in nota; ero nella stessa stanza con la signora che me la batteva a macchina, io avevo la pila di fogli su cui scrivevo, quando lei aveva finito di battere i fogli precedenti mi veniva davanti io sollevavo per un secondo la penna, lei sfilava il foglio e lo metteva sopra gli altri già scritti e io continuavo a scrivere, senza soluzione di continuità, sul foglio sottostante. Quando comincio una cosa, devo vederla subito finita, e non mi posso fermare fino a quando non ne vedo la conclusione (per la tesi, per la verità, c’era il problema della scadenza, ma probabilmente l’avrei fatta più o meno nello stesso modo anche se avessi avuto più tempo). Qualcuno forse si chiederà, e qual è il problema? Il problema è che se per un qualsiasi motivo sono costretta a interrompermi, non sono più in grado di riprenderla e completarla. È stato così che nell’inverno del 1979, mentre stavo preparando microbiologia, mi sono presa una brutta bronchite seguita da influenza, mi sono fermata per due settimane e la mia carriera di futuro medico si è affossata lì. Prima o poi – lavorando, vivendo a oltre 300 chilometri dalla sede universitaria e non potendo ovviamente frequentare – i miei studi di medicina si sarebbero dovuti interrompere comunque, adesso lo so con certezza, e non è detto che sia un male: probabilmente non sarei mai stata un buon medico (troppo emotiva, totalmente incapace di evitare di lasciarmi coinvolgere), però mi è dispiaciuto lo stesso. È stata una bella esperienza, comunque, e non mi pento di averla fatta. Ma quello che volevo dire è che se mi fermo, non sono più capace di ripartire. La cosa vale anche per i miei lavori manuali, pizzi all’uncinetto, ricami o lavori a maglia che siano: c’è gente che fa un maglione in un anno, io facevo una gonna arricciata più maglione più sciarpa in due settimane. Ecco. E ora vengo a quel lontanissimo mese di maggio del 1986. È stato in quei giorni che ho cominciato l’ennesimo maglioncino, carino carino, rosso fuoco con un bel disegno operato. Ho fatto la schiena, ho fatto il davanti, li ho cuciti, ho rifinito la scollatura, ho fatto una manica, ho iniziato la seconda manica; arrivata a questo punto, dovendo andare a Roma a sostenere il colloquio per la Somalia, ho interrotto per tre giorni. E da quel maggio 1986 il mio maglione è rimasto lì, superando indenne tre decenni e tre traslochi. Ogni tanto ho tentato di riprenderlo in mano, nel corso dei successivi decenni ho faticosamente finito la seconda manica, ho cucito la prima, ma quell’oretta circa di lavoro necessario per finirlo non sono riuscita, in trent’anni, a trovarla. Niente, era per dire che l’altro ieri l’ho ripreso in mano e l’ho finito.
(sì, a casa mia ci sono i pavimenti storti, e quindi sono storti anche tutti i mobili) E visto che ho ancora lana, adesso farò anche la gonna con lo stesso motivo. La cosa curiosa è che un capo d’abbigliamento messo in cantiere trent’anni e venti chili fa mi vada a pennello.
Questo invece non c’entra niente, ma siccome è bellissimo, ve lo regalo.
Visto che alcune le avevo già fotografate, a gentile richiesta ecco a voi alcune delle gonne di mia produzione.
Nota: di quella blu e di quella marrone c’è anche il maglione, di quella oro il gilet e lo scialle.