Visita al Monte del Tempio. Il mitico Dan Bahat, archeologo di fama mondiale che ci fa da guida, settantanovenne vispo come un grillo,
spiega e racconta e tutti noi, intorno, ascoltiamo. Ad un certo punto uno del gruppo posa un braccio sulle spalle della moglie; immediatamente piomba lì un poliziotto palestinese con l’espressione truce e furiosa: vietato abbracciarsi! (ammazzare invece sì, quello non profana il “luogo sacro islamico”).
La tomba di Rachele. Che in realtà non era in programma, è stato Giulio Meotti a volerla inserire in extremis – e ne approfitto per mettere un’altra foto.
Mi piace un sacco questa in ombra con le fronde sulla testa (e mi sa che dev’essere proprio salice, anche se non avevamo niente da appendere). La tomba, dicevo. Per proteggerla hanno dovuto costruirle tutta quella cosa enorme intorno, ma la stanza della tomba vera e propria è piccola, e vi si accalca una grande folla di donne (anche di uomini, ma dall’altro lato), e per arrivarci bisogna infilarsi, sgusciare fra un corpo e l’altro, strusciandosi, spingendo, comprimendo, guadagnando centimetro dopo centimetro, millimetro dopo millimetro, e quando si raggiunge finalmente la tomba si ha davanti un muro di braccia protese a toccarla, in un silenzio assoluto tranne qualche sussurrare di preghiera. E finalmente ci sono arrivata, ho infiltrato la mia mano, fra braccio e braccio, fra polso e polso, fra mano e mano. Tutta intera non ci stava, ho posato solo le dita, ma è bastato: l’ho sentita, la corrente che dalla punta delle dita mi percorreva tutto il corpo e vi scorreva dentro come acqua di torrente, e una tale sensazione di pace, di serenità, di dolcezza, di leggerezza, come se non avessi più peso. Non più di qualche secondo, perché altri corpi premevano, altre mani urgevano, ma è stato sufficiente a poter dire che ho vissuto un’esperienza. (Dite che non è razionale? OK, ho vissuto un’esperienza non razionale: qualche problema?).
Alla tomba dei Patriarchi. Credo sia stato alla tomba di Sarah: giovanissima madre seduta in un angolo, profondamente immersa nel suo libro di preghiere, con accanto la carrozzina col figlio di pochi mesi. Mi avvicino, lo guardo, mi guarda; sorrido, sorride; avvicino una mano, sfioro una delle sue, muovo le dita. Lui, che sicuramente non ha mai visto delle unghie rosse, le guarda affascinato, poi mi prende la mano fra le sue e ci gioca. La madre, pur sempre profondamente immersa nella sua preghiera, intravvede il mio gioco con suo figlio, intravvede il mio e il suo sorriso e il suo viso, già luminoso di suo per la preghiera di un’intensità sconosciuta alla maggior parte di noi, si illumina ancora di più, di una luce tutta speciale.
Passeggiata sul lungolago del Kinnereth, in una notte di luna piena.
Ad un certo punto comincia ad arrivarci della musica. Proviene da uno di quei club esclusivi, in cui non basta pagare per entrare, e comunque nessuno di noi ha il desiderio di entrarci, senonché una dice, io vado a chiedere! È una signora anziana, notevolmente malmessa, con problemi di deambulazione, che su scale e terreni sconnessi ha bisogno di aiuto e a volte è costretta anche a rinunciare. Beh, la vediamo, allibiti, prendere la scala che dalla strada scende fino all’ingresso del club, sbilenca ma decisa e neanche eccessivamente insicura, raggiungere il portiere e discutere un bel po’ con lui – il come è rimasto un mistero, dato che oltre al romanesco non ci risultavano altre lingue conosciute. Alla fine è tornata su avvilita, confermando che possono entrare solo i soci del club. Dove comunque si dimostra che l’entusiasmo fa miracoli.
Le medicine. Avevo dimenticato a casa la borsina delle medicine: l’avevo lasciata sulla credenza per non doverla ritirare fuori se mi fosse venuto in mente qualcosa all’ultimo momento, e poi è rimasta lì. All’aeroporto mi è stato suggerito di andare al pronto soccorso a farmi fare una ricetta e poi prenderle nella farmacia lì. Naturalmente mi faccio accompagnare da Manuel, essendo quella che si perde nel corridoio di un bilocale. È vero che negli aeroporti, anche quelli molto grandi, è impossibile perdersi, e infatti non mi ci sono mai persa, ma un conto è andare al check in o al gate, altro cercare un pronto soccorso che sta al piano sotto di quello sotto di quello sotto e ci sono ascensori che servono per andare in un posto e altri che invece non ci vanno e infatti prima abbiamo preso l’ascensore sbagliato poi abbiamo preso quello giusto ma sciamo scesi al piano sbagliato ma insomma alla fine ci siamo arrivati. È vero che ci ero già stata, al pronto soccorso di Malpensa, ma quella volta ci ero arrivata in sedia a rotelle portata dall’addetto all’assistenza, mentre adesso ci dovevo arrivare con le mie gambe. Vabbè, arriviamo, spiego il problema all’infermiere che sta all’accettazione, lui prende il telefono, chiama il medico e gli spiega a sua volta il problema; poi, mentre aspettiamo che il medico arrivi, chiede: “Dove andate di bello?” In Israele, dico. E lui: “Bello! At medaberet ivrit?” Parli ebraico? Non era israeliano, e neanche ebreo; semplicemente cinque anni fa gli è improvvisamente venuta l’ispirazione di studiare l’ebraico e da allora ogni settimana si fa la sua ora di lezione, ci ha mostrato il libro che si porta dietro sempre per studiare nei momenti morti, il quaderno degli esercizi, e si è messo a parlare con entusiasmo della sua sconfinata ammirazione per questa cultura, e per questo popolo che ha preso in mano un pezzo di deserto e in pochi decenni lo ha trasformato in uno stato all’avanguardia in tutti i campi, agricoltura compresa.
Il portabottiglie termico. Quando sono entrata in albergo, a Gerusalemme, lo avevo, ne ero sicurissima. Poi però in camera quando, tolte dalla valigia le cose che mi servivano, l’ho cercato per bere, non c’era più. Evidentemente dovevo averlo posato da qualche parte nell’atrio e dimenticato lì, sicché sono andata alla reception e ho chiesto se fosse stato trovato. Mezz’ora dopo uno del personale ha bussato alla mia camera, con due portabottiglie termici che erano stati trovati in giro, ma nessuno dei due era il mio. Ne avevo un altro, quindi per tenere in fresco l’acqua non avevo problemi, ma mi seccava perché la sera precedente, nel sistemare tutte le cose in valigia, avevo dimenticato fuori gli orecchini, e la mattina, quando li ho trovati sopra il mobile, non sapendo dove metterli, li avevo infilati nel taschino portacellulare del portabottiglie. Non erano di valore, ma erano belli. Tre giorni dopo, nel lasciare l’albergo di Gerusalemme, sistemate tutte le cose, chiusa la cerniera e tirato su da terra il trolley, ho trovato il portabottiglie appeso al manico del trolley, dove lo avevo infilato quando ero entrata in albergo, in attesa di ricevere la mia chiave, e rimasto per tutto il tempo sotto la valigia (diciamolo, comunque, che è un gran bastardo).
Il malore. È stato a Zfat il penultimo giorno – quello prima della catastrofica caduta. Eravamo appena scesi dall’autobus e stavamo iniziando una scalinata quando, al secondo gradino, mi sono sentita male; al terzo mi sono detta non ce la faccio, ho tentato di fare il quarto, poi ho rinunciato e mi sono dolcemente accasciata. Poi Claudia si è messa a farmi vento con un depliant e poi qualcuno le ha dato un ventaglio e lei e Manuel mi sono rimasti vicino mentre gli altri hanno proseguito, che poi comunque quando mi sono ripresa li abbiamo raggiunti perché si erano tutti fermati a fare pipì (in Israele il clima è estremamente secco, essendo in gran parte deserto, e bisogna bere moltissimo, sicché praticamente si passa metà tempo a visitare e metà a pisciare).
Ma era del malore che volevo parlare, o meglio del momento in cui ho rinunciato a tentare di resistere e mi sono lasciata andare: è un’esperienza che avevo già vissuto, e la sensazione è stata esattamente la stessa: sei in pubblico, hai l’impressione che crollare giù come un sacco di patate ti faccia fare una bruttissima figura, ti vergogni, ti senti imbarazzato, ti preoccupi di quello che può succedere dopo, tenti di resistere… e poi senti che non puoi, che non c’è niente da fare, che ti devi arrendere e decidi di smettere di combattere. Crolleresti anche se tentassi di resistere ancora, ma di lasciarti andare in quel momento lo decidi tu: non sei l’oggetto passivo di una forza più grande di te bensì il soggetto attivo di una scelta. E la sensazione provata è quella di una liberazione, di una pace assoluta, di un benessere assoluto, di un piacere assoluto e intensissimo.
Forse, quando arriverà la mia ora, sarà così che mi sentirò nel momento in cui deciderò di smettere di resistere, lascerò andare i remi e mi abbandonerò alla corrente.
barbara