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UN ALTRO PO’ DI ROBE

Pubblicato da blogdibarbara in Uncategorized ed etichettato con buca, Caraibi, cardiologo, gambe, mango, mare, onde, Repubblica Dominicana, spiaggia, vacanza Maggio 4, 2014

L’appello. È stato durante il volo di andata, e mi ha fatto stare davvero male. Lo hanno ripetuto tre volte, due l’assistente di volo e la terza il comandante: se fra i passeggeri c’è un cardiologo, o almeno un medico qualsiasi, si rechi urgentemente in cabina. Io ero nelle prime file, l’ingresso alla cabina di pilotaggio stava davanti ai miei occhi, e non ho visto arrivare nessuno. Mancavano cinque ore all’arrivo, ed eravamo in mezzo all’oceano, vale a dire senza alcuna possibilità di effettuare uno scalo di emergenza.

La passeggiata. La penultima sera, dopo il tramonto, quando ormai era quasi buio, mi sono avviata lungo la battigia (si chiama battigia) per una lunga lunga lunga passeggiata nell’aria calda, coi piedi carezzati dalle onde che andavano a spegnersi sulla spiaggia, e il profumo di salso e il canto della marea e della risacca.
passeggiata 1
passeggiata 2
Quando sono tornata indietro era praticamente notte, e qui devo tornare un momento indietro. Per tutto il giorno due ragazzi avevano infaticabilmente lavorato a scavare una grande buca. Si erano perfino portati dietro il grande ombrello in dotazione a ogni camera per poter continuare a lavorare anche nelle ore più calde; io ogni tanto li guardavo e mi dicevo: quando viene buio, o se la marea la copre, va a finire che qualcuno ci casca dentro. E adesso vi faccio la domanda da trecentomila miliardi di dollari: indovinate chi è che ci è finito dentro. Sì, bravi, esatto. Fino quasi alla vita ero dentro, e non ho le gambe corte, ma proprio proprio per niente. E poi arrampicarmi fuori, strofinando sulla sabbia le mie povere ginocchia martoriate e le gambe malconce. Vabbè, ma non era di questo che volevo parlare, bensì della borsa da spiaggia con tutte le mie cose che non c’era più. Ho ripercorso avanti e indietro tutto quel pezzo di spiaggia per quattro volte, scrutando attentamente ogni lettino, ma la borsa proprio non c’era. Dentro c’era il vestito, e pazienza, potevo anche rientrare in bikini, ma nella tasca del vestito c’era la tessera-chiave, e un’ultrasessantenne che attraversa l’albergo e si presenta alla reception in microbikini per spiegare tutta la storia e chiederne un duplicato non è che faccia tanto un bel guardare. In spiaggia sto come mi pare e chi non gradisce lo spettacolo cambi canale, ma se vado in giro io ad esibirmi il discorso cambia un po’. E poi c’erano le creme, e pazienza. E poi c’erano gli occhiali da sole e quelli da vista, e lì pazienza mica tanto. E poi c’era il kindle (sì, mi è stato regalato un kindle. E chi dice che non è la stessa cosa che girare le pagine di un libro ha perfettamente ragione, ma in viaggio è una mano santa: io ho letto dieci libri con un peso totale di 165 grammi più 40 del cavo per ricaricarlo. Se mi fossero capitati dieci giorni di pioggia tutti di fila e fossi rimasta in camera a leggere altri dieci libri, c’erano, senza aumentare il peso di un grammo). Non ero veramente preoccupata, a dire la verità: ero quasi sicura che l’avesse presa qualcuno del personale, pensando che fosse stata dimenticata; il problema era scoprire dove fosse stata portata, e trovare qualcuno a cui chiederlo, visto che in giro non c’era più nessuno. Poi ho visto due tizi tra le palme e li ho chiamati e ho spiegato la cosa, quelli hanno parlottato un momento tra di loro, dopodiché uno dei due si è diretto a un lettino sopra il quale, ben nascosta sotto un asciugamano, c’era la mia borsa. Dopo una breve ricerca abbiamo ritrovato anche gli zoccoli (gran bella cosa sapere le lingue, anyway). La sera dopo, comunque, l’ultima, la passeggiata seminotturna l’ho fatta con la borsa in spalla.

Le gambe. Naturalmente sapevo benissimo che mi facevano un male bestia, ma fino a quel momento non mi ero resa conto fino a che punto. Il primo segno è arrivato quando sono entrata in acqua, e le onde che mi colpivano i polpacci mi provocavano un discreto dolore. Poi un’onda più forte mi ha fatto perdere l’equilibrio e sono caduta, toccando con l’esterno della gamba destra il fondo sabbioso. Toccando, non sbattendo. Sono quasi svenuta per il dolore. (Il fatto è che ho sempre convintamente sostenuto di non avere mai perso i sensi. Ora, per avere l’esterno della gamba destra in quelle condizioni, ci devo avere preso un urto tremendo, e questo è il punto: io non ricordo urti a destra. L’auto mi ha raggiunta a sinistra, perché ero ancora nella prima metà della strada, e da lì veniva, e poi sono caduta sull’asfalto in avanti. Quando è arrivato questo colpo da destra, evidentemente, io non c’ero).

Il mango. Immensamente amato quando stavo in Somalia, e del quale ho sofferto quasi trent’anni di astinenza. È vero che arriva anche in Europa, e per due volte avevo ceduto alla tentazione di prenderne uno importato, una volta in Germania e una qui, ma è stato come (mi rivolgo ai miei lettori maschi) aspettarsi un incontro con B.B. (quella di mezzo secolo fa) e trovarsi nel letto una bambola gonfiabile a forma di L.L. Finalmente sono tornata a mangiarlo, raccolto maturo e portato in tavola in tempi brevissimi. Se esiste un paradiso, deve avere sicuramente il sapore del mango.

E i miei pranzi con vista.
pranzo con vista
barbara

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