Che l’olocausto non è mai avvenuto, che è una balla colossale inventata dai sionisti per impietosire il mondo e rubare impunemente la Palestina ai palestinesi che ci vivevano da dodicimila anni eccetera eccetera. Ecco, quanto segue è la prova documentale che ad Auschwitz, appunto, non è mai successo niente.
Rudolf Höss: non solo un assassino
Forse qualcuno ancora non sa (è strano, ma potrebbe essere così) che il primo comandante del campo di sterminio di Auschwitz, Rudolf Höss, prima di essere impiccato ha scritto un libro di memorie, con il titolo italiano “Comandante ad Auschwitz”. Ne riportiamo qui un estratto.
«Questo sterminio in massa, con tutti i fenomeni che lo accompagnarono, per quanto so, non mancò di lasciare tracce in coloro che vi presero parte. In verità, tranne pochissime eccezioni, tutti coloro che erano comandati a questo mostruoso «lavoro», a questo «servizio», ed io stesso, ebbero abbondante materia di riflessioni, e ne serbarono impressioni assai profonde. La maggioranza di essi, quando compivo i giri d’ispezione agli edifici destinati allo sterminio, mi si avvicinavano per sfogare con me le loro impressioni e le loro angosce, nella speranza che potessi aiutarli. La domanda che inevitabilmente sgorgava dalle loro conversazioni confidenziali era sempre una: è proprio necessario ciò che dobbiamo fare? È proprio necessario sterminare cosi centinaia di migliaia di donne e di bambini? E io, che nel mio intimo mi ero posto infinite volte le stesse domande, ero costretto a rammentar loro il comando del Führer, perché ne traessero conforto. Dovevo affermare che questo sterminio degli ebrei era veramente necessario, affinché la Germania, affinché i nostri discendenti, per il futuro fossero finalmente liberati dai loro nemici più accaniti.
È vero che l’ordine del Führer era indiscutibile per tutti, così come il fatto che questo compito dovesse essere assolto dalle SS. Ma ciascuno era tormentato da dubbi segreti. Quanto a me, in nessun caso avrei potuto esternare i miei dubbi. Per costringere i miei collaboratori a tener duro, dovevo a mia volta mostrarmi incrollabilmente persuaso della necessità di realizzare quell’ordine cosi spaventosamente crudele. Gli occhi di tutti erano fissi su di me; tutti scrutavano le impressioni suscitate in me dalle scene che ho descritto, tutti studiavano le mie reazioni. Insomma, ero al centro dell’attenzione di tutti, e ogni mia parola era oggetto di discussione. Dovevo perciò controllarmi all’estremo, perché sotto l’impressione di simili avvenimenti non venissero alla luce dubbi ed angosce. Dovevo apparire freddo e senza cuore, di fronte a fatti che avrebbero spezzato il cuore di ogni essere dotato di sentimenti umani. Non potevo neppure voltarmi dall’altra parte, quando sentivo prorompere in me emozioni anche troppo comprensibili. Dovevo assistere impassibile allo spettacolo delle madri che entravano nelle camere a gas coi loro bambini che piangevano o ridevano.
Una volta vidi due bambini talmente immersi nei loro giochi da non udire neppure la madre, che cercava di portarli via. Perfino gli ebrei del Sonderkommando non ebbero cuore di afferrare quei bambini. Lo sguardo implorante della madre, che certamente sapeva che cosa sarebbe accaduto di lì a poco, è qualcosa che non potrò mai dimenticare. Quelli che già erano entrati nelle camere a gas cominciavano a diventare irrequieti, e fu giocoforza agire. Tutti guardavano me: feci un cenno al sottufficiale di servizio e questi afferrò i due bambini che si dibattevano violentemente e li portò dentro, insieme alla madre che singhiozzava da spezzare il cuore. Provavo una pietà cosi immensa che avrei voluto scomparire dalla faccia della terra, eppure non mi fu lecito mostrare la minima emozione. Era mio dovere assistere a tutte le operazioni. Era mio dovere, fosse giorno o notte, assistere quando li estraevano dalle camere, quando bruciavano i cadaveri, quando estraevano i denti d’oro, tagliavano i capelli; dovevo assistere per ore e ore a questi spettacoli orrendi. Nonostante la puzza orribile, disgustosa, dovevo essere presente anche quando si aprivano le immense fosse comuni, si estraevano i cadaveri e si bruciavano. Attraverso le spie aperte nelle camere a gas dovevo assistere anche alla morte, perché i medici richiedevano anche la mia presenza. Dovevo fare tutte queste cose perché ero colui al quale tutti guardavano, perché dovevo mostrare a tutti che non soltanto impartivo gli ordini e prendevo le disposizioni, ma ero pronto io stesso ad assistere ad ogni cosa, cosi come dovevo pretendere dai miei sottoposti.
Il Reichsführer delle SS inviava spesso alti funzionari del Partito e delle SS ad Auschwitz, affinché assistessero alle operazioni di sterminio degli ebrei. Alcuni di costoro, che per l’innanzi erano stati zelanti assertori della necessità di queste stragi, assistendo a questa «soluzione finale della questione ebraica» diventavano molto silenziosi e pensosi. Spesso mi venne chiesto come potevo io, come potevano i miei uomini assistere di continuo a queste operazioni, come facevamo a resistere. Rispondevo sempre che tutte le emozioni umane dovevano tacere di fronte alla ferrea coerenza con la quale dovevamo attuare gli ordini del Führer. Ciascuno di quei signori dichiarava che non avrebbe voluto ricevere un compito analogo.
Perfino Mildner ed Eichmann, che senza dubbio erano tra i più «corazzati», non avrebbero affatto voluto prendere il mio posto: era un compito che nessuno mi invidiava. Spesso ho discorso a lungo, e a fondo, con Eichmann, su tutte le conseguenze legate alla soluzione finale della questione ebraica, senza però esternargli mai le mie intime angosce. Ho cercato anche, con tutti i mezzi, di scoprire quali fossero le sue vere convinzioni riguardo a questa « soluzione finale»; ma perfino sotto l’influenza dell’alcool – ciò che avveniva soltanto quando eravamo tra noi – egli sosteneva, in modo addirittura fanatico, la necessità di sterminare incondizionatamente tutti gli ebrei di cui potevamo impadronirci. Senza pietà, a sangue freddo, dovevamo eseguire il loro sterminio nel più breve tempo possibile. Ogni esitazione o compromesso, sia pure il minimo, un giorno sarebbe stato scontato amaramente».
E questo è un estratto dalla prefazione che ne ha fatto Primo Levi.
«A noi superstiti dei Lager nazionalsocialisti viene spesso rivolta, specialmente dai giovani, una domanda sintomatica: com’erano, chi erano «quelli dall’altra parte»? Possibile che fossero tutti dei malvagi, che nei loro occhi non si leggesse mai una luce umana? A questa domanda il libro risponde in modo esauriente: mostra con quale facilità il bene possa cedere al male, esserne assediato e infine sommerso, e sopravvivere in piccole isole grottesche: un’ordinata vita famigliare, l’amore per la natura, un moralismo vittoriano. Appunto perché il suo autore è un incolto, non lo si può sospettare di una colossale e sapiente falsificazione della storia: non ne sarebbe stato capace. Nelle sue pagine affiorano bensì ritorni meccanici alla retorica nazista, bugie piccole e grosse, sforzi di autogiustificazione, tentativi di abbellimento, ma sono talmente ingenui e trasparenti che anche il lettore più sprovveduto non ha difficoltà ad identificarli: spiccano sul tessuto del racconto come mosche nel latte.
Il libro è insomma un’autobiografia sostanzialmente veridica, ed è l’autobiografia di un uomo che non era un mostro, né lo è diventato, neppure al culmine della sua carriera, quando per suo ordine si uccidevano ad Auschwitz migliaia di innocenti al giorno. Intendo dire che gli si può credere quando afferma di non aver mai goduto nell’infliggere dolore e nell’uccidere: non è stato un sadico, non ha nulla di satanico (qualche tratto satanico si coglie invece nel ritratto che egli traccia di Eichmann, suo pari grado ed amico: ma Eichmann era molto più intelligente di Höss, e si ha l’impressione che Höss abbia prese per buone certe vanterie di Eichmann che non reggono ad un’analisi seria). È stato uno dei massimi criminali mai esistiti, ma non era fatto di una sostanza diversa da quella di qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro paese; la sua colpa, non scritta nel suo patrimonio genetico né nel suo esser nato tedesco, sta tutta nel non aver saputo resistere alla pressione che un ambiente violento aveva esercitato su di lui, già prima della salita di Hitler al potere.»
Se Primo Levi dice che Höss non era un mostro, dobbiamo forse pensare che voglia alleggerire la gravità di quello che ha fatto? È vero il contrario. Rudolf Höss non è “solo un assassino”: è molto di più. Perché “non era fatto di una sostanza diversa da quella di qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro paese”; perché era l’espressione di un’ideologia assassina che ha coinvolto nel crimine un’intera società costituita da persone “normali” come lui. E’ questa mostruosità sociale che deve sconvolgerci, non la mostruosità personale, tanto più caricata di colore oscuro quanto più se ne vuole prendere personalmente le distanze. Lo stesso può dirsi del “medico maledetto”, Josef Mengele. Anche lui, come Höss, voleva “soltanto” lavorare per il bene della sua nazione, mettere a profitto le sue capacità scientifiche e sfruttare l’ambiente “favorevole” che la società in quel momento gli metteva disposizione. E’ la mostruosità di questa normalità sociale che deve farci inorridire, più che l’anormalità di un mostro personale.
Ritengo, per inciso, che questo abbia voluto dire Giulio Meotti con il suo articolo “Professor Mengele”, riportato anche sul nostro sito. Ma molti non l’hanno capito. E in certi casi la cosa appare quasi incomprensibile. Marcello Cicchese.
(Notizie su Israele, 15 febbraio 2020)
Già, l’articolo di Meotti, che tante critiche indignate, inorridite ha suscitato in chi vi ha voluto vedere, niente meno, che una riabilitazione del famigerato dottor morte. Persone che hanno cancellato Meotti dalle proprie amicizie FB. Persone che hanno giurato che di lui non leggeranno mai più una sola riga. Evidentemente sapere che l’assassino Mengele aveva anche una solida preparazione scientifica li disturba molto. Evidentemente per stare bene hanno bisogno di pensare a Mengele come a un buzzurro semianalfabeta. Evidentemente anche loro, come troppi altri, quando la realtà confligge con la propria narrativa preferiscono cancellare la realtà e chi la diffonde. Probabilmente da sentimenti simili deriva anche il vezzo di definire Hitler “imbianchino”, cosa che trovo orribile, innanzitutto perché scredita una professione dignitosa e assolutamente necessaria, in secondo luogo perché Hitler questa professione non l’ha mai esercitata: Hitler era un pittore decisamente mediocre, ma era pittore, non imbianchino, e davvero non vedo l’utilità di questa falsificazione. E dunque onore a Meotti e a chiunque abbia il coraggio di proclamare la verità (e grazie anche a Marcello Cicchese che tanto si adopera a fare informazione).
barbara