INFORMAZIONE, DISINFORMAZIONE, MANIPOLAZIONE DELLINFORMAZIONE, CENSURA SULL’INFORMAZIONE

E incapacità di capire. Impossibilità di capire. E ciononostante, presunzione di capire. E parto da quest’ultima.

One of my hosts, an older gentleman who had been a professor of literature, told me, as so many Russians had, “You can give up writing philosophical articles about Russia. You will never know it.” Ah, yes, this again. My outsiderness. “My sunny disposition doesn’t prohibit me from writing about your country,” I said, a bit too earnestly, in very stilted Russian that I had spent years slaving away at. Speaking slowly to make sure I didn’t miss anything, he replied: “It’s not your sunny disposition. It’s your frame of reference. Your frame of reference is America. But Russia does not want to be America. Russia exists in a parallel universe.” (Qui)

Parlando lentamente per essere sicuro che non mi sfuggisse nulla, ha risposto: “Non è il tuo carattere solare. È il tuo quadro di riferimento. Il tuo quadro di riferimento è l’America. Ma la Russia non vuole essere l’America. La Russia esiste in un universo parallelo”.

Una delle cose che si leggono più spesso in questi giorni è “i piani di Putin”, “i progetti di Putin”, “la resistenza che Putin non si aspettava”, “le cose non stanno andando come Putin immaginava”: gente che non ha la più pallida idea di che cosa passi per la testa al figlio con cui convivono da vent’anni, si mette a fare l’analisi grammaticale, logica, sintattica dei pensieri di Putin, dei progetti di Putin, dei sentimenti di Putin senza la più microscopica conoscenza di che cosa sia l’anima russa, oltre che dello specifico soggetto “Putin”. E dopo avere passato decenni a decidere le mosse nei confronti dei musulmani basandosi sulla propria cultura e interpretandoli con la propria cultura e avere, perciò, collezionato decenni di fallimenti e di micidiali batoste e di decine di migliaia di morti. Decisamente l’attitudine a imparare dall’esperienza non fa parte del nostro DNA.

Sulla censura ce la sbrighiamo presto: è tutta da una parte. Tutte le fonti russe sono state silenziate, per il nostro bene naturalmente (come lo stato di emergenza, come la segregazione, come la mascherina all’aperto, come il coprifuoco, come il divieto di andare in canoa o prendere il sole su una spiaggia deserta, come il green pass per lavorare), per proteggere le nostre fragili menti dalle bugie che vengono da quella parte, nessuna voce, nessuna notizia ci può più arrivare da quella parte (mentre tutto ciò che arriva dalla controparte è verità di vangelo, non importa quanto i fatti la smentiscano). Così come è stato ferocemente censurato tutto ciò che ha preceduto – e determinato – gli avvenimenti di queste ultime settimane, ossia gli eventi di piazza Maidan e il sistematico massacro dei russofoni del Donbass. Ma la verità è testarda, e zittire tutti non è possibile. Chi ha visto, chi sa, chi non si lascia intimidire c’è, e prima o poi arriva a farci sentire la propria voce. Abbiamo già sentito Gian Micalessin, che ha scovato alcuni dei cecchini stranieri che sparavano dall’hotel Ucraina per creare il caos e favorire il colpo di stato, vediamo ora il giornalista britannico Mark Franchetti in questo servizio del 28 giugno 2014

Ed escono anche, finalmente, le notizie complete, sugli eventi e sugli impegni del 1991.

Lo scoop di Der Spiegel sull’impegno Nato di non espandersi a Est si basa su un verbale desecretato, che dà ragione a Putin

I lettori di ItaliaOggi sono stati i primi, in Italia, ad essere informati circa le vere origini delle tensioni politiche e militari tra la Russia di Vladimir Putin e la Nato sulla questione Ucraina. Con editoriali e articoli scritti in base ai fatti e non con la propaganda, il direttore Pierluigi Magnaschi e firme autorevoli come Roberto Giardina e Pino Nicotri hanno ricordato, unici in Italia, che dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) i leader dei maggiori paesi della Nato avevano promesso a Mosca che l’Alleanza atlantica non sarebbe avanzata verso Est «neppure di un centimetro». Una promessa smentita dai fatti, visto che da allora ben 14 paesi sono passati dall’ex impero sovietico all’alleanza militare atlantica. Da qui le contromosse di Putin: la guerra in Georgia, l’occupazione della Crimea, l’appoggio ai separatisti del Donbass, lo schieramento di oltre centomila soldati al confine con l’Ucraina, infine la dura linea diplomatica con cui ha ribattuto alle minacce di sanzioni da parte di Usa ed Ue: «Mosca è stata imbrogliata e palesemente ingannata».
Per tutta risposta, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ripetuto quella che per anni è stata la linea difensiva di Washington sull’allargamento a Est della Nato: «Nessuno, mai, in nessuna data e in nessun luogo, ha fatto tali promesse all’Unione sovietica». Una dichiarazione smentita dal settimanale tedesco Der Spiegel con uno scoop clamoroso, destinato a lasciare il segno. L’inchiesta, intitolata «Vladimir Putin ha ragione?» e ripresa integralmente negli Usa da Zerohedge, si basa su un’ampia ricostruzione storica dei negoziati tra Nato e Mosca che hanno accompagnato la fine della guerra fredda.
Tra i documenti citati, spicca per importanza quello scovato nei British National Archives di Londra dal politologo americano Joshua Shifrinson, che ha collaborato all’inchiesta del settimanale tedesco e se ne dichiara «onorato» in un tweet. Si tratta di un verbale desecretato nel 2017, in cui si dà conto in modo dettagliato dei colloqui avvenuti tra il 1990 e il 1991 tra i direttori politici dei ministeri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania sull’unificazione delle due Germanie, dopo il crollo di quella dell’Est. Il colloquio decisivo, riporta Der Spiegel, si è svolto il 6 marzo 1991 ed era centrato sui temi della sicurezza nell’Europa centrale e orientale, oltre che sui rapporti con la Russia, guidata allora da Michail Gorbaciov. Di fronte alla richiesta di alcuni paesi dell’Est Europa di entrare nella Nato, Polonia in testa, i rappresentanti dei quattro paesi occidentali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania Ovest), impegnati con Russia e Germania Est nei colloqui del gruppo «4+2», concordarono nel definire «inaccettabili» tali richieste. Il diplomatico tedesco occidentale Juergen Hrobog, stando alla minuta della riunione, disse: «Abbiamo chiarito durante il negoziato 2+4 che non intendiamo fare avanzare l’Alleanza atlantica oltre l’Oder. Pertanto, non possiamo concedere alla Polonia o ad altre nazioni dell’Europa centrale e orientale di aderirvi». Tale posizione, precisò, era stata concordata con il cancelliere tedesco Helmuth Khol e con il ministro degli Esteri, Hans-Dietrich Genscher.
Nella stessa riunione, rivela Der Spiegel, il rappresentante degli Stati Uniti, Raymond Seitz, dichiarò: «Abbiamo promesso ufficialmente all’Unione sovietica nei colloqui 2+4, così come in altri contatti bilaterali tra Washington e Mosca, che non intendiamo sfruttare sul piano strategico il ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa centro-orientale e che la Nato non dovrà espandersi al di là dei confini della nuova Germania né formalmente né informalmente».
È innegabile che questo documento scritto conferma alcuni ricordi di Gorbaciov circa le promesse da lui ricevute, ma soltanto orali, sulla non espansione a Est della Nato. In un’intervista al Daily Telegraph (7 maggio 2008), Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione sovietica, disse che Helmuth Khol gli aveva assicurato che la Nato «non si muoverà di un centimetro più ad est». Identica promessa, aggiunse in un’altra occasione, gli era stata fatta dall’ex segretario di Stato Usa, James Baker, il quale però smentì, negando di averlo mai fatto. Eppure, ricorda Der Spiegel, anche Baker fu smentito a sua volta da diversi diplomatici, compreso l’ex ambasciatore Usa a Mosca, Jack Matlock, il quale precisò che erano state date «garanzie categoriche» all’Unione sovietica sulla non espansione a est della Nato. L’inchiesta del settimanale aggiunge che promesse dello stesso tenore erano state fatte a Mosca anche dai rappresentanti britannico e francese.
La storia degli ultimi 30 anni racconta però altro: Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, ricorda Der Spiegel, sono entrate nella Nato nel 1999, poco prima della guerra contro la Jugoslavia. Lituania, Lettonia ed Estonia, confinanti con la Russia, lo hanno fatto nel 2004. Ora anche l’Ucraina vorrebbe fare altrettanto. Il che ha scatenato la reazione di Putin: «La Nato rinunci pubblicamente all’espansione nelle ex repubbliche sovietiche di Georgia e Ucraina, richiamando le forze statunitensi ai confini del blocco del 1997». La prima apertura è giunta dal cancelliere tedesco, Olaf Scholz: «L’ingresso dell’Ucraina nella Nato non è in agenda». Parole che confermano la prudenza della Germania verso Putin e l’importanza strategica del Nord Stream 2 per la sua economia. Se alla fine sarà pace o guerra, dipenderà dal vertice Biden-Putin, agevolato da Macron. Un vertice dove Biden, nonostante la martellante propaganda anti-Putin delle ultime settimane, entra indebolito da uno scoop che riscrive la storia. Un’inchiesta così ricca di documenti finora inediti da far pensare all’aiuto di una manina politica, in sintonia con la Spd di Scholz, partito da sempre filorusso.
Tino Oldani, 22, febbraio 2022, qui.

Altre due voci che i signori dell’informazione a senso unico non sono riusciti a zittire sono quelle di Pino Cabras e Marcello Foa.

I corifei del potere non vogliono voci dissonanti: il caso Damilano

 Siparietto a Di Martedì, la trasmissione di Giovanni Floris, ieri sera.
L’argomento unico è la crisi ucraina. Tra gli ospiti, il giornalista Marcello Foa, che nella sua brillante carriera è stato anche inviato a Mosca negli anni del crollo dell’Urss e successivi. 
Non appena viene interpellato, il giornalista Marco Damilano esordisce con una grossa inesattezza. Dice infatti che il Parlamento ha approvato «all’unanimità» le misure di guerra del governo. No, stellina! Capisco che nell’universo piallato del tuo giornalismo non si concepisce l’opposizione, ma questa nondimeno esiste.
Alternativa ha infatti votato contro la risoluzione della maggioranza e ha votato una sua diversa risoluzione. Però Damilano si sente su un “alto terreno” morale e deontologico, non si fa distrarre da un dettaglio come la verità. Con il tono di un vice-Torquemada parte ad azzannare Foa, a freddo. Gli rimprovera di aver rilasciato dichiarazioni a organi di stampa russi come RT e Sputnik.
Gioca con le parole, dicendo che “faceva il commentatore”. Come a dire: pagato dai russi e dunque non credibile, nel quadro della nuova russofobia imperante. Foa replica ricordando che quelle erano dichiarazioni rilasciate a testate giornalistiche, non collaborazioni, ma Damilano – l’avete capito – non è tipo che si faccia deconcentrare dai fatti, una volta che concentra la bava nella delazione.
E cosa rimprovera a Foa, per aggiunta? Foa aveva dichiarato che le rivolte di piazza che avevano accompagnato il cambio di regime erano “pianificate e guidate dall’Occidente”. Per Damilano è come bestemmiare in chiesa. E si scandalizza fino a piegare le labbra in una smorfia che solo quelli che si sentono superiori. Abituato com’era a fare da grancassa al PD, non si è mai accorto di John McCain e Victoria Nuland nella piazza di Kiev, né delle intercettazioni autentiche (eh sì, divulgate da RT) in cui la Nuland diceva che “abbiamo speso 7 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che si merita!”. Cioè diceva che la nuova situazione era pianificata e guidata dall’Occidente, con buona pace del verginello delatore.
A questo punto mi autodenuncio. Nel maggio 2014, quando nella città ucraina di Odessa un gruppo di squadracce naziste protette dal governo di Kiev scatenò un pogrom che fece strage di russofoni nella Casa dei Sindacati, io non riuscii a trovare un rigo su questo evento tragico su “L’Espresso”, il giornale di Damilano. Niente. Come non ne trovai su quasi tutti i giornali italiani, che se ne parlarono deformarono pesantemente i fatti. Dovetti ricorrere proprio a RT, che diede una copertura completa. Ebbi modo anche di raccontare i fatti in un servizio di Pandora TV che rivendico al cento per cento. 
Ecco, in poche righe, è bene che sia smascherato un episodio fra i tanti che ammorberanno questa stagione: i corifei del potere non vogliono voci dissonanti e usano trucchi estremamente scorretti per ingannare il pubblico. Demoliamoli criticamente per uscire dalla logica della guerra. Perché la guerra non inizia con le bombe, ma con le bugie e la caccia alle streghe di presunti nemici.
Pino Cabras, 2 marzo 2022, qui.

E in un servizio del 3 maggio 2014 Pino Cabras dà conto della sistematica manipolazione operata dai giornali italiani per disinformare in merito alla strage di Odessa del giorno precedente.

Di video di documentazione ne ho ancora, ma non voglio farvi fare indigestione, quindi con questi per oggi mi fermo qui, e ritorno invece all’assunto di partenza: non capiscono niente, e meno capiscono, e più si mettono in cattedra a giudicare chi sta dall’altra parte (commenti miei in corsivo all’interno dell’articolo)

Il nipote di Gramsci che sostiene Putin: ‘Voi non capite, il Paese è con lui’

Con quel cognome, potrebbe dire quello che vuole. O quasi. Ma non ora, non qui.
Eccerto, lo decide il signor Imarisio che cosa uno può o non può dire, in casa propria oltretutto.

«Mi ritengo un moderato sostenitore di Vladimir Putin». Parlare con Antonio Gramsci, nipote e omonimo del fondatore del Partito comunista italiano, non è una operazione da strano ma vero. Significa anche fare un viaggio nella testa dell’elettore medio russo. Per provarci, a capire davvero.
E per provare a capire, che cosa meglio di un tono di supponenza e un atteggiamento di superiorità morale?

Nato e cresciuto a Mosca, dove nel 1921 il nonno, appena arrivato ammalato di tisi, aveva conosciuto in sanatorio e poi sposato Julia Schucht, da un quarto di secolo è un docente di musica e di biologia che insegna alla scuola in lingua italiana della nostra ambasciata. Ogni giorno in cattedra a insegnare agli adolescenti russi. «Nessuna delle persone con le quali parlo è d’accordo con i media occidentali, che secondo me non ci stanno capendo molto, quando dicono che il presidente ha iniziato questa guerra senza alcuna ragione. Il diavolo è sempre nei dettagli di questi otto anni di tensione continua con l’Ucraina, di un conflitto a bassa intensità nel Donbass che è andato avanti senza che il governo di Kiev facesse nulla per fermarlo». Gramsci junior, 56 anni, l’età media del sostenitore di Putin secondo le analisi dell’ultima elezione per il Cremlino,
Leggi: quelli che votano per Putin sono i vecchi rincoglioniti (come quelli della Brexit, se non ricordo male)

rigetta l’idea di essere anche lui sedotto dalla propaganda martellante dei media statali. «Ma no, passo gran parte del mio tempo sugli spartiti musicali, e per natura sono scettico sulle informazioni dei media. Mi baso sulle testimonianze dirette». Appunto. A domanda diretta, Gramsci risponde. «Nella Russia di oggi non esistono valide alternative a Putin. Questo la gente lo sente, lo capisce. Certo, a ogni elezione esiste un’altra possibilità di scelta, ma nessuna garantisce la stabilità di questo Paese come lui. Per questo l’ho votato e, quando sarà, penso che lo farò ancora». Sul concetto di stabilità, e di come essa viene indotta, ci sarebbe da parlare a lungo.
Giusto: chi meglio di un italiano può sapere di che tipo di stabilità abbia bisogno un popolo di quasi 150 milioni di persone che sta a qualche migliaio di chilometri di distanza, e che cosa quest’ultimo debba intendere per stabilità.

Gramsci si chiama fuori dalla discussione sui metodi autoritari del Cremlino. «II nostro popolo non ha mai conosciuto una vera libertà. Io c’ero ai tempi dell’Urss, ci sono nato. Meglio ora. Esistono ancora povertà e deficit, di soldi nella Russia del ceto medio non ne girano poi molti. Ma la sensazione che solo Putin possa garantire gli interessi del suo Paese, e che quindi quel che decide va bene, le posso assicurare che è molto diffusa». Ha imparato l’italiano da adulto, e nella nostra lingua ha scritto un bel libro sulla storia del filone russo della sua famiglia. Ride quando gli viene chiesto se il nonno avrebbe votato Putin.
Evidentemente il signor Gramsci è una persona molto educata, perché la risposta corretta a quella domanda sarebbe stata: “Che domanda cretina”.

«Ma che discorsi. Parlare di comunismo ormai è come parlare di antiquariato, così come il concetto del proletariato oppresso è superato da tanto tempo. Io poi mi considero un anarchico. E come tale, considero la guerra un disastro, sempre. Anche questa». Alla fine, sostiene il professor Gramsci che esista un nostro errore di prospettiva nella lettura del suo Paese. La lotta di classe è defunta da tempo. L’unica contrapposizione possibile è la solita, che esiste ovunque. «Credo che il mondo guardi alla Russia attraverso la lente delle sue due grandi città. E allora si fanno grandi teorie sulla nostra occidentalizzazione. Ma esiste una grande differenza tra il livello di vita delle metropoli russe e le loro periferie. Chi vive altrove, considera i cittadini come piccolo borghesi che non producono nulla. E in parte ha ragione. Mosca può sembrare una capitale abitata da persone che si divertono e fanno affari, dedite alla finanza e al terziario. Come a Londra o a Milano. Basta spostarsi di cento chilometri appena, ed è tutta un’altra storia. La Russia profonda è tutt’altro che omologata all’Occidente. E quindi, non ne ha tutto questo desiderio. L’isolamento fa più paura agli “occidentali”, i giovani russi abituati a viaggiare.
Marco Imarisio, qui.

Aggiungo ancora una riflessione

Claudia Premi

Zelensky, quegli uomini che hai costretto a restare e a combattere, sono i papà dei bambini che vediamo ammassati sul confine polacco in attesa di partire per una nuova vita. Papà, che con buona probabilità, non rivedranno più. Da donna, NON condivido queste scelte belligeranti che coinvolgono esseri umani e famiglie che sono altro da te, Zelensky!

e una considerazione trovata in rete

Traspare sui giornali italiani lo stupore e lo sgomento per l’inserimento immotivato dell’Italia nella lista dei paesi ostili stilata dal governo russo.
In fondo cosa abbiamo fatto? Ve lo ricordo :
Abbiamo SANZIONATO la Russia. Abbiamo DISCONNESSO il sistema bancario russo dallo Swift. Abbiamo DERUBATO dei loro beni cittadini russi per il solo fatto di essere russi. Abbiamo DERUBATO la banca centrale russa delle sue riserve in valuta depositate nelle banche occidentali. Abbiamo IMBASTITO una campagna di violenza verbale attraverso i mass media che hanno portato a episodi di violenza che hanno visto come vittime cittadini russi. Abbiamo anche CENSURATO Dostoevskij perché russo.
Il nostro ministro degli esteri HA CHIAMATO il Presidente russo con l’appellativo di cane. Infine abbiamo INVIATO armi all’Ucraina affinché siano usate per uccidere soldati russi.
SI… DAVVERO UN ATTO IMMOTIVATO L’INSERIMENTO DELL’ITALIA NELLA LISTA DEI PAESI OSTILI.
CIALTRONI !!!

Se qualcuno ritiene che sia stato giusto farlo, non mi permetto di discutere, però quando si prende una decisione bisogna anche essere pronti a subirne le conseguenze: se scelgo di prendere una curva a 150 all’ora, non devo poi mettermi a frignare se uno stronzo di albero decide di mettersi in mezzo e venirmi addosso. Quanto al cane di Di Maio, nel caso a qualcuno fosse sfuggito potete rivederlo qui, e soprattutto ammirarne l’espressione intelligente e furbetta.

(qui un commento serio all’incredibile episodio)
E concludo, come sempre, con due sboicottamenti

barbara

POI TI VENGONO A DIRE CHE NON È VERO CHE SIAMO IN UNO STATO DI POLIZIA

Innanzitutto un articolo che esamina la drammatica situazione in cui, con il pretesto dell’emergenza sanitaria, siamo stati infilati.

Dalla pandemia allo Stato di Polizia

di Vitalba Azzollini

C’è sempre un momento in cui ci si chiede: come si è arrivati a questo punto? Il momento per molti è stato quando, durante un programma su una tv Mediaset, sono andate in onda le immagini di un elicottero della Guardia di Finanza, con un’inviata a bordo, all’inseguimento di un runner solitario su una spiaggia deserta. Ma anche la Tv di Stato, cosiddetto servizio pubblico, non è stata da meno, mostrando un drone che braccava un runner, anch’egli in solitudine totale, con un tutore delle forze dell’ordine alle calcagna e la Cavalcata delle valkirie in sottofondo. Ci si era lamentati del sistema di delazione implementato sul portale di Roma Capitale per eventuali violazioni delle regole in tema di Covid-19, ma evidentemente non c’è limite al peggio.
Qual è il punto cui si è arrivati? Uno Stato di polizia a ogni effetto. Come ci si è arrivati? I fattori sono diversi. Innanzitutto, si è arrivati facendo sì che la gente restasse nell’ignoranza. Il metodo è, per dirlo in modo forbito: «Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare». Tacere e adeguarsi, da sudditi. Tale metodo è stato realizzato, innanzitutto, inculcando nelle persone l’idea che, in nome della tutela della salute, tutto fosse possibile e lecito.
Pertanto, come più volte detto, in nome della salute sono stati conferiti poteri molto ampi – “pieni poteri”, almeno fino al d.l. 19/2020 – al presidente del Consiglio, che li ha esercitati con forti restrizioni a diritti e libertà, non sempre mostrando di rispettare principi generali dell’ordinamento giuridico e dell’Unione europea o di valutare costi e benefici di opzioni alternative al lockdown del Paese. Tutto ciò mentre il Parlamento – che (dovrebbe) rappresenta(re) i cittadini – si è come dissolto.
L’altra idea, conseguenza della prima, inculcata nella gente è che ogni scelta spettasse agli scienziati, in particolare a quelli del Comitato tecnico scientifico, e che la politica – in primis il presidente del Consiglio – dovesse fideisticamente adeguarsi, anziché assumersi la responsabilità di decidere contemperando tutti gli interessi coinvolti, oltre alla salute. Questo “fideismo”, da un lato, ha rafforzato l’ignoranza di cui si è detto, rappresentando la rinuncia a far capire alla gente le motivazioni di certe scelte, con l’alibi che la scienza non è da tutti e che la politica vi si deve solo conformare.
E l’ignoranza è amplificata dall’opacità dei pareri del Comitato, non pubblicati nella sezione Amministrazione Trasparente di siti istituzionali né resi accessibili per la sospensione del diritto alla trasparenza ex Foia.
Dall’altro lato, lo scudo del fideistico affidamento alla scienza ha comportato la deresponsabilizzazione politica più completa: se è la scienza che decide, comunque vada la politica può dire “non abbiamo assolutamente sbagliato niente“. Chissà se questo è lo scopo per cui i decisori governativi hanno istituito, oltre a quel Comitato, molti gruppi di esperti (15 a livello nazionale e 30 locale, circa 450 persone in tutto), ai quali hanno delegato valutazioni rilevanti, senza rendere trasparentemente noti criteri di scelta dei componenti, obiettivi prefissati e misurabili, disponibilità di mezzi e risorse e molto altro.
Ma lo Stato di polizia è anche il risultato del protagonismo di amministratori locali i quali, non osservando i limiti di legge ai loro poteri – in particolare, di sancire misure più restrittive di quelle nazionali solo per «specifiche  situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario» – hanno continuato ad alzare l’asticella delle restrizioni a libertà e diritti: dal “tassametro sul carrello” del supermarket, alla puntuale fissazione degli importi della spesa, alla sanzione della “quarantena” anche a non infetti, al divieto consegne a domicilio ecc., fino ad arrivare alla ipotesi di chiusura dei confini regionali, in spregio alla norma costituzionale (art. 120, c. 1) in base a cui la regione non può ostacolare «la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni».
E le forze dell’ordine si sono adeguate allo stile da “sceriffo” degli amministratori locali, facendo perquisizioni nelle buste della spesa per verificare la necessità degli acquisti o, al contrario, irrogando multe senza nemmeno considerare la necessità dello spostamento. Allo Stato di polizia hanno pure contribuito quei Tar che, anziché stroncare iniziative “sceriffesche”, frutto di incursioni di presidenti di regione e sindaci in ambiti non di loro pertinenza, ne hanno spesso confermato le ordinanze in sede di azione giurisdizionale da parte di cittadini (talora con una sorta di copia-incolla di decisioni precedenti, anche a fronte di un quadro normativo mutato dopo il d.l. n. 19/2020).
Lo Stato di polizia è pure l’effetto di un Governo che ha drammaticamente abdicato non solo al ruolo di cui è investito per la gestione dell’emergenza sanitaria ma anche alla tutela dello Stato di diritto, rinunciando a impugnare ordinanze regionali (o ad annullare ordinanze sindacali) emesse – come detto – in violazione della legge. Eppure, il Governo era partito lancia in resta con l’impugnativa al TAR dell’ordinanza delle Marche che a fine febbraio aveva chiuso le scuole della regione. Parimenti apprezzabile era stato l’annullamento dell’ordinanza del sindaco di Messina, che prevedeva apposite autorizzazioni e altro per poter attraversare lo Stretto.
Lo Stato ha abdicato anche ai poteri di cui dispone per espressa previsione costituzionale. A questo riguardo, è utile un inciso, dedicato a chi dice che sarebbe servita la “clausola di supremazia” prevista dalla riforma costituzionale del 2016, bocciata con referendum, poiché tramite essa lo Stato sarebbe potuto «intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva», a «tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero …dell’interesse nazionale».
Ebbene, a fronte dell’emergenza sanitaria, lo Stato “comanda” anche a Costituzione vigente: ha legislazione esclusiva in tema di «profilassi internazionale» (art. 117, lett. q, Cost.), nonché di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni … su tutto il territorio nazionale», tra cui rientra la «predisposizione di sistemi di risposta a emergenze di origine infettiva» (art. 117, lett. m, Cost.), per non dire delle materie inerenti a «ordine pubblico e sicurezza» (art. 117, lett. h, Cost.).
Inoltre, il Governo (art. 120, c. 2, Cost.) potrebbe sostituirsi a Regioni e Comuni «nel caso di mancato rispetto di norme (…) oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali». Il Governo finora ha rinunciato anche a questo potere sostitutivo, nonostante ne ricorressero gli estremi.
Infine, lo Stato di polizia si è radicato pure mediante il terrorismo psicologico fatto sulla gente, come dimostrano le immagini televisive degli inseguimenti “polizieschi” da cui si sono prese le mosse: a volte è sembrato che tale terrorismo fosse anche volto a sviare l’attenzione della gente stessa dall’assenza di una strategia per affrontare la fase 1, prima, la fase 2, adesso. Se, anziché spiegare i motivi per cui le regole (distanziamento, dispositivi di protezione e altro) vanno rispettate, si ricorre a certi metodi che trattano i cittadini come sudditi o minus habens, allora lo stato di emergenza diventa stato di Polizia e travolge lo Stato di diritto. Una foto rende più chiaro il concetto:
lockdown I-D (qui)
E rendono più chiaro il concetto un paio di fatti di cronaca, in aggiunta a quelli già precedentemente denunciati.

Anziano multato per avere comprato un barattolo di vernice.

Va a fare la spesa con la moglie disabile: multa da 900 euro.

Fino a questo incredibile commento che ho trovato, a proposito dei deliranti controlli polizieschi ingiustificatamente perpetrati ai nostri danni

Michela Rocco

Ho sentito da persone amiche che sono state fermate dalle forze dell”ordine e benché non avessero motivi validi per spostarsi non sono stati multati ma lasciati andare tranquillamente. Francamente la cosa mi ha lasciata molto delusa. Prima per la leggerezza di questi amici, poi per queste forze dell’ordine che vengono definiti eroi e che poi svolgono così il loro compito. Spero che si tratti di fatti isolati e sporadici

E non ho avuto l’impressione che si trattasse di un commento ironico.

Proseguo con questa dettagliata cronaca di Dagospia.

CRONACA DI UNA PANDEMIA ANNUNCIATA – GLI ALLARMI INASCOLTATI DEI MEDICI CHE SEGNALAVANO STRANE POLMONITI DA INIZIO GENNAIO, LE CIRCOLARI DEL MINISTERO CHE SI CONTRADDICONO, LE DIVISIONI POLITICHE E #MILANONONSIFERMA: TUTTI GLI ERRORI CHE HANNO FATTO DELL’ITALIA IL FOCOLAIO D’EUROPA – IL 15 FEBBRAIO IL MINISTERO DEGLI ESTERI MANDA DUE TONNELLATE DI MATERIALE SANITARIO IN CINA COME REGALO. POCHI GIORNI DOPO, IN LOMBARDIA ERANO INTROVABILI…

Monica Guerzoni, Marco Imarisio, Simona Ravizza e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera”

Alle dieci del mattino di martedì 7 gennaio, Pietro Poidomani riapre il suo ambulatorio in via Trieste. Le vacanze di Natale sono appena finite, ma il numero di persone in fila è inusuale. Lui le conosce tutte. È l’unico medico di base a Cividate al Piano, cinquemila abitanti sulla riva destra del fiume Oglio, 25 chilometri da Bergamo. I primi 5 pazienti hanno lo stesso problema. Sono anziani che lui ha già vaccinato per l’influenza di stagione, però hanno ancora febbre e una strana tosse. Faticano a respirare. A ognuno prescrive una radiografia al torace e il responso è sempre uguale.
Complicazione da polmonite, con marcati addensamenti interstiziali. Quel giorno, su 50 visite, dodici sono per gli stessi sintomi. Il giorno dopo, ancora. E poi ancora.
Nelle settimane seguenti, il dottor Poidomani chiama alcuni suoi colleghi dei paesi vicini. «Anche voi…». Anche loro. A metà febbraio decidono di scrivere all’Azienda di tutela della salute della provincia di Bergamo. Non sarebbe il caso di dare un’occhiata a tutte le radiografie toraciche fatte dal 25 dicembre in poi?
Non otterranno mai risposta.«Già verificando i dati, avremmo potuto salvare qualche vita», racconta Poidomani. «Ma nessuno si è posto la domanda giusta. E così siamo arrivati al momento cruciale a mani nude, senza attrezzature, senza bombole ad ossigeno».
La grande paura era cominciata in ritardo. La prima convocazione della task force creata al ministero della Salute risale al 22 gennaio 2020, quando viene promulgata una circolare che prescrive il tampone in caso di polmoniti insolite. «Senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio, anche se è stata identificata un’altra eziologia che spiega pienamente la situazione clinica». Cinque giorni dopo, nuova circolare, dalla quale questa frase sparisce. Controlli solo su chi arriva da Wuhan o ha avuto contatti recenti con la Cina. Ma la sera del 30 gennaio i tg aprono tutti con la stessa notizia.
«Virus, colpita l’Italia». «L’allarme dell’Oms». Sui quotidiani vengono anticipati i provvedimenti che il governo si appresta a prendere: dichiarazione dello stato d’emergenza e blocco dei voli con la Cina. Il decreto che cambia tutto arriva il giorno seguente, 31 gennaio. «Si ritiene necessario provvedere tempestivamente a porre in essere tutte le iniziative di carattere straordinario…». Mancano però le istruzioni per l’uso. C’è uno stato d’emergenza, ma non un piano d’emergenza. Come si devono comportare gli ospedali, le regioni? Il primo febbraio, un noto primario milanese scrive nella chat dei suoi medici. «Con quel provvedimento hanno costruito una bella casa. Peccato che si siano dimenticati di farci il tetto». Si rivelerà una profezia.
A due mesi dall’inizio di questa tragedia, che per noi è cominciata alle 00.45 del 21 febbraio, quando l’Ansa ha battuto la notizia del primo paziente positivo al coronavirus dopo il ricovero all’ospedale di Codogno, il famoso Mattia, che non veniva dalla Cina e quindi per giorni non fu sottoposto a tampone, è il caso di riavvolgere il nastro.
Per raccontare quella che, al netto di colpe e responsabilità individuali, è la storia di una sottovalutazione collettiva, istituzionale e anche mediatica. Il decreto del 31 gennaio contiene una falla logica. La scelta di bloccare i voli da e per la Cina non produce alcun risultato sulla tracciabilità del virus, perché chi doveva tornare dalle zone contagiate lo farà comunque attraverso altri scali, senza essere sottoposto a ulteriori controlli. Il primo passo è comunque meglio del niente, o quasi, che seguirà a livello decisionale, tra sottovalutazione e discutibili slanci di generosità.
Alle 14.50 del 15 febbraio decolla dalla base di pronto intervento Unhrd delle Nazioni unite di Brindisi un volo diretto a Pechino, organizzato dal ministero degli Esteri. A bordo ci sono anche due tonnellate di materiale sanitario, regalo della Farnesina alla Cina. Pochi giorni dopo, mascherine e tute di protezione per gli operatori sanitari si riveleranno introvabili nelle zone più colpite della Lombardia.
Il decreto sull’emergenza, che segue le indicazioni dell’Oms, diventa una sorta di ombrello sotto al quale si può riparare qualunque amministratore che decida di non agire. I medici di tre grandi ospedali lombardi, Niguarda di Milano, Papa Giovanni XXIII di Bergamo, Sant’Anna di Como, scrivono alle Ats di riferimento chiedendo di verificare il numero di posti nelle terapie intensive della regione. La sera del 21 febbraio a Bergamo si tiene una riunione dei medici ospedalieri della provincia. All’ordine del giorno c’è un’altra lettera da mandare all’Ats, per fare presente che «date le attuali condizioni», non sono in grado di fare fronte all’epidemia, se mai arriverà. È già arrivata, purtroppo.
Il primo documento governativo che spiega come muoversi e cosa fare è del primo marzo, un mese dopo. Lo firma il direttore generale della Salute Andrea Urbani. Accoglie le richieste del Comitato tecnico-scientifico (Cts) secondo cui è «necessario che nel minor tempo possibile» sia attivato nelle strutture pubbliche e private un modello di cooperazione «coordinato a livello nazionale per un incremento delle disponibilità di posti letto del 50% nelle unità di terapia intensiva e del 100% in quelle di pneumologia e malattie infettive». Sei giorni dopo il commissario Angelo Borrelli firma l’accordo con la società Siare per la fornitura di ventilatori meccanici, fondamentali per le terapie intensive. Cosa è successo in questo mese di limbo, tra il primo e l’ultimo weekend di febbraio?
Nel governo convivono opinioni discordanti. Roberto Speranza è da subito per la linea dura. Il 2 febbraio, quando in Italia gli unici malati sono i due cittadini cinesi ricoverati allo Spallanzani, in tv da Fabio Fazio il virologo Roberto Burioni afferma che da noi il rischio «è pari a zero». Il ministro della Salute invece drammatizza: «Abbiamo fatto scelte molto prudenziali, il Paese deve essere pronto». Per Speranza, «chiudere tutto» sarà il mantra ripetuto in ogni Consiglio dei ministri, Conte invece non è convinto. A marzo, quando la curva dei contagi si impenna, resiste per giorni alle pressioni dei governatori del Nord. Salvini, che in questa crisi cambierà diverse volte rotta, chiede più coraggio.
Ma Conte non vuole cedere al «ricatto» del centrodestra. La linea di Palazzo Chigi è chiudere il Paese un passo alla volta, decreto dopo decreto. La strategia della gradualità si basa sulla convinzione che solo un sentimento profondo di paura diffusa potrà rendere tollerabile una forma così severa di reclusione sociale.
Nei momenti decisivi, mentre si invoca l’unità nazionale, le istituzioni avanzano in ordine sparso. Il 23 febbraio il governatore Fontana e Speranza firmano l’ordinanza che istituisce misure restrittive per la Lombardia. Lo stesso giorno alle 18.30 nell’Aula Biagi di Palazzo Lombardia 500 sindaci della Regione chiedono deroghe per mercati, centri commerciali e attività sportive. La Lombardia cede dopo 72 ore, con una deroga: i bar restano aperti anche dopo le 18 «se con il servizio al tavolo».
Il 27 febbraio il sindaco Giuseppe Sala lancia la campagna #Milanononsiferma, seguito a Bergamo da Giorgio Gori. Salvini in un video chiede di «riaprire tutto», invitando i turisti stranieri a visitare il Paese più bello del mondo, mentre il segretario del Pd Nicola Zingaretti fa un aperitivo pubblico sui Navigli, che forse gli costa il contagio. Il 28, gli esperti della Regione mostrano per la prima volta a Fontana le stime della curva epidemica che in quei giorni presenta un indice R0 di contagio superiore a 2: «Se la situazione dovesse allargarsi, il rischio è di default dell’intero sistema ospedaliero». Oggi sembra surreale, ma l’Emilia-Romagna chiede di tenere aperti cinema e teatri e il Veneto vuole una deroga sulle terme.
L’8 marzo è una domenica di sole, bar e ristoranti aperti, tanta gente in giro. Lunedì 9 marzo, dopo l’incontro con i capi delle opposizioni, Conte annuncia che l’Italia intera diventa zona rossa. Sono passati 38 giorni da quel 31 gennaio nel quale era stata dichiarata l’emergenza sanitaria. Il dottor Poidomani si è ammalato di Covid-19. Ricoverato il 2 marzo in terapia intensiva, ne è uscito il 13. Venerdì scorso, il doppio tampone ha dato esito negativo. Oggi tornerà al lavoro nel suo ambulatorio. (qui)

Nel frattempo, come segnala questo commento trovato in rete:

honhil ‘Niente fughe in avanti da parte delle regioni’, è l’ordine categorico che viene da palazzo Chigi. Di contra in una regione, la Sicilia, una delle due o tre dichiarate sicure, tuttavia il governo continua a stivare migranti. I cittadini italiani (rossi, gialli, neri, bianchi e di colore cirricaca) vengono controllati per cielo, per mare e per terra e sanzionati anche diverse volte al giorno se vengono trovati lì dove non dovevano essere. Invece, chi illegalmente mette piede nello Stivale, può fare tutto quello che gli passa per la testa e lo fa sia che gode già della protezione delle istituzioni sia che è ancora uccel di bosco. Domanda. Ma queste istituzioni che bacchettano i cittadini (la maggioranza dei quali in grossissime difficoltà economiche o perché già di suo o a causa del Coronavirus) che mettono il naso fuori da questo immenso campo di concentramento che è diventato il territorio italiano e lasciano liberi di fare ciò che passa loro per la testa gli extracomunitari, fino a quando ancora possono durare? Siculiana e Porto Empedocle, a un tiro di schioppo di distanza, insomma, volente o nolente, possono essere considerati, data la contiguità, il laboratorio (per tacere sulle tante, troppe, situazioni analoghe) che ha già acceso la miccia… che, per quando lunga possa essere, … arriverà prima o poi alla santabarbara: ed esplosione sarà. Eppure le istituzioni, a tutti i livelli, continuano a menare il can per l’aia. Per ottusa ideologia.

E non solo i clandestini partono e arrivano, ma addirittura

I clandestini partono dalla Libia con in tasca il numero degli avvocati da contattare.

E infine uno straordinario intervento di Alberto Bagnai, tanto intenso quanto spietato, un atto d’accusa senza sconti nei confronti del primo responsabile del disastro attuale, un’invettiva che assurge ai vertici dell’epica:

E meriterebbe di essere guardato anche solo per la faccia e la postura del signor Conte.
POST SCRIPTUM: della famigerata App parlerò domani, perché altrimenti questo diventa troppo lungo.

barbara