Il “ci” è la morte: è lì che Marina Garaventa, morta tredici giorni fa, era ben intenzionata ad arrivare viva. Impresa tutt’altro che facile, viste le premesse.
C’è chi nasce dove c’è sempre il sole, chi in una calda notte estiva. Io sono nata in un giorno di sciopero e i due imbecilli che mi fecero uscire, esclamarono: «Questo bambino è pelato!» Era il mio sedere! Parto podalico prematuro… un culo pazzesco!
Un eminente luminare dell’epoca informò i miei che sicuramente (e fortunatamente!) sarei morta e, se ciò non si fosse verificato, non avrei né parlato, né mangiato, né camminato, ecc. Contrariamente al parere dell’illustre clinico, i miei decisero di portarmi a casa e di tentare l’empirico allevamento della bestiolina che, nonostante tutto, pareva non aver intenzione di andare a far compagnia agli angioletti. A furia di cucchiaini di latte, di bugattine (ciucciotti di pezza imbevuti di latte e zucchero), a furia di coccole di tre nonni, due bisnonni e una zia, riuscii ad arrivare a quattro mesi e, a quel punto, mi depositarono tra le braccia di un uomo bellissimo. Fu amore a prima vista! Gli occhi azzurri del trentacinquenne prof. Silvano Mastragostino, primario della seconda divisione di ortopedia dell’Istituto G. Gaslini di Genova, comunicarono coi miei grandi occhi neri. «Io ti salverò!» disse lui. «Fai di me quello che vuoi!» fu la mia audace risposta.
Affetta dalla terribile sindrome di Ehelers-Danlos, all’epoca praticamente sconosciuta, fra interventi, busti, protesi, arresti respiratori, riesce a sposarsi, poi divorziare, incontrare un nuovo amore, svolgere intensa attività politica e molto altro ancora finché un giorno, a quarantadue anni, mentre sta salendo le scale si sente improvvisamente stanchissima. Si risveglia – non si sa quanto tempo dopo – in rianimazione, con tubi infilati da tutte le parti, paralizzata, sorda, impossibilitata a parlare dal respiratore che blocca le corde vocali, con dolori lancinanti alle cosce. E così ha vissuto per i successivi sedici anni, immobile, muta, nutrita tramite sonda – cioè senza mai più poter sentire un sapore in bocca. Ma con una mente viva, e una straordinaria determinazione a vivere, comunicare, lottare. Senza mai piangersi addosso. Litigando a volte coi medici, esattamente per i motivi per cui a volte ci litigo io: quando loro non riescono a capire che io non sono una malattia e non abito nei loro libri, e quando devo ricordare loro che “lei fa il medico da vent’anni, io faccio la paziente da sessantasette: il suo mestiere lo conosce lei, ma il mio corpo lo conosco io”. E anche per Marina, come per me, in caso di pareri discordanti, alla fine emerge sempre che avevamo ragione noi (e mi piace di avere almeno una piccola cosa in comune con questa donna grandissima). E dunque Marina vive, comunica, apre un blog (La principessa sul pisello), scrive un libro, si guarda intorno e ci racconta il mondo terribile della malattia e degli ancora più terribili pregiudizi sulla malattia.
Gaetano era un piccolo siciliano biondo di nove anni che scorazzava tutto il giorno sulla sedia a rotelle, nel reparto di Ortopedia II dell’Istituto Gaslini di Genova. Era sempre solo, non aveva nessuno che si occupasse di lui, che gli desse un po’ d’amore, fatta eccezione per quello che riceveva da medici e infermieri che, a turno, se lo portavano a casa per fargli passare un fine settimana in famiglia. Gaetano sembrava felice: parlava volentieri, giocava e rideva con tutti. Ogni mattina s’informava dei nuovi arrivi e, nel pomeriggio, andava a far visita alle matricole rassicurandole sulla bontà del vitto e sulla gentilezza del personale. Poi, con fare assolutamente naturale, raccontava la sua storia agghiacciante. «Io sono nato con le gambe malate, per questo mia mamma e mio papà non mi hanno portato a casa. Che se ne facevano di un bambino come me? Ma il dottore mi ha detto che con le operazioni e la ginnastica posso guarire. Così poi mamma torna a prendermi e mi porta a casa con i miei fratelli.»
Determinazione a vivere. E una robustissima dose di umorismo e autoironia.
Data la rarità della mia malattia e della mia capacità di resistenza, ricevo spesso visite di medici che vengono solo per la curiosità di vedermi. Come si va allo zoo a vedere i panda, vengono da me per osservare la sindrome rara e per capire i meccanismi che mi tengono viva e, miracolosamente, in salute. In questa categoria rientrano i più disparati elementi: l’oculista che mi porta i libri da leggere, il dietologo che mi parla di arte e del Genoa, il dermatologo che sentenzia «tutti dobbiamo morire» e le espertissime e affettuose infermiere del servizio sanitario che mi portano peluche e buonumore. Proprio da una delle infermiere, in una fredda nevosa giornata, mi arrivò il seguente sms: «Oggi ti porto un medico giovane e bello». L’occasione era ghiotta e, nonostante il cuore irrimediabilmente impegnato, non potevo mancare al gustoso invito: cambio di camicia e di pannolone, passando dalla versione ascellare a quella baby, pettinata veloce, zaffata di profumo e occhio, quello ancora buono, languido. Ora, come avrete capito, la maggior parte dei medici che mi frequentano viene più che altro per farsi una cultura, poiché io sono una sorta d’enciclopedia vivente per la quantità di sfighe e di patologie che concentro su di me. Il dottor F., effettivamente raro esemplare del genere maschile, assai affascinante e simpatico, dichiarò subito, bontà sua, di essere venuto solo per conoscermi (che, in poche parole vuol dire che voleva vedere, da vicino, la «rarità» medica!) e per sapere se avevo bisogno del suo aiuto, occupandosi lui di «terapia del dolore». Provvedendo a fare i debiti gesti scaramantici, sotto le coperte, sbattendo il mio occhio buono e scrivendo sul pc, lo rassicurai che per il momento non soffrivo di dolori e che, in ogni caso, lo avrei tenuto presente. La gaia conversazione si spostò poi su altri argomenti, allietata dalla presenza dei miei genitori e dalle due garrule infermiere, una delle quali sicuramente invaghita del dottore stile E.R. Preso dalla foga delle sue parole e affascinato dalla sua stessa voce, il novello George Clooney si lanciò in una domanda di carattere social-altruistico che segnò la sua rovina: «Ma a lei, signora, cosa manca?» Il silenzio cadde sugli astanti: tutti mi guardavano sorridenti e trepidanti, solo il volto di mia madre lasciava intuire l’orribile presentimento che soltanto un cuore di mamma può avere. Con calma, pregustando la mia gioia, presi a scrivere. In breve, sul video campeggiò la mia risposta: «Cosa mi manca? S-C-O-P-A-R-E!»
Vivere, comunicare, e insegnare.
Quando dico che la mia vita è una straordinaria avventura, credo proprio di non scostarmi troppo dal vero: come avrei potuto, infatti, immaginare di essere protagonista di un film? […]
Le persone nelle mie condizioni, spesso, non amano mostrarsi, se non in momenti estremi o per gesti estremi, ma io ho deciso di mostrarmi nella mia quotidianità, per diffondere l’idea che si possa essere vitali e sereni nonostante tutte le menomazioni e le difficoltà che un’esistenza come la mia impone. […]
Un giorno, per non riprendermi sempre nella stessa posizione e con la medesima angolazione, Cinzia decise di fare una ripresa da dietro le mie spalle, inquadrando le mie mani, lo schermo del pc e la panoramica della stanza, dal mio punto di vista. «Nessun problema», sentenziò Wilma. «Basta spostare in avanti il letto e infilarsi tra la spalliera e il muro.» Effettivamente, la cosa non sembrava complessa e, creato lo spazio necessario, Marzio Mirabella, operatore e fotografo, s’infilò, con la pesante macchina da presa sulla spalla, dietro la testiera e cominciò la ripresa. All’inizio tutto filò liscio, ma, terminato il primo ciak, soddisfatto e rilassato, Marzio si sfilò dallo spazio angusto con disinvoltura e, purtroppo, i suoi piedi, per niente disinvolti, si attorcigliarono nella miriade di cavi elettrici che collegavano le mie innumerevoli macchine alla rete. Fu cosa di un attimo: coi piedi legati dai cavi, Marzio perse l’equilibrio, compiendo un volo plastico verso la finestra. La macchina da presa carambolò sopra un mobile e, ovviamente, trascinato dalla caduta dell’operatore, il cavo di alimentazione del respiratore si staccò e scattarono tutti gli allarmi. Bip, bip, bip, bip! Ancora una volta la prontezza di Wilma fu decisiva: come un rapace, afferrò il cavo elettrico e, tenendo saldamente il respiratore perché non cadesse, infilò la spina nella presa ripristinando il collegamento. Assai più difficile fu convincere Marzio di non essere un assassino: convinto di aver distrutto il respiratore, giaceva a terra, giallo come un limone, immaginando di essere già condannato all’ergastolo.
«Pensa che bella pubblicità per il film», dissi io per sdrammatizzare. «Operatore uccide la prima attrice, così titolerebbero i giornali!» E Marzio svenne.
Ma senza mai dimenticare che non siamo tutti uguali, che ogni persona è diversa, ogni malattia è diversa, ogni situazione è diversa, e lottando quindi per i diritti di chi, come Welby – che, a differenza di lei, non aveva alcuna possibilità di comunicare – sceglie di porre fine a una vita che di vita non ha più nulla.
Doveva morire appena nata, è arrivata a cinquantotto anni, cinquantotto anni di vita “vissuta pericolosamente”, cinquantotto anni di territorio strappato alla morte con le unghie e coi denti, tenacemente, giorno dopo giorno. Adesso lei non c’è più, ma la sua lezione ci resta.
Marina Garaventa, Voglio arrivarci viva, Tea
barbara