QUEI COMUNISTI IN ITALIA

che non erano mai stati al governo ma hanno sempre comandato tutto lo stesso (qualche commento mio in corsivo, qua e là).
Così l’Italia censurò il dissenso anticomunista

30 anni fa cadde l’Unione Sovietica. Fra diktat, silenzi e stroncature codarde, il mondo della cultura per anni impedì che al pubblico arrivassero le voci dei grandi testimoni

Il 25 dicembre 1991 cadde l’Unione Sovietica. Trent’anni che meriterebbero una ricostruzione speciale su come in Italia si fece terra bruciata attorno al dissenso antisovietico [diciamo pure che la sinistra è allergica al dissenso tout court]. Il clima era tale che Italo Calvino definiva George Orwell “libellista di second’ordine” e portatore di “uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’anticomunismo” [la mia prof di italiano e latino al liceo considerava Italo Calvino uno scrittore di second’ordine (“Ha fatto un unico libro valido: Il sentiero dei nidi di ragno”): vuoi vedere che aveva ragione?]
In Italia il grande drammaturgo Eugène Ionesco¹ fu a lungo interdetto. La Stampa del 6 febbraio 1975 si espresse chiaramente: “Ionesco vede nero; soltanto nero anche come colore politico: è diventato un reazionario. Il che sarebbe affar suo (si cade in braccio alle destre che si meritano) se anche la sua arte non si fosse fatta reazionaria”. Per veder tradotto in italiano il saggio del 1961 di Martin Esslin “Il teatro dell’assurdo” si è dovuto aspettare vent’anni. Un testo critico che era considerato non solo nel mondo anglosassone “un classico della saggistica contemporanea”, dice Giovanni Antonucci nell’introduzione alla terza edizione del libro uscita nel 1990, ma guardato con sospetto dall’editoria italiana: “La motivazione era esclusivamente ideologica: era un libro reazionario perché si occupava di autori reazionari”. Quando Ionesco nel 1973 accettò un invito del Cidas (Centro italiano documentazione e studi) intitolato “Intellettuali per la libertà”, su L’Avanti! uscì un articolo titolato “Stavolta Ionesco è da dimenticare”. Sulle colonne del Corriere della Sera Luigi Malerba deprecava “la traduzione italiana di un romanzo ‘reazionario’ di Ionesco edito da Rusconi”. Gabriella Bosco nel libro “Ionesco metafisico” spiega che “Einaudi lo traduceva come autore di teatro, ma manteneva il silenzio quanto a interpretazioni o giudizi di valore, prendendo implicitamente le distanze”. Bosco ricorda che “Paolo Grassi, direttore del Piccolo di Milano, ostracizzò Ionesco perché a suo parere era un autore reazionario”. Sarà un altro drammaturgo, Fernando Arrabal, a dire: “Personaggi come Giorgio Strehler hanno impedito per anni la messa in scena di grandi opere come quelle di Ionesco”. Un altro articolo su L’Avanti! lo accuserà di “passare dal precedente cinismo reazionario al fascismo dichiarato”. Su L’Espresso, Corrado Augias irriderà Ionesco anche fisicamente: “Viso gualcito, occhi vacui virati in giallo da un permanente sospetto di itterizia, manine tozze dalle dita corte, spatolate, pancino bombato, piedini divergenti. I cinquantanove anni di Ionesco tendono decisamente alla caricatura. C’è chi assicura che l’unico vero teatro ioneschiano ancora esistente è quello cui la famiglia Ionesco al completo dà vita in salotto o attorno al tavolo da pranzo” [Quindi non è rincoglionito perché è vecchio: è proprio coglione di suo]. Augias è sempre rimasto lo stesso.
Ci fu il caso di Nicola Chiaromonte, esule antifascista in Spagna per partecipare alla guerra civile con la squadriglia aerea di André Malraux, in Italia isolato e inviso per essere un rappresentante dell’anticomunismo di matrice liberal-democratica. Quando nel 1968 chiuse la sua rivista, Tempo Presente, Chiaromonte chiese a molti editori di aiutarlo a continuare la rivista, ma ebbe sempre risposte negative. Gli ultimi anni di vita di questo straordinario intellettuale anticonformista amico di Ignazio Silone trascorsero nell’umiliante sequenza di richieste di aiuto agli editori italiani: richieste che rimasero sempre inascoltate. La moglie Miriam dirà: “Gli fecero il vuoto intorno”.
Ci fu il caso della mancata pubblicazione da parte di Einaudi di una prefazione del grande scrittore polacco Gustaw Herling (due anni nei Gulag) ai Racconti della Kolyma di Varlam Shalamov (uscirà presso la piccola casa editrice L’Ancora). L’accostamento del Gulag e del Lager nazista come “gemelli”² suonò all’Einaudi come motivo sufficiente per rimandare la prefazione a Herling. “Laterza era comunista, come comunista era Einaudi, il quale pubblicava anche autori non comunisti, ma che voleva stampare quel bandito di Zdanov”³, dirà Herling senza mezzi termini. “La dittatura culturale, dittatura tout-court, c’è stata in Polonia”⁴ racconterà Herling. “Qui, come dire, ha prevalso piuttosto una tranquillizzante abitudine alla reticenza. Tempo Presente poteva uscire senza che nessuna censura poliziesca glielo impedisse. Bastava farle il vuoto attorno, non parlarne mai”. Herling ricordava che poco dopo il suo arrivo in Italia, nel 1956, un amico gli propose di scrivere un articolo sulla rivolta di Poznan per L’Espresso diretto da Arrigo Benedetti. “Non conoscevo ancora bene la lingua italiana ma accettai di buon grado e con l’aiuto di mia moglie spedii l’articolo il più presto possibile. Dopo qualche giorno ricevo un biglietto di Benedetti più o meno di questo tenore: ‘Posso comprendere i suoi sentimenti di esule ma le cose che lei scrive non sono obiettive e appaiono per di più scarsamente documentate’. Mi trovavo con Nicola Chiaromonte al bar Rosati. A un certo punto entra Carlo Levi, amico di Chiaromonte sin dall’esilio, e si mette a sproloquiare sulla rivoluzione ungherese. Per un po’ Chiaromonte rimane in silenzio, ma quando Levi chiede ad alta voce: ‘Chissà quanto avranno speso gli americani per organizzare la rivolta di Budapest’, d’improvviso vedo Nicola avventarsi su Levi e cacciarlo dal tavolo davvero in malo modo”.
Questa era l’Italia.
Ci fu la casa editrice Garzanti, che acquisì i diritti di Raccolto di dolore di Robert Conquest, il libro che rivelò al mondo il genocidio ucraino per fame, lo fece tradurre ma non lo pubblicò mai (il saggio-verità sul genocidio ucraino uscirà grazie alla piccola Liberal Edizioni). 
Ci fu il caso di Alexander Solzenitsyn. Vittorio Foa, il leader dell’azionismo, confesserà: “Quando uscì la traduzione del libro di Solzenitsyn lo vidi in libreria, lo sfogliai e non lo comprai. Ricordo questo come un vero atto di viltà: c’era qualcosa che volevo tenere lontano”⁵ [Una vigliaccheria riconosciuta come tale, dopotutto, è già un pochino perdonabile: diciamo il famoso orbo in un mondo di ciechi]. In un articolo su La Stampa del 1990⁶, Enzo Bettiza, uno dei pochi che subito si misero a difesa dello scrittore, spiegò: “Ero stato nel 1962 il primo traduttore in assoluto dal russo di ‘Una giornata di Ivan Denisovic’. Ricordo il fatto perché storicamente e filologicamente comincia da lì, da quella mia traduzione, la sequela dei falsi equivoci, delle perfidie sottili, dei malintesi interessati che hanno da sempre intossicato e reso pessimo il rapporto tra il grande deicida e la cultura più teologizzante d’occidente, quella italiana”. Bettiza si mise a tradurlo per L’Espresso, quando ricevette una telefonata del direttore, Arrigo Benedetti: “Ma che robaccia è mai questo Solzenitsyn? Mi sembra un Pavese russo, un decadente che fa il rustico! Questo gergo artefatto, questo stile falsamente gretto, tutta questa letteraria saggezza e mestizia contadine!”. Dieci anni dopo i medesimi pregiudizi si faranno meno innocenti, si tingeranno di malizia ideologica e raggiungeranno secondo Bettiza “il livello di una censura canagliesca nei confronti dell’ex ufficiale dell’Armata Rossa che aveva osato proclamare che il comunismo è soltanto delitto e menzogna”. Bettiza parlò di una “vergognosa offensiva di una vasta parte della cultura italiana contro Solzenitsyn” e che “negli anni in cui il compromesso storico avanzava e le Brigate rosse uccidevano nel nome del comunismo” si articolerà su tre piani: estetico, ideologico-politico, editoriale.
“Sul piano estetico ricordo una violenta polemica, in difesa anche artistica dell’opera sul Gulag, che mi oppose sulle pagine dei giornali a Carlo Cassola il quale, con maggiore pretenziosità politica di Benedetti aveva sostenuto su per giù le sue stesse banalità: il fenomeno Solzenitsyn era secondo lui nullo sul piano dell’arte, un pasticcio senza capo né coda fra storiografia dubbia e cattiva letteratura. Solgenitsin non era uno scrittore, non era neanche un vero storico, era soltanto il precario cronista di una sua disgraziata disavventura personale nei Lager staliniani che gli aveva dato alla testa”. Insomma: un povero matto. In una intervista al Mondo del 1974 Cassola aveva detto che Solzenitsyn era “un retore declamatorio che non vale niente come scrittore. Con Solzenitsyn mi sono trovato di fronte a uno scrittore anonimo: un corrispondente di provincia scrive meglio”.
“In molte recensioni italiane si videro diverse firme illustri impacchettarlo e stroncarlo come anticomunista viscerale e come capofila di un potenziale neofascismo russo. Un famoso letterato arrivò addirittura a esclamare in pubblico: ‘Bisognerebbe fucilarlo!’”. Ricordava Franco Fortini: “Ricordo l’ostilità di cui era circondato, qui in Italia. Penso all’area operaista, a intellettuali come Asor Rosa [quello che ce l’ha a morte con la razza ebraica, vedi qui e l’ultima parte qui (ma se avete qualche minuto leggetelo tutto) e che un noto saltimbanco ebreo rinnegato venduto alla causa del terrorismo palestinese ha difeso all’epoca a spada tratta], Tronti, Negri, Cacciari [quello che oggi si mette in cattedra a dare lezioni di etica all’Italia intera], tutta gente che rideva a crepapelle sui libri di Solzenitsyn”. 
Sul piano editoriale non ci si poteva aspettare altro che la conseguenza commerciale e pubblicitaria della quarantena: “I suoi libri, dopo che erano stati dileggiati esteticamente e confutati ideologicamente, vennero sistematicamente boicottati editorialmente. Nello stesso periodo in cui Feltrinelli offriva a modico prezzo ai terroristi in erba manuali per la confezione di granate casalinghe, altri grandi editori rifiutavano la pubblicazione dell’opera solgenitsiana o, se ne pubblicavano uno spezzone, lo facevano quasi vergognandosene”. Zero pubblicità e quasi una vergogna a esporlo nelle librerie. “Nessuno vuole recensire ‘Arcipelago’, nessuno si vuole occupare di Solzenitsyn”, si lamentava Domenico Porzio, allora capo ufficio stampa della Mondadori.
Così Arcipelago Gulag finisce per languire in scaffali secondari. Durissimo il giudizio di Vittorio Strada, grande esperto di cultura russa, poi responsabile dell’Istituto di cultura italiana a Mosca: “Solzenitsyn da noi è stato prima svuotato e poi censurato. La sua verità era scomoda per tutti: per i comunisti che lo consideravano un nemico, per i non comunisti laici e cattolici – che non sapevano dove collocarlo”. Non da meno Lucio Colletti: “Da noi le anime belle dell’intelligencija hanno campato attaccate alla giacca del potere, ruminando nelle greppie di quelle maleodoranti associazioni che sono le burocrazie di partito. Questi opportunisti vigliacchi si facevano un punto d’onore a non avere letto i libri di Solgenitsin, ecco l’infamia”. Giancarlo Vigorelli, per dieci anni segretario generale del Comitato degli scrittori europei, dirà che “in Italia quasi nessuna voce si è levata in suo favore. Lui scriveva che il comunismo è un delitto contro la coscienza, da noi i letterati – per esempio quelli legati a una casa editrice come Einaudi – lo liquidavano dicendo che era uno scrittore mediocre”. Irina Alberti: “Non solo fu frainteso, diffamato, ridicolizzato, vilipeso, ma fu ignorato”.
Alberto Moravia [uomo dall’aspetto così come dalla prosa di rara bruttezza] lo definisce su  L’Espresso “nazionalista slavofilo della più bell’acqua”, mentre Eugenio Montale sul Corriere della Sera: “Potrà conservare la proprietà, o l’uso, di due appartamenti, potrà scrivere quello che gli pare e permettere che a sua insaputa (!) altri suoi libri si stampino all’estero; e potrà – suppongo – incassare il premio Nobel che nel frattempo gli è stato conferito, ma in nessun modo potrà fregiarsi del titolo di scrittore sovietico con le carte in regola”. Paese Sera: “Ancora prima dell’analisi storica, è la stessa ricostruzione dei fatti che è carente o addirittura assente del tutto. Come si può pretendere, a questo punto, che trovino spazio e uditorio, nel vuoto lasciato dalla storiografia, le documentazioni e le interpretazioni di parte fornite da Solzenitsyn”. Una delle poche recensioni positive fu quella sul Corriere della Sera di Pietro Citati, mentre Umberto Eco lo definì “Dostoevskij da strapazzo”. [ognuno misura gli altri sulla base del proprio metro, si sa]
Provate a cercare in italiano i libri di Vladimir Bukovskij, lo scrittore che i sovietici rinchiusero per dieci anni nei manicomi. Se sarete fortunati, troverete qualche rimanenza delle edizioni Spirali, inesistente casa editrice milanese. Nell’ottobre del 1990 Bukovskij venne a Roma, ospitato dai gruppi parlamentari, mentre in Europa (e in Italia) la sinistra si beava delle “riforme” di Michail Gorbaciov. Bukovskij disse: “Non credo alla riformabilità del socialismo in Urss. L’Occidente si illude. E fa come l’uomo di quella storiella che voleva volare e si buttò dal ventesimo piano di un grattacielo. Per qualche secondo conobbe la felicità perché stava volando. Peccato che subito dopo si sfracellò al suolo”⁷.
A questi giganti del dissenso e ai testimoni dell’orrore, i custodi dell’utopia non perdonarono mai di non aver voluto volare insieme a loro. Gustaw Herling ricordava sempre un aneddoto: “Alberto Moravia a Francoforte, anno 1960, lui presidente di turno del Pen Club, doveva aprire la riunione con un ordine del giorno preciso: sospendere la sezione di Budapest per protestare contro l’incarcerazione degli scrittori ungheresi. Lo incontro la sera prima e mi dice: ‘è capitata una cosa, l’altro giorno a Roma l’ambasciata sovietica mi ha comunicato che presto i miei romanzi potranno uscire in Urss. E poi a casa mi hanno mandato una grande scatola di caviale’. Il giorno dopo Moravia pronunciò un discorso molto diplomatico, molto cinico. Disse: ‘nessuna ingerenza sulle questioni interne ungheresi’”⁸. [Si chiama prostituzione. È un mestiere molto antico, e se ciò che viene venduto è un po’ di sesso è un mestiere onesto. Altrimenti no]
Questa era la “cultura italiana”. E non è cambiata. Conformista. Codarda. Censoria.
Giulio Meotti

1 Arrabal con Vargas Llosa «La sinistra come Franco», La Stampa, 26 agosto 1994
2 Herling Einaudi, La Stampa, 23 maggio 1999
3 La Repubblica, 26 febbraio 1993
4 Herling due volte solo fra i rossi, La Stampa, 24 marzo 1992
5 Foa, confesso che ho taciuto, La Stampa, 2 novembre 2003
6 Solzenitsyn, il profeta rifiutato, La Stampa, 26 settembre 1990
7 Bukovskij: perché non ho applaudito, La Stampa, 16 ottobre 1990
8 Solzenitsyn, il profeta rifiutato, La Stampa, 26 settembre 1990

“E non è cambiata”. Già: lo stiamo vedendo.

barbara

UNA RISPOSTA SERIA A UN NOTO CAZZARO

(È lungo, ma vi ho lasciati riposare per tre giorni interi, quindi non lamentatevi)

Perché non c’è niente da fare: quando si piscia fuori dal vaso si sporca e ci si sporca. E quando si pretende di parlare di cose al d fuori dei proprio ambito, si piscia SEMPRE fuori dal vaso.

Caro Cacciari, si può chiedere “alla Scienza” ma si devono accettare le sue risposte

Dunque: i filosofi Agamben e Cacciari hanno sollevato un polverone, pubblicando un documento che, accusando chi è favorevole al green pass di voler introdurre un’ulteriore, pericolosa forma di restrizione della libertà sulla strada che porta a forme non democratiche di governo, in realtà esprimono anche una serie di argomenti, sotto la forma retorica di domanda, che sono tipicamente utilizzati dalla galassia di chi si oppone al vaccino per giustificare le proprie scelte. Domande, cioè, che sottintendono dubbi tali da rendere legittima la scelta di non vaccinarsi, al pari di quella di vaccinarsi; e, per converso, rendono illegittima ogni forma di coercizione al vaccino, cui è assimilata anche la richiesta del green pass.

Non intendo rispondere al documento pubblicato originariamente il 26 luglio sul sito dell’Istituto per gli studi filosofici di Napoli: altri, anche più titolati di me visto il genere di argomenti utilizzati, ne hanno mostrato l’ovvia inconsistenza e la grossolanità. Per esempio, Flores d’Arcais su MicroMega si chiede sarcasticamente perché il suo amico Cacciari non abbia speso una parola “di indignazione, vituperio, condanna, per la ‘pratica di discriminazione’ che non consente di guidare liberamente un’automobile (ma eventualmente anche un Tir, se aggrada), e impone di passare per le forche caudine di esami orali e scritti, solo al termine dei quali il cittadino (ma non è ormai così ridotto a suddito?) riceve un ‘green pass’ definito ‘patente di guida’”. Oppure D’Alessandro sull’Huffington Post, che parla esplicitamente di “cantonata” presa dai due filosofi. E ancora Di Cesare sull’Espresso, che scrive: “E’ indubbio che oggi viviamo la insolita condizione per cui il nostro corpo può essere arma di contagio e morte per gli altri. Proprio ciò dovrebbe spingere a mettere al primo posto la responsabilità. Questo – e non altro – è il messaggio del green pass”. O infine Sorrentino sul Sole 24 Ore, che in un’accurata disamina dell’origine del documento di Agamben e Cacciari parla di “salti logici” dei due filosofi.

A me, tuttavia, interessa rispondere al solo Cacciari, perché ieri, pressato evidentemente dalle numerosi reazioni, ha sentito il bisogno di articolare meglio il suo pensiero, trovando ospitalità sulla Stampa. Di questo articolo ci sarebbe molto da dire, ma a me interessa rispondere su alcuni punti precisi, laddove cioè il filosofo “con grande umiltà” pone alla “Scienza” con la maiuscola una serie di domande. Domande che, come accennavo in precedenza, assomigliano agli artifici retorici dei No vax, volti a dimostrare l’esistenza di dubbi che non sussistono, nel senso che si tratta di questioni già risolte, le quali però si finge che siano ancora aperte.

Chiede “alla Scienza”, innanzitutto, Cacciari: “Non dovrebbe un cittadino leggere e sottoscrivere prima della vaccinazione l’informativa dello stesso ministero della Salute?” Questa, naturalmente, non è affatto una domanda di pertinenza scientifica, né per merito né per metodo; ma proverò comunque a dare una risposta. Al sottoscritto, come a tutti coloro che si sono presentati per la vaccinazione, è stata presentata la documentazione necessaria per poter prestare il proprio consenso informato; documentazione differente per ogni tipo di vaccino e aggiornata a mano a mano che nuove informazioni divenivano disponibili. Già la modulistica in questione conteneva informazioni di significato non accessibile a tutti, per esempio la composizione del vaccino utilizzato; e per questo presso ogni hub vaccinale era possibile porre domande o formulare richieste di chiarimento con i medici presenti; questo per non parlare dell’opera dei medici di base, che si sono prestati alla campagna vaccinale e hanno fornito informazioni personalizzate ai propri pazienti. [Confermo. Essendo a rischio di reazioni allergiche, ho chiesto alla dottoressa se non fosse opportuno che facessi la stessa profilassi che faccio quando devo fare una risonanza con contrasto, e lei mi ha spiegato le razioni per cui non era per niente opportuno, inopportunità confermata dal medico con cui ho avuto il colloquio al centro vaccinale. E il modulo con le informazioni l’ho scaricato nel momento in cui ho prenotato, avendo quindi tutto il tempo di leggere, pormi eventuali domande e, nel caso, chiedere al medico al momento della vaccinazione] Mai i cittadini hanno conosciuto con così grande dettaglio, aggiornamento e meticolosità la natura di ciò che si iniettavano; dunque trovo l’obiezione fuori luogo.

La seconda domanda è un tipico cavallo di battaglia degli antivaccinisti, che è usato per instillare paura, e Cacciari la formula così: “Che cosa ne pensa la Scienza del documento integrale Pfitzer [sic!] in cui si dice apertamente che non è possibile prevedere gli effetti del vaccino a lunga distanza, poiché non si sono potute rispettare le procedure previste (solo 12 mesi di sperimentazione a fronte degli anni che sono serviti per quello delle normali influenze)?”. Mi piacerebbe innanzitutto verificare le fonti di questa affermazione, ma assumiamo che sia vera, e che davvero da qualche parte Pfizer abbia scritto una cosa del genere “apertamente”. Intanto, per il vaccino influenzale che inoculiamo ogni anno non vi è affatto un periodo di anni di sperimentazione clinica, visto che ogni anno si cambia vaccino a causa della variazione di quelli che si ritengono saranno i ceppi prevalenti nell’inverno. In secondo luogo, come ho già scritto più volte, quello di “lunga distanza” è un concetto relativo: quanto sarebbe la “distanza” temporale che si vorrebbe, per essere convinti? E perché proprio quella? In ogni caso, sappia Cacciari che i tempi di sviluppo e di somministrazione di massa di alcuni vaccini sono stati anche più ristretti del caso attuale; e anche se in quelle occasioni ci fu già chi prospettò potenziali e indefiniti “effetti a lungo termine”, questi non sono stati osservati. Il problema comunque è che la richiesta di “escludere effetti a lungo termine” è semplicemente impossibile da soddisfare, ed è pertanto usata dagli oppositori di qualunque sviluppo tecnologico nella forma di un malinteso principio di precauzione; non si può rispondere a questa richiesta, così come non si può provare l’inesistenza o l’esistenza di un dio. Il ragionamento è diverso: di fronte a un pericolo concreto, che si manifesta nel presente, si raggiunge il massimo di sicurezza che sperimentazioni su decine di migliaia di persone per alcuni mesi possono garantire, e poi, in presenza di morti e malati di virus, si procede con il vaccino. In alternativa, cosa avrebbe detto il filosofo Cacciari, se al propagarsi del virus e all’impilarsi dei morti, le aziende farmaceutiche avessero tenuti chiusi i depositi, attendendo qualche anno per maggior sicurezza di non arrecare danno? Sarebbe stato etico veder morire le persone, avendo a disposizione i dati che si avevano quando è iniziata la campagna vaccinale?

Vi è poi un’ulteriore domanda di Cacciari, e cioè: “Risponde alla realtà o no che i test per stabilire genotossicità e cangerotossicità dei vaccini in uso termineranno solo nell’ottobre del ’22? La fonte è European Medicine”. Dove, caro Cacciari, Ema avrebbe scritto una cosa simile? Io trovo nel “Risk Management Plan” per il vaccino Pfizer, redatto da Ema alla fine di aprile, quanto segue (coerentemente ripetuto in tutti i documenti precedenti): “I componenti del vaccino, lipidi e Rna, non sono attesi avere potenziale cancerogeno o genotossico”. Questo, come ricordato nello stesso documento, è in accordo con le linee guida di sviluppo dei vaccini redatte nel 2005 da Oms, che semplicemente si basano su tutte le evidenze disponibili ed escludono la genotossicità e la cancerogenicità di certi prodotti, per la stessa ragione per cui non si testa la genotossicità dell’acqua o quella dei prodotti omeopatici. In ogni caso, sarebbe interessante capire chi e dove starebbe conducendo per Ema tali studi fino al 2022, visto che se così fosse ciò sarebbe in contrasto con quanto Ema nel documento citato dichiara; le fonti della sua affermazione, caro Cacciari, sarebbero molto utili per questa verifica.

Infine, il filosofo pone un’ultima domanda “alla Scienza”: “E’ vero o no che mentre lo stesso ministero della Sanità ha dichiarato che la somministrazione del vaccino è subordinata a condizioni e in via provvisoria, nessun protocollo è ancora stabilito per quanto riguarda soggetti immunodepressi o con gravi forme di allergia?”. Per quel che riguarda i soggetti immunocompromessi, non è che non sia stabilito un protocollo: il suggerimento è di vaccinare, anche se ci si attende una risposta inferiore, perché è meglio una bassa risposta al vaccino che una totale esposizione al virus. Per quel che riguarda i soggetti gravemente allergici, invece, le indicazioni sono chiare, e si riflettono anche nei moduli che ogni vaccinato deve firmare: il vaccino della Pfizer, per esempio, non deve essere somministrato a chi “è allergico al principio attivo o a uno qualsiasi degli altri componenti” e l’allergia, specialmente se in forma grave, va dichiarata al medico vaccinatore (nella modulistica appropriata) specificando l’allergene, consentendo al medico di valutare quale sia il vaccino più appropriato. Per il resto, si procede.

Io non sono “la Scienza”, cui Cacciari rivolge le domande che ho elencato; ma siccome nessuno lo è, ho provato a rispondere come meglio potevo – e come può chiunque non sia proprio a digiuno della materia. 
Le domande sue e dei No vax, caro Cacciari, e il fatto che possano esistere dubbi, non significano affatto che non esistano risposte, e che tali dubbi non siano già stati affrontati dalla comunità scientifica e dagli enti regolatori; bisogna però avere la pazienza e l’umiltà – quell’umiltà con cui lei asserisce di voler chiedere “alla Scienza” – di accettare le risposte, non come verità rivelata, ma come la più probabile tesi fra quelle possibili. I dati potranno certo cambiare alcuni particolari o anche molto di ciò che oggi ci sembra di sapere; ma, per procedere in scienza e coscienza, ci si basa sulla scienza che si ha al momento, e sulla coscienza di doversi proteggere da un virus che circola oggi, non che arriverà fra due anni.

Chiedo quindi infine “alla Filosofia”: è vero o non è vero che Talete, mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un pozzo?
Enrico Bucci, qui.

In effetti fare domande – con l’aria di fare domande intelligenti – ignorando, o fingendo di ignorare, che a quelle domande la risposta è già stata data, interrogare “la Scienza” ma non prendersi il disturbo di ascoltarne le risposte, non è una grandissima prova di intelligenza.
Passo a un tema affine. Capita spesso, ultimamente spessissimo, di trovare negli spazi dei vaccinofobi ogni giorno più assatanati, video e tabelle che mostrano come i vaccini siano, al contempo, pericolosi per la salute e inutili contro il virus. Bene, leggete un po’ qua.

La strana storia degli youtuber pagati per fare disinformazione sui vaccini

Lo youtuber e divulgatore scientifico francese Leo Grasset ha rivelato su Twitter a metà maggio di avere ricevuto una strana proposta. Un’agenzia di marketing gli aveva offerto una cifra ragguardevole per pubblicare un video a tema, con una consegna ben precisa: mostrare, numeri alla mano, l’aumento della mortalità fra le persone che avevano ricevuto il vaccino di Pfizer in Francia.
Nello stesso periodo, l’influencer scientifico tedesco Mirko Drotschmann riceve un’email con un’offerta analoga a quella di Grasset. La stessa agenzia di influencer marketing (si chiama Fazze) gli chiede di pubblicare un video sul suo canale da quasi 1,5 milioni di follower in cui si dimostra la pericolosità del vaccino Pfizer rispetto a quello di AstraZeneca.
Il brief dell’agenzia sembra uscito da un manuale sulla disinformazione mirata: l’agenzia chiede di partire da un articolo uscito su Le Monde avente per oggetto l’hackeraggio dei server dell’Ema, l’Agenzia europea per i Medicinali, e di collegare il fatto (realmente accaduto) a una tabella con i dati sulla mortalità dei pazienti ottenuti da fonti diverse, presi fuori contesto, e aggregati ad arte per dimostrare la pericolosità del vaccino Pfizer. Lo scopo, fin troppo ovvio, è suggerire un collegamento fra il furto di dati e quella tabella.
Non appena Drotschmann e Grasset svelano l’offerta di Fazze, gli articoli segnalati dall’agenzia ai due youtuber spariscono dal Web. Solo quello di Le Monde, usato come involontaria testa di ponte, rimane consultabile online. Nel frattempo altri 4 influencer tra Francia e Germania seguono l’esempio dei colleghi e rivelano pubblicamente di avere ricevuto la stessa proposta.

Due youtuber accettano l’offerta
In Europa la campagna salta, ma va a segno in India e in Brasile: il giornalista tedesco Daniel Laufer, indagando sulle segnalazioni di Drotschmann e Grasset per Netzpolitik, scopre i video degli youtuber Everson Zoio e Ashkar Techy, che solitamente non condividono alcun tipo di contenuti scientifico. In due video pubblicati a metà maggio, entrambi escono dal loro personaggio per mostrare ai follower i dati che Fazze stava cercando di diffondere sui canali degli influencer tedeschi e francesi. In entrambi i casi, non rivelano in alcun modo di essere stati pagati né la provenienza reale di quei dati. Proprio come Fazze aveva chiesto di fare a Drotschmann e Grasset, invitandoli di fatto a violare le leggi tedesche e francesi sulla pubblicità occulta.
La chiave di volta dell’intera operazione è la tabella con il numero dei morti legati alle vaccinazioni che Ashkar Techy ed Everson Zoio mostrano nei video. Secondo i dati relativi alla Germania, quelli che Fazze aveva inviato a Drotschmann, su un milione di dosi di vaccino Pfizer ci sarebbero stati 29,9 morti, contro i 6,5 decessi registrati fra chi aveva ricevuto un vaccino AstraZeneca. Contattati da Laufer, i due youtuber non hanno risposto e hanno prontamente cancellato i video incriminati.

Nessuna correlazione
Secondo il Paul Ehrlic Institute, organismo tedesco che si occupa della regolamentazione sui vaccini, i dati della tabella sono grossolani e fuorvianti: “Le cifre per la Germania, che sono apparentemente basate su dati forniti al pubblico dal Pei dall’inizio di aprile, non dicono quante persone sono morte a causa della vaccinazione, come sostiene il titolo, ma solo quante persone sono morte entro 40 giorni dalla vaccinazione”, ha spiegato Laufer nell’inchiesta.
I numeri, in sostanza, non mostrano alcuna correlazione diretta fra il vaccino e le morti registrate dall’ente tedesco. Come illustrato dal Pei, tra i morti registrati l’età media era superiore a 80 anni e quasi tutti erano ad alto rischio per la loro storia clinica. In altre parole, quei morti della tabella sono persone che sono sì decedute entro 40 giorni dalla somministrazione del vaccino, ma generalmente per cause naturali, per malattia o per incidenti. E allora perché quella differenza così netta nel numero di morti tra Pfizer e Astrazeneca? Semplice, perché come mostra il grafico che si vede qui sotto (che arriva da Impfdashboard.de) in Germania il Comirnaty di BioNTech/Pfizer è di gran lunga il vaccino più utilizzato.
Insomma, un’altra trovata da manuale della disinformazione: i numeri sono reali, ma vengono presentati in maniera fuorviante per arrivare a creare una fake news a partire da fatti concreti, ma completamente scollegati fra loro.

Chi c’è dietro
Fazze, l’agenzia di influencer marketing che ha gestito la campagna, è in realtà solo una facciata di un’operazione che ha evidenti legami con la Russia. L’indirizzo della sede londinese di Fazze, il numero 5 di Percy Street nel quartiere di Fitzrovia, appartiene a una cosiddetta corporate mailbox, cioè una sede virtuale cui sono collegate centinaia di imprese. Una ricerca con Google Street View mostra all’indirizzo la placca della Company Formation Advice (già Company Advice): la società, secondo un report di BellingCat sul riciclaggio internazionale, ha registrato nel Regno Unito centinaia di Ltd con legami alla Russia, incluse molte aziende che hanno a che fare con il gioco d’azzardo, il trading e il forex, e in generale altre attività sospette.
Dal sito del Registro delle Imprese britannico, dove Fazze non è però registrata, si scopre poi che allo stesso indirizzo era stata fondata nel 2014 anche un’altra azienda di marketing, la AdNow Llp. Nel corso della sua inchiesta per Netzpolitik, Laufer ha scoperto che il legame fra AdNow e Fazze non è poi così difficile da rilevare: molti dei domini da cui opera l’agenzia, infatti, rimandano a proprietà Web che fanno capo ad AdNow, e così pure le email inviate a indirizzi di Fazze.
Qui i legami con la Russia si fanno ancora più evidenti: AdNow è stata fondata da un inglese e dal russo Stanislav Fesenko nel 2014. Uno dei dipendenti, Vyacheslav Usoltsev, era indicato su un profilo LinkedIn ora rimosso come l’Ad di Fazze. Non solo: fino al 2018 la direttrice della divisione russa di AdNow era Yulia Serebryanskaya, una veterana delle campagne politiche e responsabile di marketing per United Russia, il partito di maggioranza che sostiene Putin. Serebryanskaya, come illustrato da un’inchiesta di RadioFreeEurope, ha inoltre fondato e dirige un’organizzazione chiamata Russian Initiative, che si propone di “promuovere la cultura della Russia e di rappresentarne le tradizioni e i successi sociali, anziché tollerare un’idea distorta della madre patria”.

Il committente ignoto
Quale sia il fine ultimo di questa campagna, nonostante questi collegamenti evidenti con la Russia, si può però solo ipotizzare, perché non ci sono tracce dirette di un coinvolgimento di altri mandanti istituzionali. La teoria più accreditata è che l’iniziativa faccia parte di una serie di operazioni volte a promuovere il vaccino Sputnik V [nota per gli imbecilli: V sta per vaccino, non per 5], visto che alcuni dati della campagna di Fazze sono curiosamente simili ai materiali ufficiali per la promozione del farmaco di produzione russa. Intanto le autorità francesi e tedesche hanno avviato indagini indipendenti per provare a capire chi sia il cliente di AdNow che ha commissionato l’intera operazione.
Quel che già sappiamo è che la campagna che ha visto coinvolti i due youtuber europei è solo la punta di un iceberg. La piattaforma video di Google e gli altri social sono ormai diventati in tutto il mondo i target perfetti per operazioni di disinformazione a pagamento su larga scala, e non solo quelle incentrate sui vaccini anti-Covid. Un mercato che secondo gli esperti di sicurezza e gli analisti è esploso negli ultimi anni, grazie a un numero crescente di società e agenzie internazionali capaci di condurre campagne globali che un tempo erano appannaggio degli enti di spionaggio.
Corrompere influencer e comprare visibilità sui social per posizioni divisive o per diffondere disinformazione mirata, è solo una delle tattiche. Ci sono i network di bot su Twitter, gli account falsi su Facebook, gli interventi anonimi su Reddit, in un trend la cui genesi, secondo molti esperti di settore, si può ricondurre allo scandalo Cambridge Analytica del 2018. La vera differenza fra le campagne pro-Cina a Taiwan, per esempio, o la disinformazione pro-francese o pro-russa in Repubblica Centrafricana e la campagna di Fazze è che finora in pochi avevano provato a coinvolgere dei pesi massimi del calibro di Drotschmann e Grasset. Un errore grossolano per un gruppo disinformatori esperti, ma che lascia inevitabilmente aperta una domanda: in quanti altri casi la stessa tattica è andata a buon fine e nessuno se n’è accorto?
di Andrea Nepori, qui.

Ecco: quando sentite dire ma i numeri, ma le tabelle, ricordatevi di questo. E questa storia, per inciso, ricorda quella del medico che aveva messo a punto un nuovo vaccino contro il morbillo, ma dato che ce n’era già uno perfettamente funzionante, che cosa fare per screditarlo e promuovere il proprio? Ha inventato che il vecchio vaccino provocava l’autismo, e un sacco di polli non solo se la sono bevuta, m hanno addirittura esteso la favola a tutti i vaccini esistenti.
Leggo infine su ANSA:

Covid: Cina, 2 casi a Pechino dopo 6 mesi, Nanchino isolata

PECHINO, 29 LUG – Il Covid-19 torna a Pechino con due casi di trasmissione domestica, i primi in sei mesi, sufficenti per far alzare l’allerta alle autorità sanitarie della capitale. La Cina è nella peggiore emergenza da mesi legata al coronavirus con la situazione più critica a Nanchino, il capoluogo del Jiangsu ormai isolato: sono stati istituiti posti di blocco e sospeso tutti i voli.
Oltre 170 persone, infatti, sono state diagnosticate con la variante Delta negli ultimi 10 giorni. La Commissione sanitaria nazionale ha reso noto che mercoledì sono stati registrati 49 nuovi casi di Covid-19, di cui 25 di trasmissione domestica e 24 importati.

Due casi in una città di 21 milioni e mezzo di abitanti. I primi in sei mesi. 170 persone contagiate su quasi un miliardo e mezzo: emergenza, anzi, la peggiore da mesi: ma veramente siamo ancora disposti a farci prendere per il culo da questa banda di assassini e continuare a berci le loro montagne di balle?

barbara

PROGRESSISMO VS CONSERVATORISMO RETROGRADO OSCURANTISTA

Parto con la destra, l’orrendissima destra illiberale, intrinsecamente fascista, nemica della democrazia, che vorrebbe riportarci al medioevo (che nessuno sa che cosa diavolo voglia dire, ma è un modo di dire che riempie bene la bocca). Parto da quella perché poi potrete rialzarvi il morale con la parte migliore della società.

Visto che brutta roba? (Anche eccellente attore, tra l’altro) A proposito, per chi se lo fosse perso, l’invito di Sgarbi lo trovate qui. Ma adesso rallegratevi, che arrivano le magnifiche sorti e progressive ad opera di chi va a conquistar la rossa primavera dove sorge il sol dell’avvenir.

Visto che meraviglia lo spettacolo di vauretto nostro che di fronte al coro di proteste per la puttanata che ha detto, recita la parte del martire del Libero Pensiero? (Che poi, a dirla proprio tutta, questo Vauro ciccione non vi sembra che abbia l’aria un po’…?) E a proposito di Babbo Natale e quindi Natale, che ormai non è più lontanissimo, e quindi Gesù Bambino e quindi presepe, eccovi qualche suggerimento utile

E poi succede, in questa nostra epoca strana, di sentire un signore molto molto sinistro che dice cose tremendamente sensate

E poi abbiamo un altro signore talmente universale, talmente bravo, talmente poliedrico, da riuscire a farsi perculare da tutti, di destra come di sinistra

E infine una cosa da leggere, che se no mi ci perdete l’abitudine e questo non va bene.

Cosa resta di “liberale” in Italia? Il declino economico va di pari passo con il declino della libertà

Chiunque abbia letto Hayek potrà dirvi che è un film già visto: lo Stato che si aggrappa all’emergenza per espandere i propri poteri, il ricorso agli “esperti” che nessuno può contraddire, la totale subordinazione delle assemblee democratiche al potere dell’esecutivo e di quelle figure “speciali” scelte per affrontare l’emergenza. È proprio questo il modo in cui uno Stato si avvicina al totalitarismo, su una strada lastricata di buone intenzioni, di “competenze”, di “necessità di protezione”

I difficili giorni che stiamo vivendo, mentre affrontiamo una seconda ondata di contagi da coronavirus, ci presentano un Paese profondamente diviso, inquieto e confuso. Mentre la recessione minaccia la nostra economia, il caos regna sovrano anche nelle istituzioni, come mostrano i battibecchi continui tra Stato e Regioni. E non si possono tacere grandi perplessità, da un punto di vista liberale, circa l’opportunità e la legittimità morale del modo in cui il governo sta intervenendo per fronteggiare l’emergenza. 
La totale assenza di chiarezza e sensatezza nei provvedimenti presi (basti pensare al barista di Catanzaro, che chiude a mezzanotte e riapre a mezzanotte e un quarto, nel pieno rispetto del Dpcm) richiede una volta di più una riflessione su quello che è diventato il nostro Paese: siamo ancora una democrazia liberale?
La prima vera domanda che dovremmo porci è se lo siamo mai stati: una Costituzione profondamente rigida che mette il lavoro prima della libertà, che non concede ai popoli che fanno parte del Paese di decidere democraticamente di percorrere strade diverse, che addirittura non vuole che i cittadini si esprimano sulle tasse, sulle questioni internazionali e sulla forma dello Stato, non pone le migliori premesse per quella che dovrebbe essere una democrazia liberale.
Questo governo però sta riuscendo, con i suoi metodi, con la sua comunicazione e con l’aiuto di drappelli di esperti e giornalisti, a estirpare qualsiasi residuo germe di libertà rimasto in Italia, e la mia non è una “sparata”, qualcosa per “alzare i toni”, ma la semplice constatazione del fatto che il declino di questo Paese sta andando di pari passo con il declino delle sue libertà. Ho parlato di “declino” perché è proprio questa la parola che Hayek, uno dei padri del liberalismo di scuola austriaca, usa nella sua opera “La società libera” per descrivere la situazione di uno Stato in cui avere opinioni diverse da quella corrente costituisce motivo di riprovazione.
Se pensiamo a quello che succede in Italia, dove a comandare non è più la politica ma l’opinione di questo o quel virologo, stiamo arrivando alla fotografia perfetta del declino. In Hayek c’è tutto: lo Stato che si aggrappa all’emergenza per espandere i propri poteri, il ricorso agli “esperti” che nessuno può contraddire, addirittura (ed è il nostro caso) la totale subordinazione delle assemblee democratiche (in cui dovrebbe risiedere il potere vero, quello emanato dal voto popolare) alle decisioni e al potere dell’esecutivo e di quelle figure “speciali” scelte per affrontare l’emergenza. È la democrazia che si mangia da sola cancellando ogni tratto liberale e cedendo ai nuovi valori della “competenza”, della “pianificazione” e del “controllo”. La competenza peraltro è davvero un valore, ma non quando viene sventolato per mettere a tacere gli altri.
Cosa rimane quindi di “liberale” al nostro Paese? Ben poco ormai: accanto a larghe fasce di popolazione stufe di questo modo di fare ci sono ampie schiere di esperti, giornalisti e quant’altro pronti a difendere ogni mossa del premier e ad accusare chiunque la pensi in modo diverso di “negazionismo” e ignoranza. Lo Stato si inserisce prontamente emanando Dpcm confusi e pieni di falle, prolungando lo stato di emergenza per poi non garantire una effettiva preparazione alla seconda ondata, giustificando atti e affermazioni liberticide con la retorica del “è necessario”.
Chiunque abbia letto Hayek e la scuola austriaca potrà dirvi che è un film già visto: è proprio questo il modo in cui lo Stato si avvicina al totalitarismo, ossia su una strada lastricata di buone intenzioni, di “competenze”, di “necessità di protezione”. È lo stesso meccanismo per cui, in economia, lo Stato cresce sempre senza mai fermarsi: trovando di volta in volta un’azienda decotta da salvare, un’ingiustizia da sanare o una disuguaglianza da “riequilibrare”, lo Stato continua a spendere i soldi dei contribuenti e se possibile a ingigantire la mole del debito. Questo è frutto del pericolo di cui parlava Hayek in “La via della schiavitù”, una delle sue opere più celebri: scambiare la democrazia per un “fine” politico, quando essa in realtà è solo uno dei molteplici strumenti utilizzabili per arrivare alla libertà. Se la “legittimazione democratica” di uno Stato porta lo Stato stesso a potersi permettere provvedimenti illiberali e a mettere a tacere chi la pensa in modo diverso, la schiavitù diventa un dato di fatto, il totalitarismo una realtà.

Francesco Zanotti, 21 Ott 2020, qui.

E ormai, infatti, lo è.

barbara