JUDEN HABEN WAFFEN!

Pochi giorni fa ricorreva il settantaquattresimo anniversario della fine dell’insurrezione del ghetto di Varsavia. Poiché il cannocchiale è irraggiungibile da ormai oltre un mese e mezzo, e temo che sia definitivamente defunto – con conseguente perdita del migliaio buono di documenti postati in sei anni e mezzo – ripropongo qui il post pubblicato undici anni fa.

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È con questo grido sgomento che i tedeschi accolgono l’incredibile, l’impensabile, l’inimmaginabile: gli ebrei hanno armi. Questo branco di Untermenschen, questa ammucchiata di straccioni pidocchiosi indegni di vivere, hanno deciso di ribellarsi al destino loro assegnato: moriranno, sì, ma non in una camera a gas. Moriranno, sì, ma con le armi in pugno. Moriranno, sì, ma morirà con loro anche qualche combattente dell’esercito più potente del mondo, qualche rappresentante della razza dei superuomini, qualche orgoglioso dominatore ariano. E questa banda di straccioni riuscì a resistere all’esercito tedesco per quasi un mese: fino all’8 maggio 1943.
Quello che segue è un brano dal diario di Zvia Lubetkin, che fu tra i capi dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia (aprile 1943). Dopo la guerra, Zvia è emigrata in Israele con altri superstiti e nel giugno del 1946 ha rilasciato la sua prima testimonianza al Comitato del Kibbutz Hameuhad, al kibbutz Yagur. Zvia è stata tra i fondatori del kibbutz “Lohamei haghetaot”, in cui si è spenta nel 1978, a 64 anni.

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Si fa sera. Io e Haim Primer, del gruppo Akiva, ci mettiamo in cammino e Marek Edelman è con noi. Siccome anche Marek rientra nel nòvero dei “ragazzi indisciplinati”, quelli cioè che se ne infischiano degli accorgimenti di sicurezza, ecco che allora prendiamo con noi una candela per illuminarci la strada. La cosa è assolutamente proibita. La candela potrebbe metterci nei guai, ma, del resto, è difficile farne a meno e noi dobbiamo procedere furtivamente tra le rovine.
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Un soffio di vento spegne il lume. Rimaniamo bloccati tra le rovine di un caseggiato completamente buio, senza sapere dove siamo e dove andiamo. Cominciamo a scalare quell’ammasso di detriti. Ad un tratto, non so come, scivolo rovinosamente e cado dentro ad una buca tra le rovine. So che non devo urlare. Il primo pensiero che mi salta in mente è questo: dov’è la pistola? I miei compagni si sono spaventati più di me, perchè non sanno cosa mi sia successo. A fatica mi tirano fuori dalla buca. Zoppicante e piena di graffi, continuo il cammino.
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Ci avviciniamo a via Mila 18, dove ha sede il bunker principale dell’Organizzazione Ebraica di Combattimento. Il nostro spirito si rianima. Ci mettiamo a programmare degli scherzi da fare ai compagni che stanno di guardia all’entrata. Ma, ben presto, nei pressi del bunker, rimaniamo sorpresi perchè ci accorgiamo che qualcosa è cambiato, rispetto ai giorni passati. Non riesco a riconoscere il posto e, anzi, per un momento, mi sembra che abbiamo sbagliato strada. C’è qualcosa di diverso. Le rovine sono piene di brecce. Non ci sono le sentinelle vicino al nascondiglio, e il nascondiglio stesso, dov’è andato a finire? A un tratto, sono presa da un senso di angoscia, provo a soffocarla, forse i guardiani del bunker si sono spostati per coprirsi meglio. E loro stessi hanno messo le pietre all’entrata per camuffarla. Il bunker ha sei entrate. Noi ci dirigiamo verso la seconda, la terza, la quarta. Non esistono più e non si vede neppure traccia di un guardiano. Il cuore si riempie di orrore e ha tristi presagi. Uno di noi pronuncia la parola d’ordine, nel caso che una sentinella nascosta ci risponda, ma non si ode voce o segno di risposta.
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A questo punto, cominciamo a muoverci nervosamente e il timore di una disgrazia si fa largo nei nostri cuori. Nel cortile accanto, vediamo d’un tratto delle ombre che si muovono nelle tenebre, c’è chi è seduto e chi cammina. In un primo tempo, abbiamo l’impressione che il nostro gruppo si sia messo in azione come è solito fare al calar della sera. Ci dirigiamo gioiosamente verso quelle figure indistinte, che riconosciamo come i nostri compagni. Ma, subito dopo, ci arrestiamo davanti ad uno spettacolo terribile: davanti ai nostri occhi si presentano degli esseri sporchi di fango e di sabbia, stremati e tremanti come se non fossero di questo mondo. Uno di loro si accascia al suolo svenuto, un altro respira a fatica, Yehuda Vangrobar, dell’Hashomer hatzair, emette dei rantoli soffocati, pesanti e Tossia Altman giace a terra, ferita alla testa e alle gambe. Siamo attorniati da gente a pezzi, che, in modo concitato, ci racconta ciò che è successo, in che modo è andato distrutto il bunker dei combattenti ebrei di via Mila 18 e come in pochi siano riusciti a mettersi in salvo.
Qui incontriamo tre compagni, che come noi sono usciti l’altro ieri dal bunker per andare in missione nella parte ariana e sono tornati poco fa. Tuvia Bojikowsky, Mordechai Grovas, comandante di una delle compagnie dell’Hashomer Hatzair, soprannominato Mardek e Israel Kanal. Anche loro sono usciti in missione al di là della parte ariana, sono rimasti bloccati da qualche parte come noi e non hanno potuto fare ritorno. Si sono imbattuti e scontrati con una pattuglia tedesca, ne sono usciti illesi e sono rimasti nascosti tra gli ammassi di detriti, pronti ad affrontare il nemico. Sono arrivati qui prima di noi e hanno sentito le cose terribili avvenute nel bunker di via Mila 18.

E questo è quanto abbiamo raccolto dalle testimonianze dei superstiti:

Nel pomeriggio, mentre giacciono mezzi nudi sui loro giacigli, una sentinella dell’avamposto fa correr voce che dei gendarmi tedeschi si stanno avvicinando al bunker e, infatti, si sentono distintamente i loro passi. In questi casi, i combattenti prevedevano di reagire in due modi diversi. Secondo il primo, siccome i tedeschi inizialmente erano soliti ingiungere agli ebrei di venir fuori, allora usciva prima la nostra compagnia con le armi nascoste e dopo qualche secondo apriva il fuoco sul nemico e, nel trambusto che ne seguiva, i combattenti si sarebbero dileguati in ogni parte. Alcuni sarebbero morti in combattimento, altri sarebbero riusciti a mettersi in salvo. Il secondo modo prevedeva che bisognasse restare all’interno, ignorando le intimazioni del nemico. Se tentavano di penetrare con la forza, bisognava respingerli con uno sbarramento di fuoco. In questo caso, si poteva resistere per tutto il giorno, perchè i tedeschi non sarebbero entrati, e ci si poteva mettere in salvo. Si sapeva, comunque, che i tedeschi usavano i gas ma questa eventualità non era stata presa in considerazione. Qualcuno ci aveva pure detto che se si teneva un panno bagnato in faccia, i gas non producevano un effetto immediato.
A questo punto, si decide di ignorare l’ingiunzione perentoria dei tedeschi.
Quando arrivano e intimano alla gente di venir fuori, escono i civili, che si consegnano al nemico; dei combattenti, invece, non esce nessuno. I tedeschi dichiarano che chi si arrende viene mandato ai lavori ma chi si rifiuta di uscire è condannato a morire fucilato sul posto. I nostri compagni, nel frattempo, si barricano vicino ai vicoli e aspettano, armi in pugno, l’arrivo dei tedeschi, i quali ribadiscono la loro promessa che nessun male verrà fatto a chi viene fuori. Tutti i combattenti, però, ignorano la loro richiesta. A questo punto, i tedeschi evitano di penetrare nel bunker e cominciano ad immettere i gas, che si diffondono rapidamente all’interno del bunker.
Così arriva la fine spaventosa per centoventi compagni. I tedeschi non li condannano ad una morte rapida, dal momento che introducono nel bunker quantità minime e intermittenti di gas, per fiaccare in questo modo il loro spirito con un lento e progressivo soffocamento. Arieh Wilner è il primo ad esortare i compagni: venite, uccidiamoci, così non cadiamo vivi in mano dei tedeschi! Detto e fatto. Inizia una serie di suicidi. Si sentono degli spari provenire dall’interno del bunker: alcuni combattenti ebrei si tolgono la vita. Avviene anche che un’arma si inceppa e il suo possessore, afflitto e confuso, chiede al compagno di ucciderlo, ma nessuno se la sente di farlo. Berel Broide, che ha la mano ferita e non può impugnare la pistola, chiede ai compagni di sopprimerlo. Mordechai Anilewitz, fiducioso che l’acqua possa neutralizzare l’effetto dei gas, consiglia ai compagni di provare a farlo. Ad un tratto, arriva qualcuno e dice che c’è un’uscita segreta, ignota al nemico, ma solo pochi riescono a raggiungerla, perchè chi è rimasto in vita, si è indebolito per i vapori letali dei gas e sta morendo soffocato.
Tra i combattenti del bunker di via Mila c’è anche Lusek Rothblatt, militante del gruppo Akiva, insieme a sua madre Maria, che, a suo tempo, aveva diretto un orfanotrofio e ai tempi della grande Aktzia [retata] era riuscita a salvare molti dei suoi ragazzi e li aveva raccolti in un casolare abbandonato. Che cosa sia poi successo a quegli orfani, nel periodo tra la grande Aktzia [retata] e l’inizio dell’insurrezione del Ghetto, proprio non lo so. Adesso Maria Rothblatt è accanto a suo figlio e in quei tragici momenti di assedio al bunker, gli chiede di toglierle la vita. Lusek le spara quattro colpi ma la donna non muore subito e agonizza in una pozza di sangue. A quel punto, anche Lusek si toglie la vita.

Così venne recisa la gloria della Varsavia ebraica in lotta. Qui i combattenti ebrei trovarono la morte e tra loro anche Mordechai Anilevitz, il più amato e caro tra i combattenti, il comandante coraggioso, di bell’aspetto, che anche nei momenti più terrificanti, aveva il sorriso sulle labbra. Pochi si salvarono da quell’inferno. Tra loro, quelli rimasti feriti nei tentati suicidi, quelli semisoffocati dai gas, come Menachem Bugelman del Dror e Yehuda Vangrobar dell’Hashomer Hatzair.
Fu uno spettacolo orribile, sconvolgente. Tutti aspettavamo la fine, sapevamo che si stava avvicinando e non avevamo scampo. E, tuttavia, questa storia ci fece rabbrividire e inorridire. Il cuore continuava a piangere la morte degli amici e la sofferenza dei compagni mezzi morti. E c’era solo un desiderio: porre fine per sempre a questa agonia. Non conoscevamo il nostro stato d’animo. Come pazzi correvamo qua e là intorno al bunker e con le nostre unghie tentavamo di strappare le pietre ammassate della barricata. Forse saremmo riusciti ad arrivare ai cadaveri, a prendere le armi, ma i tedeschi avevano fatto saltare in aria tutto con l’esplosivo.
In pochi, con un senso di cordoglio e di lutto, ci levammo da quel luogo orrendo per trovare un rifugio al manipolo di compagni feriti e stremati e per pensare al domani. Le labbra sussurrarono qualche parola di commiato ai nostri compagni fedeli e valorosi, la gloria del nostro sventurato eroismo era stata recisa, la fine dei nostri sogni e delle nostre speranze vi era rimasta sepolta. Provammo la sensazione di andarcene da qui nudi e privati dell’anima, dei sogni, della fede… Tutto è rimasto sepolto qui, per sempre.
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E non dimentichiamo mai che tutto questo non sarebbe avvenuto – non in queste proporzioni, almeno – se a quel tempo ci fosse stato lo stato di Israele. Che non è nato, come amano dire gli antisemiti, a causa di (o grazie a, a seconda dei punti di vista), Auschwitz, bensì nonostante Auschwitz.

barbara