E questo allora cosa sarebbe?
barbara
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IL MIRACOLO DI CHANUKKAH
barbara
CHI NON CREDE NEI MIRACOLI NON È REALISTA
Così affermava David Ben Gurion. E questo è ciò che è accaduto l’altro ieri:
INCREDIBILE!!!
Tutti abbiamo sentito ieri del grande miracolo: un autobus che trasportava dozzine di soldati israeliani (che Hashem protegga) arrivato a Gaza è saltato in aria a causa di un missile, ma pochi minuti prima i soldati erano scesi trovando così la salvezza.
Ma ascoltate nel video cosa cantavano poco prima, cantavano AL HANNISSIM quella preghiera che cantiamo a Chanukah nel quale elogiamo e benediciamo Dio per i suoi miracoli, al tempo dei nostri padri e ai giorni nostri.
OK, pura coincidenza… Ma non lo sentiamo un brividino lungo la schiena?
Nel frattempo, sotto i missili, la vita continua. Nel senso più letterale: questo è il reparto di neonatologia dell’ospedale di Ashkelon, spostato in un bunker a prova di missile.
Qui, in mezzo al cemento armato, i bambini continuano a nascere, e i prematuri a essere accolti nelle culle termiche.
Ma vorrei anche ricordare il peccato originale, che ha portato alla tragedia che da tredici anni si è abbattuta sui kibbutz e villaggi al confine di Gaza – peccato originale perpetrato da un Ariel Sharon passato ormai da falco a pollo, irretito da un illustre demografo di sinistra che per mezzo di cifre palesemente false lo ha terrorizzato con lo spettro del sorpasso demografico, inducendolo a deportare da Gaza gli ottomila ebrei che vi risiedevano
barbara
UNA PALMA DI NOME MATUSALEMME (12/4)
C’era una volta Masada.
C’erano una volta gli scavi archeologici di Masada, che non finiscono di regalare sorprese.
C’erano una volta quattro semi di dattero, risalenti al tempo dell’assedio di Masada, circa duemila anni fa, ritrovati in una delle tante spedizioni archeologiche.
C’era una volta qualcuno che riteneva utile studiare i semi antichi.
C’era una volta e c’è ancora il kibbutz Ktora (o Ketora, o Ktura, o Ketura, che è anche il nome della seconda moglie di Abramo),
a nord di Eilat
nella valle dell’Aravà, ossia in pieno deserto.
Fondato nel 1973 da un gruppo di giovani sionisti americani, ampliatosi successivamente con l’arrivo di altri giovani di varia provenienza (nel 2015 si contavano 485 abitanti), si è specializzato nella sperimentazione sui semi, ossia nel selezionare i semi più adatti a svilupparsi naturalmente in un determinato terreno, clima, ambiente eccetera, oltre a sensibilizzare sui problemi ambientali, promuovere il riciclaggio e aprire un negozio dell’usato. Ma la cosa forse più singolare è l’industria high-tech delle alghe
(un compagno di viaggio ci ha spiegato che cosa succede dentro quei tubi, ma trattandosi di cose tecniche sulle quali la mia competenza è pari a zero, non mi ricordo più come funziona).
Ma torniamo a Masada, agli scavi archeologici, e a quei quattro semi di dattero vecchi di duemila anni trovati nel 1960 dall’archeologo Ygal Yadin durante lo scavo del palazzo di Erode. Un nocciolo, trasferito nei laboratori di genetica dell’università Bar-Ilan e poi di Gerusalemme, ha dimostrato di avere alcuni elementi ancora vitali e di appartenere a un tipo di palma estinto in Israele, conosciuto come la palma del deserto di Giuda. Così, come ci ha spiegato la pittoresca guida (pittoresco guido?) del kibbutz che doveva essere alto sui due metri-due metri e mezzo e che non aveva bisogno di microfono e infatti quelli più vicini ancora hanno i timpani che sbatacchiano come vele al vento dopo due mesi, è stato deciso, sia pure con scarsissime speranze, di tentare l’esperimento: il nocciolo è stato piantato, gli hanno dato fertilizzanti, vitamine, e anche brodo di pollo (chi è addentro alle cose ebraiche sa che è una battuta fino a un certo punto: il brodo di pollo, nel mondo ebraico, è considerato panacea per tutti i mali. E del resto sembra che non sia del tutto una leggenda, in quanto il brodo di pollo avrebbe determinati enzimi, diversi da quelli del brodo di manzo, efficaci contro raffreddore e influenza) e dopo un po’, nissei nissim, miracolo dei miracoli, la palma è nata! Ed eccola qui, recintata, vista la sua unicità, in tutto il suo splendore.
Nel frattempo è stato possibile determinare che si tratta di una palma maschio, e quindi giustamente denominata Matusalemme, e adesso, ha detto il suddetto pittoresco guido, si vorrebbe provare a piantare un altro di quei noccioli nella speranza che cresca una femmina, in modo da incrociarle e far rinascere la specie.
Per questo albero speciale, naturalmente, in occasione della benedizione sugli alberi non viene detto, come per tutti gli altri, “che hai creato buone creazioni e buoni alberi”, bensì “che resusciti i morti”.
barbara
LA GUERRA CHE ISRAELE NON AVREBBE DOVUTO VINCERE
di Niram Ferretti
Il cinquantesimo anniversario della riunificazione di Gerusalemme che cadrà il 23 di maggio e coinciderà con l’attesa visita di Donald Trump in Israele dal 22 al 23, riporta inevitabilmente alla memoria la Guerra dei Sei Giorni che permise a Israele di catturare Gerusalemme Est allora sotto dominio giordano. La fotografia in bianco e nero di David Rubinger dei tre paracadutisti israeliani immortalati davanti al Kotel (Muro del Pianto) è una delle immagini simbolo della vittoria israeliana. Vittoria che è entrata nella leggenda e che ci permetterà qui di svolgere alcune considerazioni.
La Guerra dei Sei Giorni del 1967 prese il via in virtù dall’aggressione araba determinata dalle ambizioni smisurate di Gamal Abdel Nasser, l’allora dittatore egiziano il quale voleva proporsi come il conducator dell’intero mondo arabo. L’intento di Nasser e dei suoi alleati, la Giordania, la Siria, l’Iraq, il Libano e l’Arabia Saudita, era quello di distruggere Israele. Si trattava, in altre parole, di risolvere in modo drastico la « questione ebraica » in Medioriente. Missione che già agli albori dell’impresa sionista si era incaricato di assolvere con solerzia e sotto benedizione hitleriana Amin Al Husseini. Ciò che invece accadde, la cocente sconfitta subita, costituì un trauma profondo per l’orgoglio arabo nonché la fine delle ambizioni panarabe del Ra’is.
Ma da questa sconfitta sarebbe nata la più pervasiva e incessante demonizzazione di uno stato sovrano che la storia ricordi. Incapaci di annientare Israele sul terreno, si è provveduto a farlo in effige attraverso la propaganda. Una propaganda che dura da 50, predisposta a tavolino dagli arabi allora in combutta con l’Unione Sovietica.
Lo Stato ebraico, trasformato in un mostro “genocida”, “nazista”, “razzista”, “colonialista”, “imperialista, non è altro che l’effetto di uno spostamento semantico. Tutta la negatività attribuita agli ebrei in quanto tali è stata trasferita al loro Stato. Non godendo più l’antisemitismo manifesto dell’ampio consenso collettivo di cui godeva un tempo, si è provveduto a riciclarlo in forma antisionista. E c’è qui un evidente discrimine tra una legittima critica a uno Stato e alle sue politiche e la narrativa nera che lo criminalizza. Gli israeliani “nazisti” sono esattamente la stessa cosa degli ebrei “deicidi”, gli israeliani “genocidi” sono la stessa cosa degli ebrei che venivano accusati di omicidi rituali di bambini, gli israeliani “razzisti”,”violenti” e “oppressori” sono ulteriori esempi del paradigma della colpa, l’assunto cardine di ogni forma di antisemitismo.
E’ stata la guerra che Israele non avrebbe dovuto vincere l’evento che ha rimesso in moto a pieno ritmo le rotative dell’avversione per gli ebrei, in una forma aggiornata e più accettabile, trasformando gli israeliani in carnefici e i palestinesi in vittime. Una volta fissato questo codice tutto il resto ne è conseguito inesorabilmente.
Nasser, alla vigilia della guerra, mentre ammassava le sue forze in attesa di attaccare Israele, cercava il pretesto per potere trasformare la sua volontà di distruzione dello Stato ebraico, in legittima difesa contro una aggressione israeliana inesistente. Fu Israele a prevenirlo con la memorabile azione deterrente che, all’alba del 5 giugno 1967, gli permise di distruggere l’aviazione egiziana prima che questa potesse mettersi in volo. Il “misfatto” di Israele è stato, per la seconda volta, la sua vittoria in una guerra che, come quella del ’48, avrebbe dovuto essere nelle intenzioni dei suoi iniziatori, annichilente.
I cinquant’anni della riunificazione di Gerusalemme e della vittoria “miracolosa” nella Guerra dei Sei Giorni sono qui per ricordarci contemporaneamente cinquanta anni senza sosta di assedio propagandistico contro lo Stato ebraico.
(L’informale, 20 maggio 2017)
E non sarà male rileggere anche questo. 5 GIUGNO 1967
barbara
CHE CULO RAGAZZI
Ieri sera il mio modem ha pensato bene di andare in malora. Per fortuna andando al supermercato, che è a 100 metri da qui, avevo visto un negozio di computer proprio lì di fianco. Per fortuna il negozio, che è in fase di trasferimento, si trasferirà ai primi di aprile: se lo avesse fatto prima non lo avrei mai visto e non ne avrei mai conosciuto l’esistenza. Per fortuna aveva lì disponibile un router molto simile al mio, cioè da dover sostituire solo il cavo di alimentazione, mentre per gli altri due andavano bene i miei già collegati, vale a dire che si trattava di una cosa fattibile anche da una come me. Per fortuna il tizio me lo ha configurato lui e oggi pomeriggio sono andata a prendermelo. Per fortuna il tutto, dopo qualche momento di tentennamento, ha preso a funzionare regolarmente. Per fortuna il tizio del negozio è anche tecnico e fa anche assistenza, anche a domicilio, eventualmente (non avendo un portatile bensì una bestia mastodontica, non è molto praticabile per me andarlo a portare). E così adesso, oltre al pc funzionante, dispongo anche di un tecnico.
Quanto al resto, giusto per fare un po’ il punto della situazione, posso dire che dopo quarant’anni di colite spastica, da due settimane ho preso a funzionare come un orologio; che un altro fastidiosissimo problema, che mi affliggeva da un buon paio di decenni e che diventava particolarmente drammatico quando ero sotto stress, è miracolosamente scomparso. E nonostante il superlavoro continui senza tregua, sto tenendo egregiamente botta. Dai, diciamolo: noi ragazzi della primavera del Cinquantuno siamo forti!
E ricordiamoci che la vita…
barbara
IL PRIMO MIRACOLO DI GESÙ
Ricevo, traduco e pubblico
Secondo il Vangelo, Gesù è nato a Betlemme, in Palestina: un Paese in cui le persone si chiamano Mohammed, Abdel, Mounir, Aziz, Farid, Omar, Youssouf, Mouloud, Moktar ecc. E, ciononostante, questo ragazzo è riuscito a trovare 12 amici che si chiamavano Giovanni, Pietro, Giacomo, Tommaso, Matteo, Andrea, Filippo, Giuda, Simone… e che bevevano vino! Non è un miracolo?
barbara
E DUNQUE
per dieci giorni ho arrancato penosamente con la caviglia bendata e col bastone, trattandola frequentemente con i gel adatti e col ghiaccio artificiale. Poi è successo che sono stata portata a vedere il mikvè più antico d’Europa (si prega di notare la scala per la quale sono scesa per arrivarci) e con la punta delle dita ho sfiorato l’acqua
(la foto, per la verità, è stata un bel po’ fotoshoppata, perché una volta scaricata e vista a schermo intero, ci siamo accorti che la scollatura del vestito si era abbassata in maniera decisamente imbarazzante, e quindi si è dovuto provvedere a ricoprire il troppo scoperto) e lì è avvenuto il miracolo: i legamenti rotti si sono velocemente riaggiustati, l’edema si è fortemente ridotto, i dolori attenuati, al punto che il giorno dopo mi sono arrischiata ad uscire senza le bende elastiche
e quello successivo ho definitivamente abbandonato il bastone (poi sono stata beneficata anche di altri quattro miracoli, ma di quelli non parlo).
barbara