GLI ARRESI

I sommersi, avrebbe forse detto qualcuno: coloro su cui troppo si è accanita la vita, fino a stroncarne ogni residua energia, ogni residua resistenza, ogni residua capacità di continuare a combattere. Coloro che troppo hanno dovuto lottare, e alla fine non ce l’hanno più fatta. Sullo sfondo, una guerra di cui, a differenza di altre, non si parla praticamente mai: quella di Korea (qui, per chi desiderasse informarsi); una guerra, come tutte le guerre, col suo carico di orrori – e il prezzo più alto finiscono sempre per pagarlo i più innocenti. E sullo sfondo dello sfondo un’altra vicenda di  cui troppo poco si parla: la presenza giapponese in Cina, le efferatezze e le crudeltà oltre ogni limite immaginabile imposte alla popolazione (se ne era dato qualche cenno qui). E la vita che dopo, dopo ciò che è stato fatto e ciò che è stato subito, dopo ciò che è stato impedito e ciò che non è stato possibile impedire, dopo che si è sbagliato e se ne è pagato il prezzo – e forse il prezzo era troppo alto, ma non siamo mai noi ad avere voce in capitolo, quando si tratta di stabilire i prezzi – la vita, dicevo, che dopo si continua a vivere, non si sa se davvero meriti di essere chiamata vita. E tuttavia bisogna viverla fino in fondo, fino al resoconto finale, quando tutti i nodi verranno al pettine e si sarà costretti, quantomeno, a guardarli in faccia.
L’ho comprato per sbaglio, questo libro, per via di una serie di malintesi, e scelto a caso. E mai caso e sbaglio sono stati più fortunati, perché è un libro bellissimo, da assaporare pagina per pagina, riga per riga, parola per parola, sillaba per sillaba. Tragedia per tragedia e riscatto per riscatto.

Chang-Rae Lee, Gli arresi, Mondadori
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barbara

CARNEFICI E VITTIME

Il 9 febbraio 1938, Goldfarb, giudice istruttore, avendo io rifiutato di scrivere sotto dettatura false deposizioni, contenenti accuse contro una persona a me sconosciuta, mi insultò, bestemmiò, strepitò, e alla fine mi informò che avrebbero arrestato mia moglie col bambino appena nato. Il 27 febbraio 1938, lo stesso giudice istruttore, rifiutandomi ancora di sottoscrivere deposizioni false, dopo avermi gridato parole oscene, mi torturò, fratturandomi le ossa. Quindi, minacciò di farmi fucilare, mentre io ero ridotto quasi allo stato di incoscienza. Lo stesso fece in modo che io potessi sentire le urla e il pianto disperato di mia moglie, arrestata, interrogata, insultata. Mi giunse alle orecchie anche il pianto del mio bambino lattante … Il giudice disse che avrebbe arrestato la mia vecchia madre e mia sorella … L’11 marzo del 1938, il medesimo magistrato  aprì la porta, mostrandomi mia madre di settantatré anni, arrestata, in catene e interrogata con l’accusa di spionaggio… Il 2 aprile 1938, il giudice istruttore fece in modo che io potessi sentire l’interrogatorio di mia sorella Ianina, alla quale veniva minacciato l’arresto della figlia, cioè di mia nipote … Il 3 aprile 1938, il giudice mi minacciò di condurmi subito nel sotterraneo del carcere Butyrskaja, per torturarmi, spezzarmi altre ossa e costringermi, così, a firmare le false deposizioni. Mi disse: tua moglie e il lattante sono agli arresti, e così la tua vecchia madre. Tua sorella e tua nipote ti hanno rinnegato. Obbedisci e firma, se no sarai massacrato di botte e, poi, fucilato. Alla fine ero ridotto in uno stato di abulia e di delirio. (pp. 373-374)

Carnefici e vittime è uno spietato resoconto dell’annientamento del comunismo mondiale nell’Unione Sovietica di Stalin, per mezzo delle famigerate “purghe”: accuse deliranti, processi farsa, “confessioni” di giganteschi complotti, di avere acquistato armi per uccidere Stalin, di avere spiato per conto di potenze straniere… Qui, in particolare, è sotto la lente l’annientamento del comunismo italiano, ossia l’eliminazione fisica di molti dei ferventi comunisti italiani riparati in Unione Sovietica per sfuggire alla dittatura fascista. Il tutto con l’attiva complicità di Togliatti, Roasio e Robotti. Libro documentatissimo, con riproduzione dei verbali degli interrogatori e testimonianze dirette. Il linguaggio, soprattutto l’aggettivazione, a volte risente un po’ dello spirito “da crociata” che muove l’autore, ma vale davvero la pena di sopportare questo piccolo fastidio per avere un’idea concreta di quale inferno sia stato il paradiso in terra del comunismo reale.

Giancarlo Lehner e Francesco Bigazzi, Carnefici e vittime, Mondadori
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IL PRIGIONIERO DEL CIELO

No, sai qual è il problema? Che i libri di quest’uomo non li puoi posare: non per mangiare, non per dormire, non per andare a fare quattro passi. Niente, quando attacchi la prima riga devi andare dritto fino all’ultima, facendoti accompagnare per mano attraverso le vie di Barcellona, e le sue case e i suoi palazzi e le sue bettole e i suoi bordelli. E le sue prigioni. Le prigioni, soprattutto. E i loro segreti che dovrebbero restare sepolti per sempre ma ogni tanto succede che no, che qualcuno riesce a sfuggire all’inferno e a far rivivere ciò che sembrava morto.
Come va a finire? Non lo so, perché

«Ti amo» dice, e la bacia, sapendo che la storia, la sua storia, non è finita.
È appena iniziata.

Appena riesco a mettere le mani sul prossimo – adesso che sono in pensione non avrò problemi a leggerlo tutto di fila – te lo saprò dire.

(Anche se, lasciatemelo dire, attribuire a uno nato nel 1937 un trisnonno ragazzo nel 1888, è roba da mandarlo in castigo dietro la lavagna coi ceci sotto le ginocchia per almeno 12 giorni di fila)

Carlos Ruiz Zafón, Il prigioniero del cielo, Mondadori
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NE MUOIONO PIÙ DI CREPACUORE

Ceci n’est pas une recension

Anche perché questo non è precisamente un romanzo. Cioè, è scritto come un romanzo, ma è chiaro che tutte le storie dello zio botanico e delle sue donne e dei suoi licheni (o forse dei suoi licheni e delle sue donne) e del suocero invadente e del parente imbroglione e del cugino svitato e del padre gaudente e della bambina e dei politici corrotti e venduti e dello stupro che forse non era vero ma forse invece sì, è chiaro, dicevo, che tutto questo è un mero pretesto per dire altro. Molto altro. Vorreste sapere che cosa? Beh, se questa fosse una recensione, magari ve lo direi, ma dato che non lo è, lo dovrete scoprire da soli.
Comunque è vero, secondo me, che ne muoiono più di crepacuore.

Saul Bellow, Ne muoiono più di crepacuore, Mondadori

barbara

LA GERMANIA SAPEVA

E loro che cosa avevano sentito esattamente?
Che gassavano gli ebrei, e anche gli stranieri. Davvero, si sapeva che li gassavano.

Veniva usato proprio questo termine?
Gassare. Sì.

Quando veniste a sapere dai sacerdoti che li gassavano, eravate in casa vostra?
Sì, in casa nostra. Ho già detto che era un punto di ritrovo di cui i nazisti erano al corrente. Sapevano che mio padre continuava a incontrarsi con gruppi di oppositori.

Lo sentì dire personalmente da quei sacerdoti?
Sì. In casa nostra si parlava solo di politica, a pranzo o durante la giornata. Non ricordo che si conversasse di altri argomenti. Crebbi in quel clima. I sacerdoti sapevano che da noi non sarebbero mai stati considerati dei traditori per quello che riferivano.

Ma loro da dove ricavavano le informazioni. Ve lo dicevano?
No, non ce lo dicevano. Le notizie sulle atrocità venivano fuori nel corso della conversazione.

Ne sentì parlare anche durante la guerra, diciamo nel 1942 o nel 1943?
Sì, e con parecchi particolari. Ma quando la cosa iniziò, dopo la Notte dei cristalli, tutti sapevano che sarebbe successo qualcosa di orribile. Forse dire «tutti» è eccessivo, ma certo lo sapevano tutti coloro che noi frequentavamo abitualmente.
La notizia arrivò anche all’università. Frequentavo le lezioni di anatomia del professor August Hirt, che in seguito si trasferì a Strasburgo. Era un uomo repellente. Ci raccontò che andava nei campi di concentramento a prendere i crani degli ebrei per misurarli. Misurare crani era il suo hobby. Quando ne trovava uno che gli interessava, l’ebreo veniva ucciso.

E lo diceva apertamente durante le lezioni?
Lo diceva apertamente durante le lezioni. E tra gli studenti c’erano quelli che lo applaudivano. Pensavano che fosse una cosa eccezionale.

Quando ve ne parlò?
Be’, dunque, io iniziai l’università nel 1940, quindi doveva essere negli anni tra il 1940 e il 1942. Hirt aveva bisogno dei crani e misurarli era il suo hobby. Quindi andava nei campi di concentramento a cercarli, anche tra i vivi. Non diceva che ammazzavano le persone, ma era ovvio che fosse così, in quanto solo i crani dei morti si possono misurare con precisione.

Gli studenti ne parlavano?
Le ragazze poco. Waltrud e io, però, ne parlavamo sia tra noi sia con i nostri amici e con le persone che condividevano le nostre idee politiche.

Ma lei ci credeva?
Sì.
(Testimonianza di Hiltrud Kühnel, pp. 204-205)

Quando lavorava a Saarbrücken nel 1942-1943, aveva idea di che cosa sarebbe successo agli ebrei?
Devo raccontarle un fatto. Durante la guerra i miei genitori furono sfollati a Hameln e io, in un modo o nell’altro, venni a saperlo. Dato che avevo la moto, decisi di andare a trovarli e portai anche una persona con me. Al ritorno passammo per la Turingia e ci fermammo in una città, non ricordo quale, non ci feci caso. Uno strano odore aleggiava nell’aria. «Che cos’è quest’odore?» chiedemmo. «Laggiù c’è un campo di concentramento, bruciano i cadaveri e fanno il sapone con gli ebrei» ci fu risposto.
Nei campi c’erano gli ebrei, ma non solo. C’erano pure i comunisti. Anche nella nostra città sparirono delle persone, alcune delle quali erano malate. Era tutto organizzato dal partito. Era il partito che le faceva sparire.

Intende riferirsi agli handicappati?
Sì, come pure agli epilettici e così via. Quel genere di malati. Sparirono tutti. Era risaputo. Oggi nessuno vuole ammetterlo, ma si sapeva.

Che cosa si sapeva?
Che li mandavano nei campi di concentramento.

Gli ebrei, gli handicappati o entrambi?
Tutti quanti. Gli ebrei venivano arrestati esattamente come gli altri. Sparivano. Vivevo in un centro in cui tutti si conoscevano. C’erano due famiglie di ebrei. All’improvviso scomparvero. Erano svanite nel nulla? Giocavo in una squadra di calcio di cui faceva parte un ebreo. Di mestiere faceva il panettiere. Si era trasferito da una cittadina che si trovava non lontano dalla nostra. Fu denunciato e poi arrestato perché era ebreo. E dove lo mandarono? La gente sapeva anche quello.

Tutti sapevano ma in seguito negarono e dichiararono che non ne sapevano nulla. Si parlava del fatto che gli ebrei venivano sterminati?
Lo si sapeva.

Lo si sentiva dire o lo si vedeva?
Diciamo che non si trattava solo degli ebrei. Anche altri venivano arrestati.

Va bene, ma gli ebrei non venivano solo arrestati, venivano sterminati.
Da noi ci fu un solo caso: un baldo giovane che era stato arruolato nelle Ss e assegnato a un campo di concentramento. Ma non ce la fece e venne fucilato, benché appartenesse alle Ss. E anche questo era risaputo nella nostra città.

Ma si parlava di dove andavano a finire gli ebrei? Molti dicono che nessuno ne parlava.
Mentono.

Lei ha detto che tutti sapevano.
Sì, tutti.

Ma come? Quindi se ne parlava?
Sì, certo. La gente veniva arrestata e mandata nei campi di concentramento. Gli handicappati, i malati…

Ha detto che si sapeva che gli ebrei, cioè le loro ossa, venivano utilizzati per fare il sapone?
Lo si sentiva dire dai soldati che li gassavano.

Dicevano che li gassavano? Dicevano anche questo?
Gassati. Li uccidevano e utilizzavano le ossa per fare il sapone, come se quella gente non valesse niente di più.
(Testimonianza di Ernst Walters, pp. 224-225)

Sebbene questi sopravvissuti siano diversi per età e sesso e siano stati deportati da località diverse e in tempi diversi in ghetti e campi di concentramento diversi, una cosa che quasi tutti hanno in comune è il fatto che la loro deportazione è avvenuta alla luce del sole. […]
Ma che cosa vuol dire esattamente «alla luce del sole»? In questo contesto significa che la loro deportazione è stata effettuata in modo che altre persone potessero assistervi e che la notizia di quanto stava accadendo si è diffusa attraverso il passaparola nel circondario. […]
Lungi dall’essere avvolte nel silenzio, le deportazioni di solito avevano luogo in pieno giorno e sotto gli occhi di un buon numero di comuni cittadini, dal momento che gli ebrei venivano trasferiti a bordo di camion scoperti o erano costretti ad attraversare a piedi le strade principali della città per raggiungere le stazioni ferroviarie dove venivano radunati e spediti alla loro destinazione finale.
(p. 319)

Forse qualcuno di quei tedeschi, di quelle decine di milioni di tedeschi che dopo la guerra hanno accoratamente giurato di non avere mai sospettato l’orribile fine dei propri concittadini ebrei, forse qualcuno dice la verità. Qualcuno. Forse. (E neanche in Italia, del resto, qualcuno poteva far finta di credere che dopo questo gli ebrei fossero destinati a vivere)

Eric A. Johnson – Karl-Heinz Reuband, La Germania sapeva, Mondadori

barbara

IL TRIBUNALE DEL BENE

Moshe Bejski esercitava uno strano mestiere. Faceva il pescatore di perle. Si tuffava nel passato per scoprire un tipo di uomini (di cui si parla sempre troppo poco) che nei tempi oscuri del mondo permettono di credere ancora nelle possibilità dell’uomo.
Non poteva eliminare le macerie della Storia, né ridare sollievo alle vittime. Non aveva la bacchetta magica per rimarginare le ferite, ma nessuno come lui sapeva mostrare quante risorse ed energie possiedono gli esseri umani per resistere al male.
Moshe era il presidente della Commissione dei giusti presso il Memoriale di Yad Vashem, a Gerusalemme, il primo organismo del Novecento che si sia occupato della memoria del bene compiuto durante un genocidio. Ricercava in ogni angolo del mondo gli uomini che avevano rischiato la vita per aiutare gli ebrei durante la persecuzione nazista.
«Non volevo che un solo giusto fosse dimenticato da noi ebrei» ripeteva con ossessione agli amici.
In realtà non era interessato alla purezza e alla perfezione degli esseri umani, non cercava gli eroi e i superuomini, ma voleva ricordare chi aveva tentato, di fronte a un male estremo autorizzato dalla legge, di salvare anche una sola vita, chi era stato capace di comportarsi semplicemente da uomo.
Era questo il suo concetto particolare di giusto.
Moshe amava gli uomini, non cercava i «santi». (p. 3)


Altre immagini qui.

“Ricorda cosa ti ha fatto Amalek” sta scritto. E giustamente continuiamo a ricordarlo, e giustamente continuiamo a inseguire Amalek per infliggergli la giusta punizione. Ma c’è anche chi, altrettanto giustamente, ha deciso di dedicare la propria vita, il proprio tempo, le proprie energie a un altro compito, ugualmente legato alla memoria: la ricerca dei Giusti. Moshe Bejski, uno dei 1200 della lista di Schindler, una volta liberato ha deciso di dedicarsi, appunto, alla ricerca di tutti coloro che, in mezzo alle tenebre più fitte, hanno portato un raggio di luce. Scontrandosi, spesso, con chi del “giusto” aveva un concetto molto diverso dal suo: quello di un modello, di un esempio, di un campione di moralità e purezza. Come far rientrare in questo stampo un individuo come Oskar Schindler, puttaniere, spendaccione, ubriacone, megalomane e tanto altro ancora? E tuttavia proprio questo individuo, proprio questa assoluta antitesi dell’eroe senza macchia, aveva messo in gioco tutto se stesso per salvare dalla catastrofe oltre un migliaio di ebrei. E con Schindler tutta una serie di altri personaggi, altrettanto poco limpidi, addirittura violentemente antisemiti, come Zofia Kossak, addirittura attivi nelle file del nazismo: sono “giusti” costoro? Non sempre è facile decidere, e non sempre le coscienze di chi deve decidere riescono ad accordarsi.
Va letta tutta, questa storia dell’indefessa battaglia di Moshe Bejski contro l’oblio, contro l’ingratitudine, contro il pregiudizio, contro tutto e tutti per rendere il dovuto riconoscimento a chi tanto aveva rischiato e tanto bene aveva fatto al mondo e all’umanità.

Gabriele Nissim, Il tribunale del bene, Mondadori

barbara